a cura di Carlo Selan
La prima sezione, Canzone di Spalato, si chiude con un’immagine, «due donne chiacchierano e un pallone vola… / lo fermo e lo ridò alla bambina stupita / che è al centro della storia». Questa bambina stupita che «è al centro della storia» ricorda un’altra conclusione, quella del racconto Un paio di occhiali di Anna Maria Ortese:
– Mammà, dove stiamo? – Nel cortile stiamo, figlia mia, – disse donna Rosa pazientemente; e il sorriso finissimo, tra compassionevole e meravigliato, che illuminò i suoi occhi, improvvisamente rischiarò le facce di tutta quella povera gente. – È mezza cecata! – È mezza scema, è! – Lasciatela stare, povera creatura, è meravigliata, – fece donna Mariuccia, e il suo viso era torvo di compassione, mentre rientrava nel basso che le pareva più scuro del solito. Solo zi’ Nunzia si torceva le mani: – Ottomila lire, vive vive!
Tra Ballate di Lagosta e questo racconto c’è una comune maniera di rapportarsi con il mondo che è quasi sensuale per quanto è diretta e legata ai sensi. Uno stupore bambino e una meraviglia, infatti. Stupore, però, che è anche mezzo scemo («all’alba/credi di sapere cosa sia la guerra / con la birra della tradizione, la Karlovacko/ ancora sulla panchina») e mezzo cecato («di questo stato di carogne, per cui la vita è dura, l’ombra è il trauma/ e la cecità decisiva», «abbiamo bisogno di un chiaroscuro […] di non accorgerci che questo blu è l’istinto di morte che ci sovrasta»). Stupore che si confonde con il sogno («siete voi questi sogni che pensano l’esistenza»).
Se nel racconto di Anna Maria Ortese è un paio di occhiali da ottomila lire a divenire sguardo e possibilità di trasfigurare nella luce la Napoli poverissima e ferita del dopoguerra, nelle Ballate di Lagosta la «bambina stupita / che è al centro della storia» sembra essere personificazione di una possibilità di sguardo. La vista è senso prediletto nel rapporto con la realtà in questi testi. Eppure chi si muove come soggetto nei testi utilizza anche occhi diversi: quelli così precariamente falsi del turista, ad esempio, nei numerosi elenchi di oggetti e cose. Sguardo, dunque, e messa in questione del che cosa significa guardare, trattenere le cose nell’attenzione, mantenere un rapporto di alterità con quanto si percepisce. In questo forse si spiega tanta parte della complessità di versi come «io ti chiamo nella tua bellezza, prima che tutto si veda nella sua immagine».
Cosa ne pensi?
Innanzitutto lo sguardo è immediatamente storico e poi politico: entrare nei templi romani di Spalato può far pensare alla società umana tra passato, anche recente, e presente. Certo, la cecità culturale esiste, e c’è chi venera il capitalismo senza costruire, ma solo compra. Le fotografie in vendita sulle pietre sono di coloro che se ne sono andati, anche in un altro continente, alla fine delle guerre mondiali, che non solo per nazionalità o credo religioso o politico hanno lasciato le terre d’origine, ma per sopravvivere, per cercare una vita migliore e per sfamare le famiglie.
La divaricazione dello sguardo tra le epoche è impercettibilmente servita, ma è drammaticamente attuale: ci si trova di fronte a cosa resta del passato e tra costanti migrazioni… Dall’alto di un belvedere si osserva lo stadio di calcio e tra le bancarelle i turisti del palazzo di Diocleziano, mentre immediata la disseminazione e ibridazione tra diverse culture emerge nel paesaggio, ad esempio nella stratificazione degli interventi urbanistici, ma pure nella socialità che si può trovare nei mercati del Mediterraneo. Fa da contraltare il palcoscenico della nuova vita occidentale, e ai confini interni di questo impero capitalista che è unico si contrappongono i vari sistemi di potere nazionali e multinazionali. Sotto altre bandiere, la sezione iniziale, Canzone di Spalato, pone in modo sottile la questione del nazionalismo in relazione a una società mondializzata, multiculturale e multilinguistica, che rischia di perdere la memoria (una memoria che è disseminazione e scambio) e, dunque, se stessa per l’adesione inconsapevole ai sistemi economici e comunicativi predominanti. La bambina stupita che gioca con il pallone è quella a cui consegnamo il futuro, e se da un lato si desidera che essa conservi lo stupore, dall’altro la poesia indica alcuni processi e li elabora, affinché gli antefatti della storia non costituiscano un freno verso l’incontro con le persone e le culture.
