di Silvia Maffetti
“Kiyo” significa limpido, come un corso d’acqua che scorre cristallino senza trascinare con sé detriti e scorie lungo la via, incurante delle asperità, rimanendo puro nel tempo e nello spazio. Così suo padre, il Maestro, era solito spiegargli la scelta del nome che gli era stato dato alla nascita: un presagio, un marchio indelebile a tracciare il suo destino, ad assegnargli un percorso prestabilito pari a quello di un fiume. Sono ormai dieci anni che il Maestro non c’è più, eppure l’eco di quelle parole risuona vivida nelle orecchie di Kiyo, come il battito di mille kotsuzumi[1]. Immobile di fronte allo specchio, il kimono allentato sul petto, osserva un volto che fatica a riconoscere. L’espressione severa, i lineamenti induriti, il viso intagliato dalle rughe precoci di chi è cresciuto troppo in fretta. Quante volte si è dimenticato chi è? Ormai non tiene neanche più il conto. Sospira, distende un poco gli arti indolenziti, poi lancia un’occhiata rassegnata all’assistente di scena che sta facendo il suo ingresso nel camerino: è di nuovo ora di prepararsi a scomparire. Si sfila di dosso il kimono di cotone grigio, rimanendo in sottoveste e tabi[2] bianchi. Tutto in lui è di un pallore spettrale. Chiude piano gli occhi e prova a visualizzare la scena della vestizione nella sua mente, come se al posto suo ci fosse qualcun altro e potesse viverla dall’esterno. L’assistente rimpiazza la veste con un kimono con le maniche a tre quarti, un candido surihaku di seta dipinta a fantasie dorate che gli arriva alle ginocchia. Sopra al kimono lo aiuta a indossare degli ampi pantaloni di seta rossa ricamata lunghi fino ai piedi. Kiyo sente il respiro farsi affannoso, mentre un koshi obi[3] stretto in vita gli comprime lo stomaco, e rimpiange di essere presente a sé stesso, non ancora del tutto invisibile. È quindi la volta della “veste d’acqua”, un secondo kimono di cotone bianco che per i personaggi femminili del nō[4] viene portato aperto. A occhi chiusi il fruscio della stoffa che gli viene modellata addosso, strato dopo strato, ha il suono della brezza che sfiora le fronde dei pini nella baia di Suma. C’è una fanciulla là, sulla spiaggia, abbigliata esattamente come lui: sta piangendo in maniera straziante, lacrime copiose le solcano il bel volto, deformandone i lineamenti e facendola somigliare a una pazza. Le si avvicina, le accarezza dolcemente i capelli e in un sussurro le promette che presto non sarà più costretta a soffrire, è quasi giunto il momento di tramutarsi in vento. Kiyo prende tra le mani la maschera di una giovane donna e la osserva come se fosse la prima volta. La pelle è chiara e levigata come i sassi di un ruscello, le guance sono piene, la mandibola ha una forma squadrata e la fronte ampia è attraversata da sbiadite sopracciglia discendenti che le conferiscono un’aria malinconica. Le labbra rosso cremisi si incurvano in un sorriso forzato, quasi sinistro, svelando una fila di denti tinti di nero. L’attore tiene stretto quel volto di legno tra le dita che ora tremano come fiammelle in una notte ventilata. Inclina lentamente la maschera, lasciando che la luce la colpisca in vari punti, così che la sua espressione spazi dalla tristezza al sollievo, dall’amore all’astio, sino alla follia omicida. Si trova, suo malgrado, a ripetere quel copione sempre uguale, ogni giorno, distanziandosi man mano dalla sua natura, dalla sua vera essenza. E poi c’è lei, lo spirito di Matsukaze[5]. Lo implora di non lasciarla sola a combattere contro tutta quella oscurità. La vede singhiozzare, gettarsi a terra, strapparsi i capelli in un accesso di rabbia. Arriva persino ad abbracciare un pino, scambiandolo per il corpo dell’amante scomparso. Non può abbandonarla. Allunga le mani e le poggia la maschera sul viso. È tutto finito ormai, ci penserà il vuoto nella sua anima a inghiottire quelle lacrime, la strenua danza di una performance senza fine che, esibizione dopo esibizione, rievoca un dolore sempreverde. Quando Kiyo muove i primi passi leggeri sul palco, non è altro che uno shite[6], il fantasma di sé stesso.
…
NOTE
[1] kotsuzumi: piccoli tamburi giapponesi a clessidra caratteristici delle performance di teatro nō.
[2] tabi: calzini tradizionali di cotone giapponesi che arrivano all’altezza della caviglia e che separano l’alluce dalle altre dita del piede.
[3] koshi obi: fascia di seta indossata all’altezza della vita per sostenere i pantaloni e tener chiuso il kimono.
[4] nō: forma di teatro sorta in Giappone nel XIV secolo. È una forma d’arte poco accessibile i cui testi sono costruiti in modo da poter essere interpretati liberamente dallo spettatore: per permettere l’immedesimazione del pubblico con i personaggi, la recitazione degli attori non punta alla fedeltà interpretativa, ma a una sorta di condizione di straniamento che consta di una grazia e di una raffinatezza distaccate. È caratterizzato dalla lentezza e dall’uso di maschere caratteristiche. È piuttosto comune che anche i ruoli femminili siano interpretati da uomini.
[5] Matsukaze: famosa opera di teatro nō basata sulla storia di due sorelle, Matsukaze e Murasame, un tempo innamorate di Ariwara no Yukihira durante il suo esilio nella baia di Suma. Dopo la sua partenza, giunge loro notizia della morte dell’amato e muoiono anch’esse di dolore. Nell’opera viene rievocata questa sofferenza grazie ad un monaco che dopo aver visto un loro memoriale le incontra in sogno e ascolta la loro storia. Famosa è la scena di Matsukaze (che letteralmente significa “vento tra i pini”) che scambia un pino per la figura del suo amato.
[6] shite: attore principale del nō, generalmente quello che indossa la maschera. Molto spesso interpreta uno spirito.