di Sara Nocent
This is the way, step inside.
(Joy Division, Atrocity Exhibition)
Che ansia. Chissà perché lo ripetiamo così spesso. Forse dirlo a qualcuno ci rassicura, ci mette sullo stesso piano del nostro interlocutore, ci permette di esporre un piccolo angolo lecito della nostra vulnerabilità. Siamo certi che nessuno ci biasimerà per averlo detto e in fondo già sappiamo cosa farà chi ci troviamo di fronte: confesserà che è nella stessa situazione o al massimo cercherà di tranquillizzarci.
Questa prevedibilità delle reazioni ci rassicura anche quando ce lo diciamo da soli, visto che il “Che ansia!” implica e invoca sempre qualcun altro. L’ansia come disturbo ci tocca infatti nella nostra solitudine, ci fa tremare e ci isola, mentre il dire “Che ansia!” è diverso: ci mostra, ci mette nella posizione di dire agli altri, con un po’ di narcisismo: “Guardami, anche io non sono pronto”.
Spesso questa formula ci viene in soccorso nei momenti di attesa: non è poi così carica di significato, è già quasi un sospiro di sollievo, e una volta detta va a occupare uno spazio interpersonale, con un amico o un estraneo, che diventa subito più intimo – anche se spesso solo in apparenza. Se poi in questo “spazio” si inserissero l’ironia congelata di un meme, uno psicologo o un sussidio statale, non tutti penserebbero che qualcosa sia andato storto in questa conversazione appena abbozzata. Eppure il punto sta proprio nello scardinare la falsa prossimità creata dal “Che ansia!” per indagare piuttosto che cosa mostriamo e nascondiamo, a noi stessi e agli altri, del nostro vero disagio.
Nella prima parte di questa “lettera” mi ero riferita all’ansia come al sintomo di una più radicale angoscia del nulla tipica della nostra generazione nata precaria. Dire che l’ansia è un sintomo non è affatto un modo di sminuirla o di non riconoscere il dolore di chi ne soffre clinicamente, ma è piuttosto l’unica via che abbiamo per non smettere di cercare le ragioni profonde di questa sofferenza.
Ansia per il futuro? Per una prova che ci sembra insuperabile? Avviciniamoci di più a questa affermazione, accorciamo lo spazio interpersonale in cui si è persa o in cui forse, al contrario, ha istituito qualcosa. Non è così che potremmo sentire il bisogno di specificare il motivo per cui abbiamo detto di essere in ansia? O forse inizieremo a capire che questo nostro sfogo quasi involontario non ha bisogno di essere spiegato.
Il “Che ansia!” infatti si inserisce pienamente nell’ottica performativa, è lo stadio più scarno della dissimulazione di chi vuole ancora fare bene. E se è vero che una generazione senza certezze ne ha fatto il suo slogan, è altrettanto evidente che la precarietà stessa contiene ancora in sé le ceneri del discorso (auto)imprenditoriale, le sue promesse mancate e brucianti. Il nulla che come ho detto ci minaccia è, in realtà, oggetto di un enorme malinteso per cui viene interpretato come un nulla al posto di qualcosa che avrebbe dovuto esserci e non come il nulla puro, il desiderio senza mancanza che libera invece di condannare. Nel dire che ansia non diamo sfogo al nostro disagio di fronte al sistema, ma ne confermiamo i doveri morali.
Sapete cosa sarebbe davvero rivoluzionario? Trovare qualcuno, in questa perenne sala d’attesa, che di fronte a questo nostro canonico momento di debolezza dica “Io non ho ansia”, oppure ci risponda “Io invece sono felice di essere qui” o “Io ho veramente paura”.
Lo stadio medico dello sviluppo
Un paio di mesi fa, negli Stati Uniti, un gruppo di specialisti ha raccomandato di effettuare degli screening per l’ansia ai bambini dagli otto anni in su. Nello stesso periodo, in Italia, veniva rinnovato e promosso il bonus psicologo dopo che i giovani si sono trovati di fronte alla domanda sempre più insistente “Siete malati?” e in molti hanno risposto di sì.
Prevenzione e logica riparativa del trauma: la pandemia ha rimesso in gioco anche questi due schemi comuni alla medicina e alla politica, dove la metafora della malattia ha perso il suo carattere di figura retorica ed è diventata reale. C’è un solo problema: siamo sicuri di aver compreso in maniera corretta un disagio che potrebbe essere più sociale che individuale? Non è che forse abbiamo scambiato le parole per le cose, confuso il “Che ansia!” dei ragazzi di fronte ai cambiamenti portati dalla pandemia con l’angoscia di chi effettivamente ha intuito una discesa irreversibile?
Siamo tutti in fila per il dottore.