Le prime due sezioni mettono in relazione questo stupore, che può divenire libertà e scelta consapevole, con lo stigma lasciato dalla storia e con le storture dell’attuale sistema economico capitalista, per cui poco importa se migliaia di uomini muoiono in mare o siano schiavi su altre sponde dello stesso lago salato.
L’individuo di cui si narra all’inizio arriva come in sogno in chiesa, mentre la stessa litania va avanti da chissà quando; si osserva smemorato nella processione, mentre c’è chi lo accoglie con amore, però immediatamente esplode qualcosa di sensuale, e allo stesso tempo doloroso, quando le spine si conficcano nella bocca di una madre che combatte dolcemente per donare un significato nuovo all’esistere, educando pur «inghiottendo i veleni del mondo».
Per poter rivedere la bellezza sembra sia indispensabile osservare il mondo oltre i pregiudizi e l’attaccamento al benessere personale, anche se ciò implica affrontare un nuovo sguardo, quello della realtà che ci consegna guerre, morti, distopie, soprusi sociali e speculazioni di ogni genere. Il soggetto di queste prime sezioni, che è anche quello che riemerge nelle ultime, si chiede dove trovare un angolo per amare considerando ciò che accade attorno a lui, nel Mediterraneo e non solo.
Questo chiedere un luogo dove amare è importante, fondamentale, anche se tutto attorno c’è un ripetersi di drammi e tragedie nella totale amnesia della storia.
Quindi lo sguardo è quello che si trova prima di ogni immagine, che si trova nello stupore, che conserva la gioia, ed è anche quello che si ritrova alla fine nella sensibilità poetica, che cerca e porta in sé la conoscenza, anche il dolore, ma soprattutto un luogo per l’azione dell’amore e della vita.
Buona parte dei testi de Ballate di Lagosta ha nel titolo dei nomi propri di persona dal tono slavo. Nomi che sembrerebbero essere quelli di chi abita a diverso titolo l’isola croata di Lastova (Lagosta in italiano), da cui il titolo della raccolta. E come se chi scrivesse Ballate di Lagosta (l’autore) cercasse di risolvere una questione della precarietà del suo poter dire quanto sta guardando, quanto sente e osserva, chiamando a raccolta dei nomi, degli incontri densi o fugaci. Non dando loro la parola, in forma di testimonianza (anzi, la cosa più interessante è proprio che questo non avviene, ma ogni nome è invece messo in un rapporto articolato con un Io che nelle poesie dice sé stesso, un tu o un egli) ma attestando che in qualche modo che essi ci sono, esistono, non sono dimenticati. Mojmir, Marijana, …
Chi sono questi nomi e in quale maniera entrano in dialogo con il soggetto che scrive, che ferma quanto guarda e ascolta attorno a sé? Si può parlare di queste figure come possibilità per l’autore di recuperare quella doppia ambivalenza del termine auctor che esiste fin dall’antichità: chi è vero e proprio esecutore o creatore di un’opera ma anche chi è soggetto che autorizza l’opera stessa ad essere e a essere chiamata tale? Forse, infatti, compartecipano alla possibilità di essere di questo libro tutta una serie di nomi e persone non dimenticati ma trascritti uno a uno. Persone la cui identità è anonima e nel contempo stesso così necessaria e precisa. «per chi è senza futuro, /per chi è nato, /ma non ha nulla / ed è perduto e sembra nell’aria/ portato dal mare, /portato da chissà dove /un incanto che è morte / canto alla memoria».
Esistono queste persone? Sono esistite? Sì. Vivono nelle Ballate? L’obiettivo è consegnarli alla poesia e al racconto, nell’ipotesi che la comunità sia concreta, e che sia esistito chi ci ha lasciato, anche se non ne conosciamo il nome. Sono le tante meravigliose persone che incontriamo e a cui vogliamo bene, che sono poesia, e c’è chi è stato portato via alla poesia della vita.
