di Nicola Bocola
L’aria che si respira nei sobborghi di Detroit è una miscela di anidride carbonica, diossina e male di vivere. Ottocento chilometri lontano dagli sguardi inebetiti dai neon e dalle luci intermittenti dei turisti in visita a New York. Meta numero uno degli europei che hanno appaltato con trattativa privata alla HBO e a Hollywood bisogni indotti e preferenze, anche per quanto riguarda la villeggiatura. A Detroit, invece, non ci va più nessuno. Il cielo plumbeo di cinquanta sfumature di nera disperazione si staglia sopra la città fallita del Michigan, mentre indistinguibili ombre nere si allungano nei quartieri dormitorio abbandonati, tra cocci di bottiglia e lampioni rotti che, con diciotto miliardi di debito, nessuno viene più a sostituire.
Contemporaneamente trenta persone, faccia a terra sull’asfalto dissestato, vengono ammanettate. Sono tutti lavoratori impiegati nei fast-food che scioperano davanti ad un McDonald’s. Come loro, in altre 150 città statunitensi, i lavoratori dipendenti delle varie catene, da Burger King a KFC, si sono mobilitati per chiedere diritti sindacali e quei quindici dollari orari che gli permetterebbero di non essere totalmente dipendenti dai sussidi statali. Anche perché, negli attuali 7,25 dollari lordi l’ora (previsti come minimo federale), va compresa anche l’intera social security – che tra Federal Insurance Contributions Act e Medicare tax, assieme alle altre deduzioni fiscali (volontarie e non), può arrivare ad alleggerire la paga netta fino al 20%.
Qualcuno obietta che se i lavoratori dei fast-food iniziassero a prendere 15 dollari orari, niente niente, i colletti bianchi avrebbero diritto ad un aumento proporzionale che, a catena, farebbe scalare gli stipendi verso l’alto creando un’inflazione galoppante e chissà quali altri disastrosi squilibri macroeconomici. Sarebbe la fine dell’America così come la conosciamo. Lo spettro di una Weimar statunitense non è paventato solo dai conservatori liberisti, ma anche dalla stragrande maggioranza della piccola borghesia liberal, cresciuta a panini e self-made men. Poco importa che le probabilità che un tale scenario si avveri sono le stesse che ho io, il mercoledì sera in fame chimica, di incontrare al-Baghdadi in un kebabbaro del centro: è irrilevante. È sufficiente considerare il gap di reddito tra ceto medio impiegatizio e ceto dirigenziale per accorgersi quanto sia ridicolo paventare un tale scenario weimeriano.
Ad essere invece grave ed agghiacciante è piuttosto la pacifica interiorizzazione di un mors tua vita mea tra lavoratori. Un sentimento e un odio malcelati che emergono crudi e feroci dal presunto anonimato offerto da internet, nei commenti sprezzanti sotto le notizie e sui social network. È tutto un insensato gioco a somma zero, in cui i contendenti si disputano a morte una coperta troppo corta.
Dopotutto, è proprio di un salario di sopravvivenza che si parla quando più della metà dei dipendenti impiegati nei fast-food risulta campare con i sussidi e i buoni alimentari offerti dallo Stato. Non che non ne siano coscienti. Non c’è certo bisogno di un MBA alla Bocconi per intuire che parte delle favolose entrate di McDonald’s proviene dai buoni pasto erogati dal governo federale ai dipendenti delle corporations, mantenuti al minimo legale salariale. Si arriva così al paradosso per cui sono proprio i liberisti a difendere in congresso i sussidi e buoni pasto federali, per paura di perdere i favori delle corporations. Una reinterpretazione piuttosto creativa delle teorie del vecchio Friedman (Milton, non Alan, beninteso) che ad oggi costa ai contribuenti statunitensi ben 7 miliardi di dollari l’anno (cfr. LW Kille, “The public costs of low wages paid by the fast-food industry”, Journalist’s Resource, 24-10-13).
Se non altro, agli americani va dato il merito di essere riusciti a dimostrare l’inguaribile ottimismo della legge ferrea dei salari di Lassalle. Perché mai i salari reali dovrebbero tendere ad allinearsi al livello di sussistenza quando, con qualche buono pasto offerto dal governo federale, si può conservarli – in maniera pilotata e programmatica – ampiamente al di sotto di tale soglia? Non è un caso che, cifre alla mano, un dipendente delle corporations su cinque risulti vivere sotto la soglia di povertà (con un’incidenza quindi quattro volte superiore rispetto alla media della forza lavoro) .
Dai dati della ricerca pubblicata dall’U.C. Berkeley Labor Center, risulta inoltre che sono spesso famiglie in cui il breadwinner (o comunque il maggior contributore) è impiegato in una catena fast-food. Ma come, si dirà, non sono prevalentemente teenager o, al più, studenti fuorisede che, erosi dal senso di colpa per la consapevolezza che non troveranno mai un lavoro – non rientrando nel socialmente celebrato tridente d’acciaio costituito da economia-medicina –, per pesare meno sulla famiglia, accettano contratti a tutele cingalesi per due spicci (che poi comunque finiscono in vodka da discount e in cocktail fatti con il Jagdstolz, il ripoff Lidl del Jägermeister)? Non esattamente. Ovvero, i contratti sono gli stessi, ma più di due terzi risultano essere adulti indipendenti di cui, uno su quattro, con figli. Va da sé, assieme all’età media, si è alzato anche il livello d’istruzione, con un terzo dei lavoratori laureati.
In Italia la situazione è fondamentalmente analoga. “La paga qui è bassa – spiega al Fatto Quotidiano Cristian Sesena, della segreteria Filcams CGIL – ma, paradossalmente, migliore di quella statunitense perché i nostri livelli di welfare garantiscono contributi previdenziali e sanità pubblica”. Per il resto, si assapora nei panini gommosi la stessa lugubre miseria e costante rassegnazione che si mangia negli Stati Uniti. Anche in Italia McDonald’s, che rappresenta il maggior marchio del settore, è rimasto fedele alla linea americana, sottraendosi fermamente a qualsiasi confronto con il sindacato. Già a suo tempo la Filcams dichiarava che le relazioni sindacali con l’azienda, a livello nazionale, erano pressoché inesistenti. Come ciliegina sulla torta aggiungiamo che, dal primo gennaio 2015, la Fipe-Confcommercio (associazione datoriale di categoria) prevede la disdetta del contratto nazionale, perché “non più sostenibile nell’attuale situazione di crisi”. Sarà sostituito con un regolamento unilaterale. Con l’anno venturo, quindi, il CCNL servirà definitivamente, e unicamente, per incartare le patatine.
Nell’ormai affermata epoca dei working poor, dove per sfuggire all’inedia non basta più lavorare, i nuovi proletari della cosiddetta ristorazione veloce guardano all’orizzonte con livida rassegnazione: occhi vacui e sguardo perso nel vuoto, mentre meccanicamente ripetono tra sé l’articolo 36 della costituzione. Nessuna rivoluzione, nessuna speranza e nessuna redenzione davanti a sé: solo un mercato flessibile basato su una “necessaria” con-fusione di produttività e precariato (spoiler: no, non c’è). Sacrificio, rappresaglie sindacali, grassi saturi e miseria.