Intervista a Roberto Mezzina sul convegno Impazzire si può
di Silvia D’Autilia e Andrea Muni
Si è conclusa sabato scorso la quinta edizione di Impazzire si può. Il convegno si è svolto nello storico parco culturale di San Giovanni a Trieste e ha accolto per circa tre giorni (da giovedì a sabato) più di 300 ospiti da tutta Italia: persone con esperienza, familiari e associazioni legate in vario modo al mondo della salute mentale hanno affrontato insieme l’esperienza del disagio e i temi più caldi della salute mentale.
Roberto Mezzina, direttore del Dipartimento di Salute Mentale (DSM) di Trieste, Centro Collaboratore dell’OMS, ha rilasciato a Charta Sporca le sue impressioni sull’evento.
Impazzire si può quest’anno ha avuto una gestione completamente autonoma. La direzione del DSM ha solo fornito un minimo di strumenti economici, un supporto organizzativo e ovviamente gli ambienti perché l’evento si realizzasse. Ma per quanto riguarda i contenuti, la direzione non ha esercitato alcuna influenza, ha solo promosso l’evento con il Patrocinio della Provincia di Trieste. Sono state le associazioni (più di trenta) che, in sinergia col Gruppo di Protagonismo “Articolo 32”, hanno organizzato autonomamente le giornate. Ed è stato giusto così. Come diceva John Cage: “se le idee hanno gambe vanno da sole per il mondo!”
I ragazzi delle varie associazioni si sono impegnati tantissimo nei giorni precedenti tra prove e riunioni. Un gran lavoro di confronto è avvenuto all’interno di gruppi, cui hanno preso parte le persone con esperienza diretta di “recovery”/guarigione, ma anche i familiari, gli operatori e i volontari attivi nel campo della salute mentale. Quando parliamo di “recovery” ci riferiamo a un’esperienza assolutamente soggettiva di cui oggi le persone vogliono parlare. Non solo le persone, ma anche i servizi devono sviluppare un linguaggio diverso, fondato sulla fiducia e l’incoraggiamento delle potenzialità che ogni individuo ha di poter riprendere in mano la sua vita. Bisogna offrire non solo supporto medico-psichiatrico ed eventualmente farmacologico, ma soprattutto aiuti materiali, mezzi e strumenti, luoghi e occasioni di aggregazione e di socializzazione, per favorire un’interconnessione tra strutture e operatori e creare le condizioni affinché i soggetti possano ritrovare la propria strada, in continuità con il loro percorso esistenziale. Inoltre, del convegno, quest’anno ho apprezzato molto la parte organizzativa e scenografica: dal palco c’è stato un vero coinvolgimento del pubblico: l’attenzione non era rivolta solo al palcoscenico, c’era gran fermento anche in platea.
Una delle agorà nella giornata di Venerdì aveva come tema Protagonismo e istituzioni: come mantenere il campo aperto della contraddizione? Diciamo che questo mantenersi a lato da parte dei vertici del DSM ha rappresentato certamente un esempio virtuoso di come l’istituzione possa favorire il protagonismo delle associazioni e dei singoli, senza comunque abbandonarli a se stessi.
Sì, se l’organizzazione fosse stata quella tipica di eventi del DSM, si sarebbe magari fatto tutt’altro programma, ma è proprio questo il punto. Questi percorsi e strutture devono avere vita autonoma: è stato bello vedere le persone, dal basso, autoconvocarsi e organizzarsi in maniera autonoma. È inevitabile che chi ha un minimo di potere e riveste ruoli istituzionali cerchi di influenzare, imprimere delle pieghe alla realtà, ed è per questa ragione che ho trovato invece utile astenermi, per quanto possibile, dall’organizzazione diretta dell’evento, proprio per favorire una messa in atto, sia pur minima, di contropoteri capaci di ritagliarsi i propri spazi non tanto dentro all’istituzione, quanto piuttosto in rapporto dialettico con essa. Durante il convegno hanno preso la parola direttamente le persone, i protagonisti appunto, e hanno parlato di “supporto tra pari”, che non è l’autoaiuto ma l’entrata dei soggetti nella gestione dei servizi, e poi di lavoro, cooperazione e risorse del territorio, di “recovery” e quant’altro.