Ho delineato questi personaggi, descrivendo il loro pensiero, le azioni e le emozioni, anche l’indignazione per quello che accade e non viene considerato: è un’epopea antieroica in cui tutti noi possiamo essere personaggi del libro, perché quando parlo con una persona e mi faccio ispirare la mia suggestione è farla rivivere, e la sensibilità e la riflessione appartiene sia all’uomo che incontri per strada sia al fisico dei nanomateriali. La poesia può essere una dichiarazione, in questo caso d’esistenza, se penso al termine latino dedicare. Ma a cosa sono consacrati i nomi?
Ci sono titoli e nomi in quasi tutte le sezioni, tranne in quelle in cui il desiderio è consegnare un messaggio, che in poesia non si trasmette solo a chi è contemporaneo, ma a chi viene. Il cantare astronomie private di nomi è il tentativo di riconoscere nella moltitudine di uomini il comune denominatore che è la vita, nelle sue differenze di visioni ideologiche e politiche, linguistiche e culturali. Poi, dopo aver indicato e descritto approcci differenti e possibilità, la poesia ha necessità di consegnare un messaggio, altrimenti sarebbe un tentativo autoreferenziale.
Per quanto riguarda il termine latino auctor sono presenti entrambe le fasi che descrivi, ma mi viene in mente il verbo latino, dunque l’opera che si accresce, che si consegna nel finale alla crescita di chi dovrà continuare con la propria poesia.
L’ultima sezione Ma voi non fermate il loro canto è un invito a considerare tutto ciò che è stato detto e indicato nel libro per permettere al messaggio di conoscenza di essere cantato ancora, e qui l’opera trova un’altra ambivalenza, nel rapporto con chi dovrà trasformare questa finzione in qualcosa di vero, e a sua volta compiere e accrescere questo percorso, affrontando i temi del proprio tempo.
Fino ad adesso abbiamo parlato soprattutto di vista e sguardo. Eppure il titolo Ballate di Lagosta suggerisce anche un rapporto privilegiato con il suono e la musicalità. Tra i testi si trovano canzoni, rap, processioni, litanie… Inoltre, un’attenzione e una ricchezza prosodica vivace e musicale risulta chiara anche all’orecchio poetico meno allenato.
Quanto il luogo, l’isola, le persone hanno effettivamente donato materia d’ascolto per il ritmo dei testi e quanto invece è stata una tua volontà di canto?
L’idea del canzoniere è così antitetica rispetto all’immagine della poesia italiana contemporanea – non mi riferisco a quella del Novecento, dove è presente più volte se penso alla poesia di Saba o alla neoavanguardia -, che mi è sembrata per questo degna di essere ri-attualizzata. Inoltre ci sono canzonieri inediti tra i poeti della mia città, Trieste, e questa microtendenza è interessante sul piano geocritico. Trieste è un crocevia di lingue e esperienze multiculturali, unite dal vivere a stretto contatto in questo cul-de-sac che si propagherebbe verso l’Istria, esistenze e gruppi che sono stati divisi dagli eventi della storia del Novecento e dalla politica, proiettati non tanto verso l’Italia, ma estesi ovunque per via dell’importanza del porto, ma anche a causa delle migrazioni dopo la seconda guerra mondiale e dei problemi del confine orientale italiano che possono portare a un ripensamento dell’identità. Quindi quando penso a quest’opera la vedo proprio come la frammentazione di un poema più vasto, forse in modo simile alla romance medievale, ma non canto certo i paladini del potere.
La ricchezza prosodica nasce all’interno del sistema musicale presente nella lingua italiana, ma pure dall’ascolto e dalla voglia di assorbire le altre culture attraverso ritmi. Nella poesia Fine della processione c’è il primo verso «entriamo in un piccolo cimitero e penso in una lingua non mia» che spiega quanto sia importante questo processo che ci incita ad accogliere le parole altrui, per quanto possano sembrare dure dopo le tragedie del secolo scorso, un processo che chiama nuovamente l’Europa a confrontarsi con ciò che oggi si insanguina, che non possiamo risolvere solo con gli egoismi sostenuti dal sistema economico.
