Carissimi lettori, inauguriamo questa nuova rubrica del sito dove pubblicheremo le opere propriamente letterarie. La aggiorneremo in ogni fine settimana, nello specifico la domenica. Iniziamo con un racconto di Giulio Blason e Piero Rosso.
Etologia sopra una zona di guerra
La strada, fiume in attesa della piena, ombre armate scivolano dai suoi affluenti. Hanno dita veloci e bocche discrete, ma il visore del cecchino, giovane maschio, non può saperlo: segue solamente qualche flutto furtivo, qualche testa che spuntando brilla come un pesce e poi si rituffa. Sembra di far la guerra alle onde, alle montagne. Dall’alto del suo nascondiglio sembra dire a quelli con le mani alzate: “sappiate che non mi è concesso graziare la vostra ignoranza”. Alcuni suoi colleghi si sono rincretiniti nelle grandi attese, credendosi emissari del Signore, sgozza-pecore; sostenevano che il cecchino è come il papa, conficcavano la parola divina direttamente nel cranio della gente, convinti che il loro dito fosse il nervo teso tra la volontà di dio e la morte.
Si avvicinano delle grida, le accompagnano gli scoppi metallici dei tamburi: tonfi bassi e pesanti sostengono le urla affilate come lame del norcino. Eppure, per chi guarda da sopra, sono gli elementi silenziosi, rimossi, che attraggono maggiormente l’attenzione. Da ognuno dei balconi che circondano la città sporge un fucile, puntato come il becco di una gazza ladra, attratto dalle cose belle. Ogni giorno qualcuno di loro canta e ruba: c’è chi ha preso un pezzo di orecchio, chi un intero ginocchio, chi si è portato via persino un capobranco.
Una donna dal velo turchese ha attirato l’attenzione del cecchino, la osserva spostare sacchi di sabbia, a testa bassa, per evitare i colpi; se qualcuno dei suoi vuole rubarle un pezzo di braccio, lui urla come se scacciasse i corvi. Finché il turchese si muove significa che niente è stato rubato.
Fuori dalla visuale si avverte uno scoppio, per colpa del fumo c’è da riposizionare il visore, prendere del tempo per capire. Se allo stesso tempo la femmina urla per un motivo davvero inaspettato, come il morso viscido di una salamandra, ci vuole altro tempo per riposizionare, mettere a fuoco, farsi un’idea di quello che succede; troppo tardi per intimare agli altri di non sparare! capita di avere il colpo facile a stare così tanto seduti a combattere. Una salamandra si aggira impacciata tra le pozzanghere, si diceva, evita qualche piede, si inzacchera le zampe di sangue e lascia striscioline rosse con la coda, dipingendo centinaia di venuzze per terra. Passa accanto a un corpo, gira gli occhi, guarda le mosche che gli ronzano attorno, deglutisce: che doveva fare, mettersi a piangere?