di Marco Menato
L’esposizione “Frammenti di un inconscio condiviso”, inaugurata a Gorizia il 18 marzo 2022 alla galleria ‘Prologo’ nella suggestiva via Ascoli, dal 29 aprile è stata trasferita a Romans a Casa Candussi-Pasiani e dal 27 agosto al 18 settembre sarà ospitata nell’abbazia cistercense di Follina (provincia di Treviso). Il catalogo è previsto per l’appuntamento di Follina, fino ad ora è disponibile un pieghevole.
La mostra, organizzata da Livio Caruso, che è anche uno degli espositori, prende le mosse dall’importanza che ha avuto Gorizia nella storia della psichiatria contemporanea, per essere stata la prima sede nella quale Franco Basaglia teorizzò e sperimentò il nuovo approccio con la malattia mentale. Il risultato non fu, evidentemente, dei migliori se dovette emigrare a Trieste, dove invece un giovane presidente di provincia, democristiano, sposò il suo progetto (quindi la rivoluzione, se fosse stato per Gorizia, non sarebbe forse nemmeno avvenuta oppure quanto fatto sarebbe stato considerato al più un esperimento). Questo per scrostare da falsi miti le storie del passato, che non sempre sono belle perché sono appunto ‘passate’, e per evitare che Gorizia, nell’immaginario comune, diventi la città ‘perfetta’. In questo caso, la scelta del tema è un po’ legata alla mitologia goriziana di cui dicevo (ben tramandata anche da alcuni servzi televisivi di Sergio Zavoli) e un po’ alle esperienze lavorative e alle letture di Livio Caruso. Scrive infatti Caruso nella presentazione (non ancora pubblicata): “Quanto ogni individuo e a maggior ragione un artista pensa, crea, realizza e produce, il risultato ottenuto dall’elaborazione ragionata e cosciente non è altro che l’atto finale di processi a tergo, di una invenzione frutto dell’affioramento alla coscienza di quanto vissuto in silenziosa inconsapevolezza. Eppure, di tale inconsapevolezza, ne avverte il flusso, i movimenti, le vibrazioni, le apparizioni, le ombre, i Déjà vu. Ma anche le credenze e le convinzioni, unite a quel sottile timore, o paura, che promana dal non conosciuto o non coscientizzato, dall’imprevisto, dal rifiutato, dal negato, e via dicendo, giocano nella fase conclusiva un ruolo spesso non secondario”.
Il gruppo, che non è si costituito formalmente – e questo è certamente un bene -, ha riflettuto sulla tesi e ha prodotto una serie di opere che o si collegano al tema o ad esso si ispirano o, più semplicemente, sono opere in precedenza costruite che l’artista scopre essere collegabili al tema proposto. La questione della ‘titolatura’ delle opere, specie se astratte, non è così banale come potrebbe sembrare ed investe la filologia della storia artistica, con riflessi sulla stessa percezione che l’autore ha per l’opera e in generale sulla ‘cultura’ dell’autore. È chiaro che analisi simili possono essere praticate su periodi della produzione artistica di un autore o di un’epoca: in questo caso sono molto utili le spiegazioni offerte dagli stessi autori (meno dai critici, almeno per l’età contemporanea). Quindi considero didatticamente interessante il cammino proposto da Livio Caruso, completato con le considerazioni dei singoli autori, come mi è capitato di valutare in occasione di una visita guidata non da un critico ma da tutti gli artisti, che si sono quindi esposti in prima persona e hanno spiegato con dovizia di particolari le ragioni delle loro scelte tecniche e culturali (ammetto che, in molti casi, le spiegazioni erano pure intriganti).
Gli artisti sono, in ordine alfabetico: Ada Marina Candussi, Alberto Caruso, Livio Caruso, Bruna De Fabris, Pranvera Gilaj, Laura Grusovin, Francesco Imbimbo, Vera Elvira Mauri e Genti Tavanxhiu; rappresentano tutte le età e le tipologie di esperienze (dall’autodidattismo alla certificazione accademica e del mercato specializzato). Due sono di origine albanese: Gilaj, la più giovane di esperienza, e Tavanxhiu, l’unico scultore, con prestigiosa carriera. La mostra ospita anche le installazioni di Livio Caruso e di Imbimbo (presenti anche con quadri tradizionali), forse un po’ sacrificate in fatto di spazio. Fra gli incontri curati da Caruso per far vivere la mostra, oltre la classica cerimonia di inaugurazione, ricordo quello dello scorso 23 maggio, nel quale sono intervenuti Giuseppe O. Longo, scienziato e scrittore, che ha parlato del ‘Perturbante freudiano’, e l’artista Manuel Grosso che ha brevemente illustrato la poetica del Surrealismo. Gli allestimenti, pur nella difficoltà delle varie sedi, sono stati curati da Imbimbo, che ha privilegiato un percorso coloristico e non tematico che poteva sembrare o scontato o non perspicuo.
Mostra di intrigante interesse per natura, tipologia del materiale, e per i temi trattati. Sarebbe opportuno diffonderne il catalogo, se disponibile,soprattutto per la impossibilita talvolta di raggiungeree le pur invitanti sedi espositive. Complimenti agli autori e ai responsabili della realizzazione.