Quindi tutta la capacità descrittiva e prosodica messa in campo, che si avvale anche delle descrizioni dei luoghi e della natura, trova la sua lingua nella traduzione che opera la poesia tra le numerose possibilità stilistiche e metriche che si sono tramandate, con un elemento in più: la mia storia famigliare, come quella di moltissimi miei concittadini, ha vissuto le tensioni della storia mondiale proprio vivendo al confine, scappando dalle atrocità belliche e postbelliche, nonché conosciamo le storie e l’impatto delle recenti guerre, come quelle balcaniche, dalle parole di chi vive a Trieste e che è fuggito e si è stabilito qui. Non siamo andati solo in vacanza su un’isola dell’Adriatico, ma con mano abbiamo toccato i muri crivellati di Srebrenica, visto i cimiteri, sentito gli aerei che sorvolando Trieste andavano a bombardare la Serbia. In questo libro, nonostante le placide onde, c’è anche la storia e, soffro nel dirlo, in certi ritmi anche quella che si ripete.
Michel Foucault nel saggio Il linguaggio dello spazio dice:
Scrivere, attraverso i secoli, ha significato subordinarsi al tempo. Il racconto (reale o fittizio) non è stata l’unica forma di questa appartenenza, nemmeno la più vicina all’essenziale; è anche probabile che ne abbia nascosto la profondità e la legge, attraverso il movimento che sembrava manifestarli. Al punto che, sganciandolo dal racconto, dal suo ordine lineare, dal gran gioco sintattico della concordanza dei tempi, si è creduto che si emancipasse l’atto dello scrivere dalla sua antica obbedienza temporale. […] Rivolgendosi o meno al passato, sottomettendosi all’ordine delle cronologie o impegnandosi a dipanarle, la scrittura era presa in una curva fondamentale, quella del ritorno omerico, ma anche quella del compimento delle profezie ebraiche. Alessandria, che è il nostro luogo d’origine, aveva imposto questo circolo a tutti i linguaggi occidentali: scrivere significa ritornare, risalire all’origine, riappropriarsi del primo momento; essere di nuovo al mattino. […] Il XX secolo è forse l’epoca in cui si sciolgono simili parentele. Il ritorno nietzscheano ha chiuso una volta per tutte la curva della memoria platonica e Joyce ha concluso quella del racconto omerico. Tutto ciò non ci condanna allo spazio come unica altra possibilità da troppo tempo obliata, ma svela come il linguaggio sia (o forse sia divenuto) questione di spazio.
La questione dello spazio nel tuo libro è importante. Non a caso, l’isola, spazio chiuso ma aperto e contaminante, isolato ma spesso centrale in flussi e movimenti che in essa passano, trascorrono e dimenticano. Nell’isola lo spazio diviene questione di tempo, come nella marea l’erosione dello spazio diviene una questione di tempo. Perché l’isola? Che cosa diviene l’isola abitata? In che modo vedi, se c’è una predominanza del senso dello spazio sul tempo o viceversa nel tuo libro?
L’isola spazio nella corrente aperta della storia…
La poesia ha un tempo, forse privato, altre volte astratto, può agganciarsi a eventi storici, ha necessità di fondarsi in una diacronia di base, per essere interpretata nel futuro. Ad esempio quando indico un negozio a un passante non ho bisogno di tanti accorgimenti o di pensare a orientamenti che funzionino anche oltre il presente. In poesia invece posso evocare il negozio che non c’è più per descrivere il presente o ipotizzare il futuro.
