“Quel che ho visto, udito, appreso” – di Giorgio Agamben

di Alessandro Sbordoni

Quel che ho visto, udito, appreso…, Giorgio Agamben. Giulio Einaudi editore  - Gli Struzzi - Nuova serie

Che cosa significa quando un libro è toccante? La luce tocca il libro e, attraverso la luce, gli occhi toccano il libro. Ma è attraverso il libro stesso, qualcosa che non è più un oggetto fisico ma metafisico, che lo scrittore e il lettore toccano l’un l’altro.

Quel che ho visto, udito, appreso… di Giorgio Agamben è un libro in cui il filosofo legge la propria vita come uno scrittore rilegge la propria opera. “Ciò che io cercavo è questo vuoto, questo lacunoso contatto fra complicazione e sprezzatura, esposizione e abisso, penombra e splendore, là dove il segreto si mostra in una chiarità così tersa che diventa semplice e impenetrabile.” Questo libro è toccante perché è scritto al limite della scrittura, tra la vita del filosofo e la lettura della vita stessa, tra ciò che è scritto e ciò che non è mai scritto.

Uno scrittore non è mai in grado di leggere la propria opera. Lo scrittore non può fare altro allora che scrivere ancora. Noli me tangere significa per uno scrittore e la propria opera nient’altro che noli me legere. Allora, lo scrittore che legge la propria vita non può scriverne. Egli può soltanto leggere qualcosa che resta per sempre, davvero, non scritto. Così, quando Giorgio Agamben rilegge la propria vita, non possiamo che leggerne il mistero, il limite stesso del linguaggio, il limite in cui la scrittura è toccata dalla vita. “Nel punto del contatto — quando ogni rappresentazione viene meno,” afferma il filosofo in una pagina tra le più toccanti, “là vi sono soltanto letizia e splendore.”

Il toccare è sempre un toccare il limite, come scriveva Jacques Derrida: tra il fisico e il metafisico, tra il toccante e il toccato. Lo scrittore che tocca il lettore, è chi tocca qualcuno o qualcosa attraverso il limite del linguaggio, attraverso la fisicità del libro e la metafisicità della scrittura.

Un libro che tocca descrive il limite del linguaggio. Il libro che prendiamo in mano e che prende chi lo legge è qualcosa dove il linguaggio non significa niente ma la vita stessa.

Parola dopo parola, scordiamo l’oggetto che stringevamo tra le mani. È infatti la vita che tocchiamo attraverso il libro. La vita è proprio quello che rimane tra quello che lo scrittore e il lettore hanno visto, udito, preso in mano e quello che non è mai visto, mai udito, mai appreso.
Questa breve recensione è il cercare di toccare chi o che cosa mi ha toccato leggendo questo volume, in modo da ricambiare il gesto. Prendere la propria mano per toccare la mano di un altro: anche questo è il gesto che rappresenta scrivere e leggere.

“Che cosa mi ha insegnato la filosofia?” domanda il filosofo. “Che essere uomini significa ricordarsi di quando non si era ancora umani, che compito dell’uomo è la memoria del non ancora e del non più umano — del bambino, dell’animale, del divino.”

Il libro di Giorgio Agamben, Quel che ho visto, udito, appreso…, è un libro che tocca negli spazi bianchi tra una parola e l’altra, una pagina e l’altra, tra quello che è scritto e quello che non è stato ancora scritto. L’essere preso, l’essere toccato, è in ogni caso più importante dell’apprendere, del conoscere stesso.

Un libro come quello di Giorgio Agamben è scritto al limite del linguaggio, dove la scrittura è il segno di qualcos’altro — qualcosa di cui tutto è detto anche quando non ne viene detto niente. Il mistero di tale libro è che non c’è alcun mistero.
Toccare il limite del linguaggio vuol dire anche toccare un’altra forma di esistenza. La scrittura e la lettura diventano una nuova forma di vita.

In questo libro la filosofia lascia spazio alla letteratura, il pensiero del filosofo alla felicità del poeta. “Scrivendo, ho imparato che la felicità non consiste nel poetare, ma nell’essere poetato da qualcosa o qualcuno che non conosciamo.”

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