Lounge act in parole
Dovremmo fare appunto questo: riportare il “Che ansia!” al dominio delle parole. Anche in questo contesto la sua affermazione toglie e impoverisce più che aggiungere qualcosa di autentico. Provate a pensare a tutte le sfumature di sentimenti a cui rinunciamo ogni volta che ci adattiamo a questo mantra. Avremmo a disposizione una prateria di sostantivi, in gran parte inesplorata se non addirittura evitata, per mezzo dei quali incontrare il nostro dolore: preoccupazione, frustrazione, colpa, paura, terrore, vergogna, insicurezza, inadeguatezza, prostrazione, angoscia, noia, nostalgia e così via. Pensate solo all’uso meravigliosamente consapevole che per esempio Kierkegaard e Leopardi hanno fatto di alcuni di questi termini.
Nella nostra sala d’attesa, in quella situazione da cui siamo partiti, ovviamente non possiamo sperare di arrivare a queste vette del pensiero, tuttavia dovremmo cominciare a sentire che la scelta delle parole adatte non è soltanto uno scrupolo lessicale ma ci porta a essere sinceri con noi stessi. Sarebbe poi stimolante cercare di dimenticare, nel trovare un sostituto decisamente meno ipocrita al “Che ansia!”, tutte quelle parole che si sono infiltrate nell’uso corrente da ambiti come la medicina e la psichiatria: stress e paranoia, per dirne un paio. La stessa forma dell’esclamazione è falsa: potremmo cercare di esprimere quello che sentiamo utilizzando il caro vecchio “io” ed eliminando il carattere impersonale, quasi ambientale, di quel che ansia.
All’improvviso qualcuno rompe la sonnolenza lounge che lo blocca assieme agli altri nel presente e dice, con una chiarezza inedita, “io sono terrorizzato”, perché è così che si sente nell’aspettare un futuro di cui già da ora si sente derubato. L’estraneo che sta vicino a lui lo guarda di sottecchi, disprezzando la sua nudità.
Ansimare
L’agitazione tipica del disturbo d’ansia e l’etimologia stessa di questa parola ci portano a pensare una connessione con il soffocamento e con la mancanza d’aria. Il respiro affannoso, l’ansimare nella fatica sono tuttavia immagini molto distanti dal lamento compiaciuto del “Che ansia!”. Un sospiro, comunque, sfugge spesso a chi si sfoga dicendolo.
L’interruzione del respiro è qualcosa di estraneo a questa attesa. Apnea, immersione nel terrore: all’opposto del finto momento di rilassamento di chi è pronto ma dice di non esserlo c’è il controllo e la sospensione del respiro, la disciplina del dolore e dell’estasi. C’è la filosofia definita nel Fedone di Platone come melétē thanàtou, “esercizio di morte” portato avanti dai mistici che lasciavano che l’anima esalasse dal corpo.
Re-spirare. Contro un’abitudine che ci restituisce solo apparentemente la tranquillità, proviamo a vivere fino in fondo ciò che sentiamo, ripetere la prova estrema, sentirci vivi.
Qualcuno nella sala d’attesa cita Tasso ansimando: “Io vivo? Io spiro ancora?”.
Riti e memini
Ammettiamolo: dire che siamo in ansia prima di un esame è quasi un rito propiziatorio. Sarà per questo che non resistiamo alla tentazione di ripeterlo anche nei giorni precedenti e perfino in quelli successivi per dire come è andata. “Stavo in ansia”. Come se fisicamente ci fossimo trovati in una vasca trattenendo il respiro, senza nessuna possibilità di uscire, mentre in realtà questo “stare” era solo un mode on, un rito di preparazione attivato prima di una performance.
La raffigurazione dell’ansia come un qualcosa di più grande che inghiotte e sovrasta il singolo è molto diffusa nei meme, con una particolarità: spesso è raffigurata come una presenza “amica” che accompagna ovunque il soggetto dei meme e lo trattiene con i suoi “abbracci” un po’ soffocanti. Tra l’immagine della vasca e quella dei meme penso che la prima sia quella più vicina al vero disagio che si prova quando si ha a che fare con l’ansia. Ma il “Che ansia!” riguarda tutti e tutti possiamo sorridere riconoscendoci in quel soggetto perseguitato dei meme.
Nell’atrio c’è addirittura una persona che ha un arcobaleno e la scritta “I’ve got anxiety” sulla maglietta.
Quasi quasi Wilhelm Reich
Una prima risposta all’impoverimento e all’appiattimento che accompagnano il rimbalzare del “Che ansia!” da una bocca all’altra sarebbe quella di de-ritualizzare questa espressione, scherzare fino in fondo su questo prezioso momento di insicurezza rinunciando ai toni pastello e alla blanda ironia delle emozioni evocate dai meme. Basterebbe una risata: colossale, improvvisa, quasi mortale come quella attribuita dalla tradizione al filosofo Crisippo. Potremmo provare a lasciarci trascinare dall’assurdità della nostra paura di sbagliare, far crollare in un colpo solo tutte le cerimonie delicatamente autodenigratorie previste dalla formalità del contesto e suggerite dalla buona educazione.