La riflessione sul tempo in poesia è un aspetto appassionante. Nella formazione delle mie opere assume il significato di una ricerca all’interno e all’esterno dei singoli testi. E non è un caso che nelle Ballate ci siano sezioni dal titolo Permanenze e Partenze e ritorni. Riflettendo su ciò che resta, il concetto di permanenza ha innescato in me inquietudine. Dipende dalla volontà, che è uno strumento e ci permette di realizzare moltissime attività, ma ponderata nel tempo della vita fornisce risposte illusorie. Ci domandiamo e siamo orgogliosi di quanto abbiamo guadagnato o realizzato, e ora che la vita ci ricorda la sua temporaneità, ci diamo delle risposte, perché l’avremmo fatto, per la comunità, per i figli, per noi stessi, ma abbiamo gioito, vissuto profondamente? Illusori sono molti desideri indotti dalla società dei consumi, e le dinamiche che tendono a tranquillizzarci: se togliamo tutto, se togliamo la volontà con le considerazioni e ripercussioni che ha sul concetto di noi stessi, se lasciamo la volontà come un ramo sbattuto dalle onde sugli scogli, forse possiamo aprire uno spazio per qualcosa di diverso e ampio. Quindi ho posto lo spazio, le azioni e la materialità della vita, all’interno di un contesto temporale nel paradosso tra ciò che sembra restare e che invece ha termine. Il tempo si riflette nello spazio tra vecchie case e telai di automobili, dove incontriamo i segni di un passaggio, ma pur tornando indietro nella memoria, non troveremo un corpo gioioso e vivo, e allora perché non consegnare la nostra nuda corporeità alle stelle? Il tempo diventa quello dell’ascensione «nella gioia, nei chilometri / da conquistare all’universo» in questa inondazione di segni che è la poesia.
Foucault non descrive, nel passo che hai citato, evocando la dimensione preverbale e la spazialità del linguaggio, il mistero che questa inondazione di vita approfondisce. Infatti più siamo scientifici e tecnici, anche nella discussione filosofica, più la poesia testardamente si attiva grazie a degli accostamenti non orientati a chiudere, al punto che ciò che termina un ciclo di riflessioni, inaspettatamente le riapre.
Quindi il mio invito – e invito finale delle Ballate – è quello di considerare questo movimento, anche di conoscenza sensibile, che continua a crescere e farsi grazie a noi.
A seguire alcune poesie dalla sezione La processione di Ferragosto
Ballata di Marija
fiorì la madre tra il finocchio e i suoi angeli gialli
fioriscono in processione a due a due uomini e donne
è fiorita la valle prima di quel suono di campane
il 15 agosto si staglia da secoli nelle pietre, ora e sempre
sul sagrato e poi giù per le case e le scale
sulla bella di notte c’è ancora il tramonto di ieri
e di tanto in tanto il paese chiama Marija,
i pistilli ubriachi, le semenze di tomba
i campi di Lastovo il colibrì li ricorda
come covo di pirati – pare che nulla cambi
così con la squilla ti batti il petto
e il mare è il suo sarcofago e il ritmo
quale giorno sia, smemorato arrivi alla chiesa
quanti giorni sei stato nei sogni e ti sei fatto sorprendere?
è questa la sveglia: lo sanno il prete,
i cesari, la campana e la valle
e il medioevo alle spalle inanella i vitigni
se la processione andasse più su
penderesti dalla forca dei perdimenti nel forte francese
Marija non lo sa, e mi ha accolto lo stesso
Marija è vestita di porpora e si prepara alla festa
è una madre fiorita nel cuore di un’isola
petali di bouganville la processione calpesta
scendendo al cimitero, salendo di nuovo alla chiesa
Marija è in ogni mattina e intona l’universo nei salmi
come il cemento della strada si è sparsa nel punto delle cose
è la voce del mio silenzio finalmente rapita
con una viola tra i capelli e sulle rughe
dalla sezione Ma voi non fermate il loro canto
l’isola è un uomo,
il suo cuore l’estasi e la sua lingua
estesa ovunque, liquida,
ma dopo la tempesta
i colori dell’erba sono bruciati,
il paesaggio si è raffreddato
e ha spinto un vento ignoto
il ciclone dell’inverno tra le barche,
e nessuno ricorda
le parole disperse sul cielo nero,
i nomi morti nel Mediterraneo
*
e tu tornerai ogni giorno all’alba
con gli spazi vuoti da custodire:
tra le pietre scolpite
la linea della costa
sarà mutata, ed io non saprò
di te, se ti tufferai
o scenderai tra i gradoni
di calcare e poserai
sopra la posidonia
la tua sagoma di uomo
che continuerà a muoversi con le onde,
che continuerà a crescere dopo di me,
dopo la mareggiata
e l’erosione della nostra memoria