Le ricerche dell’OMS e molti studi scientifici ed epidemiologici hanno contribuito a cambiare radicalmente il preconcetto della cronicità riguardo al disturbo mentale severo. Forse una sola definizione di guarigione non esiste. Non può essere definitiva. È soggettiva e cambia. Raggiungere un minimo compromesso o una basilare convivenza con la propria complessità esistenziale forse è già una forma di guarigione. Non sempre è facile riadattarsi al contesto di vita in cui ci si trova. La persona guarisce quando ha meno bisogno del servizio, ma anche quando c’è un’accettazione del disagio da parte della persona stessa e all’interno della società. Le persone con un disagio mentale non migliorano se sono in solitudine, se non hanno contatti sociali, culturali e materiali che le aiutano a ristabilire un equilibrio personale. Il tal senso, la guarigione diventa un diritto e assume una dimensione sociale e politica. Servono allora servizi che garantiscano un’accoglienza e un percorso di cura adeguato, risorse economiche per promuovere inserimenti nella società, politiche sociali e culturali che contrastino lo stigma e la discriminazione, relazioni di aiuto che siano di reciprocità. Le persone con esperienza di disagio mentale oggi possono collaborare con i servizi in qualità di “facilitatori”, mettendo a disposizione le proprie conoscenze e i saperi acquisiti al fine di aiutare chi sta compiendo un percorso simile o molto simile. Il Supporto alla Pari tuttavia non può sostituirsi al servizio, ma si affianca ad esso. Il fine è quello di costruire un ponte comunicante tra i soggetti e tra i soggetti e le strutture. Soggetti con disagi gravi, come udire le voci, hanno individuato soluzioni ai propri problemi confrontandosi con persone che hanon attraversato con successo questa esperienza. La condizione di parità facilita la relazione di aiuto: il Peer Support Worker non si avvale solo di competenze tecniche acquisite a livello teorico,ma, come ci hanno mostrato i francesi ospiti del convegno, anche della propria esperienza di vita. Questo è il motivo per cui il Peer Support è, prevalentemente, un’azione informativa e orientativa, nonché un momento importante del percorso di ripresa e guarigione.
Nella mattinata di venerdì i presidenti delle cooperative sociali hanno preso la parola lamentando, quasi tutti, la mancanza di fondi e una legge sugli appalti che li penalizza e squalifica. In particolare si faceva riferimento all’obbligo di fatturato irraggiungibile, da parte di piccole cooperative sociali, per poter partecipare ad esempio agli appalti che riguardano la pulizia delle scuole. Nel contempo, durante la tavola rotonda che si è tenuta qui in direzione, operatori provenienti da Salerno e da Roma hanno ammesso di ammirare e invidiare Trieste, sia per l’ampia dotazione di fondi di cui dispone, sia per la rapidità con cui tali fondi vengono messi effettivamente a disposizione. Trieste è davvero un’oasi felice?
I presidenti delle cooperative sanno benissimo quali sono le dinamiche economiche nella loro difficoltà e a mio avviso nella situazione locale sono molto sostenuti da noi e dall’Azienda Sanitaria. Riguardo a Trieste devo dire che il problema principale è quello di uno sbilanciamento ancora persistente tra il soddisfacimento di certi bisogni “umani”, che è ben presidiato, e una pratica che consideri l’insieme dell’esistenza delle persone in termini trasformativi, quello che gli inglesi chiamano “whole life approach”, capace di garantire non solo la cura, ma un reinserimento del soggetto nella società. Il cosiddetto “Budget di salute”, per esempio, adotta davvero la persona come focus centrale, ma anche qui il rischio è che i professionali, insieme con i supporti del privato sociale, restino il solo elemento di traino riconoscibile e riconosciuto. I servizi sono indispensabili: devono essere attivi 24 ore su 24, 7 giorni su 7, essere dotati di flessibilità organizzativa e mobilità territoriale, lavorare in équipe, offrire interventi multidisciplinari, favorire la partecipazione e attivare il privato sociale attraverso forme di collaborazione.. Ma sono le persone stesse, che hanno dei potenziali incredibili, com’è dimostrato ad esempio da questa stessa manifestazione, che vanno veramente valorizzate, e al contempo responsabilizzate, come soggetti del loro cambiamento e anche di quello dei servizi stessi.
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Il titolo del convegno, Le terapie vanno in terapia, non è forse un po’ dimentico di cosa succede davvero nel mondo della salute mentale e di cosa implica la cura? La terapia, in senso etimologico, è una presa in cura, non solo e sempre necessariamente un trattamento.
È stata una scelta frutto del gruppo di lavoro che ha organizzato l’evento, anche questa totalmente autonoma. Alcune persone si sono incontrate, hanno riflettuto sul senso e sul valore della cura e ne è uscito questo titolo, che evidentemente ha una sfumatura ironica. È ironico infatti che nel nostro campo molte cose si possano fare solo se ricevono la certificazione di “terapia”, e che gli stessi contributi economici per i vari progetti siano vincolati a questa etichetta. Resta un dato ambiguo: da un lato vi sono risorse che garantiscono diritti sociali, tra cui oltre il lavoro e la casa anche la socialità, come a tutti i cittadini, dall’altra essi stessi sono strumenti che intervengono e modificano il disagio, e quindi lo trasformano, come le terapie dovrebbero fare.
La legge 81/2014 prescrive la chiusura dei sei OPG e l’apertura, al loro posto, delle cosiddette REMS (residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza) entro il 31 marzo 2015, ma di fatto rimane immutato l’impianto giuridico e legislativo che regola l’internamento in manicomio criminale. Durante il convegno si è discusso molto riguardo alla prevista chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), un argomento caldo e delicato oggi per la salute mentale. Cosa è emerso?