Questo nostro non sentirci adatti o pronti ha una grande potenzialità: potrebbe infatti farci capire che nessuno lo è e che, in fondo, non importa esserlo. La prova imminente, gli eventi futuri, il problema che ci troviamo di fronte non chiedono alcuna capacità né preparazione, perché accadono e accadranno a prescindere da quello che abbiamo pensato o fatto prima. Siamo noi stessi, in realtà, il primo censore e giudice del modo in cui gestiremo gli eventi. Siamo quindi in ansia di fronte alla nostra stessa valutazione? In verità non solo, non dimentichiamoci che c’è sempre qualcuno, con noi, in queste situazioni di attesa: sentiamo gli sguardi convergere, le promesse crollare, le aspettative naufragare nel mare di tutti i successi possibili. Tanto vale tuffarsi in questa precarietà, immergersi, essere sicuri della propria insicurezza.
Ci sono due giovani, uno accanto all’altro nella coda: uno sta guardando Strappare lungo i bordi, l’altro sta leggendo un’opera di Wilhelm Reich. Uno dei due scoppia a ridere.
Doomscrolling ma si legge solo “doom”
In fondo alla stanza si sente qualcuno piangere. Deve stare veramente male, pensano tutti. Ma nessuno lo consola. La sala d’attesa oscilla nel suo sguardo come un’immensa massa nera: tutto è perduto, l’acqua è finalmente salita fino alla gola. Non resta nulla di umano.
Ultima alternativa: andare verso il dolore. Conoscerlo, stringergli la mano, chiamarlo con il suo nome, come si fa con i demoni per evocarli. Ansia, depressione, panico: se veramente sono lì, perché dovremmo nasconderli? Questa condizione è lontanissima da quella evocata dal “Che ansia!” e anzi la prima, persistente tentazione è di non condividerla con nessuno.
Ma è necessario che qualcuno di umano ci salvi. Non qui, non in questa sala d’attesa dove tutti si scambiano un’iniezione di insicurezza o passano il tempo nel doomscrolling, ovvero nella ricerca compulsiva di notizie negative su fatti che nemmeno li riguardano. Per cosa? Per quella scarica di preoccupazione, per quell’ansia superficiale, momentanea, che non ci spinge ad agire.
Propongo un’alternativa doom: non fare finta che tutto vada bene e non sorridere quando non ci sentiamo di farlo è rivoluzionario. Chiediamoci se il nostro è un vero disagio e impariamo a conoscerlo, a liberarci delle presenze falsamente vicine di chi raccoglie e condivide il nostro “Che ansia!”. Quello che fa veramente paura è l’impersonalità che ci circonda in questi momenti in cui ci è richiesto di operare, il fatto che nessuno stia capendo come si senta veramente l’altro e che nemmeno ci provi. La nostra irriducibile solitudine.
L’attesa è finita. Per di qua, entri pure.
Noi anziani, proprio perchè siamo anziani, non riusciamo a capire le situazioni reali delle giovani gnerazioni. E spesso continuiamo a fare politica senza guardare al loro futuro. Lo so che è difficle farlo, me ne rendo conto. Basta guardare le informazioni che spesso si leggono sui giornali, o nelle TV e la stessa radio, per non comprendere niente di quello che accade, e oggi, per caso ho letto questo articolo nel solito SINISTRAINRETE.INFO. E così ho scoperto il sito di CHARTASPORCA.IT, E senza pensarci molto sono entrato in quel sito e ho ripreso in questo sito questo articolo dal titolo “Lettera aperta a noi ventenni”. Chi scrive questo articlo è Sara Nocent, e mentre leggevo il suo articolo ho pensato che una delle questioni più importanti che avevo sempre detto anche in Facebook era la necessità, anzi l’indispensabilità, che le generazioni, quelle precedenti e quelle successive, dovevano dialogare insieme. E per questo avevo sempre detto che la prima cosa importante è la nostra memoria, quella degli anziani che dovevano prima di tutto consegnare la loro memoria ai giovani. Se questo non veniva fatto, quello che accade è proprio l’articolo di Sara Nocent, che non conoscevo, ma che da adesso, da questo preciso momento, io farò quello che lei ha richiamato nel suo stesso articolo. Anzi, dopo aver ripreso questo suo articolo, visto che c’è questa possibilità, farò nel suo sito una piccola riflessione dandogli i miei più sinceri auguri perchè ne ha bisogno. Ma anche per far si che le generazioni diverse, giovani e anziani parlino tra di loro. Facciano tutti uno sforzo perchè il futuro non è nostro da molti anni, mentre loro hanno il diritto di avere un futuro che noi abbiamo avuto nel bene e nel male. Tutte le generazioni devono raccogliere tutti insieme il passato di chi come me lo ha avuto dalle generazioni precedenti alla mia, e questo deve riprendere con tutta la forza, soprattutto oggi, per le problematiche terribili che sono le guerre, e le sempre più grandi differenze tra le generazioni e tra i ricchi ed i poveri. Perchè questo mondo deve fare fa esattamente il contrario. E io su questo essendo Comunista, e anche sindacalista della Cgil, per quanto mi riguarda questo processo storico è solo una vergogna. Ringrazio ancora Sara Nocent che ha scritto un articolo molto importante, e che purtroppo sia i nostri Governi, sia le nostre Regioni, sia le nostre città sono fuori dal tempo e dallo spazio.