Il dialogo è stato fruttuoso, anche se devo dire che mi sarebbe piaciuto che ci fosse qualche testimonianza diretta in più. Quella della riforma della legge su infermità e semi-infermità mentale è una battaglia politica e culturale ancora molto lunga e difficile. Servirebbe riformare interamente gli articoli 88 e 89 del codice penale (ovvero quelli riguardanti l’infermità e la semi-infermità mentale, ndr), che prevedono che una persona considerata folle, incapace, non debba più rispondere delle sue azioni. Non dimentichiamo che il nostro codice penale (noto anche come “codice Rocco”, dal suo principale estensore, ministro della giustizia durante il fascismo), promulgato nel 1930, prevede la non imputabilità, il proscioglimento e la misura di sicurezza col ricovero in OPG per chi, autore di reato, venga riconosciuto – in base a una perizia psichiatrica – infermo o semi-infermo di mente. Insieme alla nozione di pericolosità essa va a costituire il cosiddetto sistema del “doppio binario” (per cui il soggetto non deve scontare una pena, ma viene sottoposto alla misura di sicurezza a titolo di tutela e difesa dell’ordine sociale la misura di sicurezza, ndr).
Il manicomio criminale, stupefacentemente, è nato in Italia prima di quello civile: la sua esigenza era quella di essere un “contenitore” ulteriore rispetto a quel “contenitore” che già era il carcere. Un’esclusione al quadrato! C’è un bellissimo libro di Romano Canosa, che s’intitola Storia del manicomio in Italia dall’Unità a oggi, che ripercorre proprio l’evoluzione storica (e parallela) degli OPG e dei manicomi civili. Affinché le strutture e i programmi pensati per il loro superamento creino percorsi sensati di riabilitazione, deve cambiare la cultura, deve esserci personale formato, strumenti formativi, progetti assertivi di cura sul territorio, prima che accadano i reati e non dopo; non ci può essere un unico trattamento, soprattutto per il “paziente difficile”, quello che non vuole accedere alle strutture, che fa uso di sostanze, con cui non si riesce a interagire. I servizi devono essere complessi e devono essere il frutto di un approccio duttile, e di una presa in carico personale e singolarizzata.
Spesso infatti per queste persone il rischio è quello di finire in una sorta di ‘circuito psichiatrico’, per cui una volta fuori dall’OPG o dal reparto psichiatrico, passano di struttura in struttura, senza intraprendere alcun percorso effettivamente riabilitante.
Sì, era un concetto già espresso da Steadman quello di ‘circuito’ come effetto della psichiatria deistituzionalizzata. In America, durante la deistituzionalizzazione, sono sorti dei contenitori per così dire ‘di massima sicurezza’. Ce ne sono ovunque e di ogni tipo nel mondo, tra cui gli OPG, ma anche altre strutture fondate su reclusione e contenimento dei comportamenti. Per questo in Italia dobbiamo evitare di costruire REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) vere e proprie, cioè mini-OPG che riproducono cura e custodia assieme. In Italia l’OPG è una struttura ormai decrepita anche se ancora utilizzata. Paradossalmente, però, il fatto di non aver ovviato prima a questo problema, ci ha risparmiato la soluzione americana e ci offre oggi la possibilità di pensare a una strategia davvero capace di far coesistere l’umanità con la sicurezza sociale. Al momento ci sono sei OPG nel nostro paese: a Castiglione delle Stiviere, Reggio Emilia, Montelupo fiorentino, Barcellona Pozzo di Gotto, Napoli e Aversa. Come in tutti i cambiamenti, il rischio è quello di dare per scontata la praticabilità di un nuovo che, in realtà, è ancora molto lontano dall’essere definito: c’è un bel dibattito in piedi. Già avere una buona consapevolezza della questione e discuterne è importante. Sono ottimista sul fatto che si possano chiudere queste strutture, così come sul fatto che si possa fare una battaglia culturale per riformare il codice penale sull’infermità mentale, anche se mi preoccupano molto la debolezza e la fragilità dei Dipartimenti di Salute Mentale, nonché delle loro risorse e strumenti operativi.
Cosa ne pensa del fermento che si è creato intorno alla futura destinazione sociale del ristrutturato Padiglione Ralli? È d’accordo anche Lei con la proposta, supportata già da Rotelli e Reali, di farne un centro culturale di aggregazione giovanile?
Devo dire che la ritengo un’ottima proposta. Il parco di San Giovanni è nato per costruire momenti d’inclusione sociale e la politica del DSM è sempre stata favorevole ad accogliere iniziative culturali di vario genere per interagire con la comunità, basti pensare a Radio Fragola, o agli spettacoli teatrali dell’Accademia della Follia. Certo, bisogna anche vedere come si fanno queste cose, non siamo una social-democrazia scandinava che innerva il sociale con progetti di grande livello, ed è impensabile che la cosa duri senza un’autogestione forte e responsabile. Non so se un’alleanza tra associazioni e istituzione possa davvero riuscire a creare qualcosa di vivo, non so bene quale possa essere la chiave per riuscire a tenere assieme il movimentismo giovanile e l’aggancio con le istituzioni. Probabilmente questa sarà la sfida più grossa.