“I bomb Fugazi, screzi con i tuoi ragazzi
we stay in the panchine, ah, ci frega cazzi”
Deadly Combination di In the panchine ft. Noyz Narcos
“Santi che pagano il mio pranzo non ce n’è
sulle panchine in Piazza Grande”
Lucio Dalla
Contributi, fotografie e scritture di Lu.ce, Henry The Cat, Jules Jadrowsky, Nella grossa romania yha yha oh, Young Charlito, Silvester Silvana e L’onorevole Dabliu.
Fotografia di Lu.ce
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TEMPO PARZIALE
Mi siedo anch’io amici su questa vostra panchina per assistere allo spettacolo senza palinsesto del mondo che si muove o resta fermo: gli alberi frondosi e immobili, gli emigrati e i vagabondi senza direzione che non sia quella del tempo più vago di loro, questo tempo che è una linea serpentinata di sentieri che si perdono nel parco, e dalla panchina con le membra a riposo non posso far altro che tifare per lui, fomentare e istigare il tempo con il solo movimento degli occhi che perlustrano l’accadere, come un portiere titolare che per un calo di forma sia stato relegato a riserva e costretto a vedere da un’inedita prospettiva laterale i volti, i nomi e le gambe dei compagni che prima gli davano le terga, mentre un impostore occupa il suo posto tra i tre pali interpretando lo stesso ruolo in maniera differente, e dover esultare per tutto quello che succede senza di me, per i passeggini spinti da altre braccia, per i cigni che si inventano correnti negli stagni, per i governi che si succedono torvi e per i goal segnati ed evitati da chi è in campo, ma io non sto giocando, sono una riserva pronta alla bisogna, allargo le braccia sulla panchina cromata del suo verde da panchina e attendo un ipotetico allenatore che voltandosi dal suo affanno si accorga di me e intraveda in me le potenzialità per cambiare il corso degli eventi con una giocata decisiva per il giudizio finale – sono ora attaccante e fantasista, nel tempo parziale posso essere tutti i possibili; vagheggio un gabinetto di guerra che chiami alle armi tutti i panchinisti della Repubblica, miei fratelli provvisori: abbiamo bisogno di voi, abbiamo bisogno di te, che hai guardato così tanto la linea serpentinata degli istanti guizzare tra i sentieri del parco da divenire esperto di ciò che gli altri non si soffermano a studiare, teorico del gioco sregolato di esistere, specialista degli intervalli dove tutti si accucciano per valutare colpe ed errori e ordire trame migliori per il secondo parziale, ma intanto siedo ancora qua amici assieme a voi su questa vostra panchina di cui nessuno ancora si è accorto per assistere al palinsesto del mondo che si muove o resta fermo, ho scommesso sul pareggio.
Henry the Cat
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Come definire il tuo muso da senzatetto
quel naso è una radice di rafano
un legno nodoso
un bocciolo informe di vasi sanguigni
che fa a pugni con ogni speranza
di trovare
un accordo nel dissimile
osservo le feritoie dei tuoi occhi
nei sottecchi di un esercizio
vuoto di empatia
verso
gli inferni altrui
inascoltati sempre
buttato come sei su una panchina
quattro cartoni per casa
eppure ti invidio
Jules Jadrowsky
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Fotografia di Nella grossa romania yha yha oh
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COSA SCRIVEREI SU UNA PANCHINA DI TRIESTE
“Nel 1925, un manifesto di artisti francesi che si firmavano «la révolution surréaliste» indirizzato ai direttori dei manicomi, cosí concludeva: «Domattina, all’ora della visita, quando senza alcun lessico tenterete di comunicare con questi uomini, possiate voi ricordare e riconoscere che nei loro confronti avete una sola superiorità: la forza».
(…)”
La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione di Franco Basaglia
Chi si distende su una panchina dell’area verde di Piazza Hortis, potrà vedere di fronte a sé, ai due lati della strada pedonale, a destra la statua di Italo Svevo e a sinistra la scritta anarchica «Kabu libero» sul muro della vecchia biblioteca. Capire Trieste è iniziare da qui: da una parte la pazzia di Zeno, dall’altra un segno di libertà e vita scritto da una mano anonima come unica e impossibile risposta al terrore di uno stato, dei manicomi, delle prigioni e della burocrazia. In Piazza Hortis le panchine di cui scrivo si trovano in una precisa metà che separa il luogo dei bambini (un parco giochi) dallo spazio degli adulti, degli anziani che camminano tra gli alberi, nel verde. Come se in fondo quelle panchine non fossero che il luogo di un’adolescenza, ovvero quel primo momento nella vita in cui un Io riconosce sé stesso e la solitudine che dovrà abitare, imparando ad accettarla. Se Trieste come luogo è qualcosa, non è che la violenza onesta e impietosa con cui sa rinfacciare a ciascuno la sua fragilità, il fatto che poter dire ogni giorno «io sono» non è per niente qualcosa di scontato ma è anzi un equilibrio così precario che si può perdere in un attimo. Perché non tutte le adolescenze, e sono tante nella vita, sanno concludersi: a volte capita di non riconoscere più il proprio Io o di perdersi in esso, magari sdoppiandolo, magari odiandolo. Le persone che abitano le panchine di Piazza Hortis queste cose le raccontano senza che tu debba chiedere nulla. Parlano i loro corpi, le loro voci che chiamano continuamente qualcuno che non c’è, il modo in cui chiedono una sigaretta. Scrive Franco Basaglia: «Riuscirà comunque il principio di libertà a scalzare quello di autorità? Le premesse della comunità terapeutica sembrano darci ragione perché pazienti, medici e personale sono tutti coinvolti nella stessa crisi ed in essa trovano la loro comune base umana». Chi dice che Trieste non è una città accogliente non comprende che anche la non accoglienza, per chi è sopravvissuto ad ogni casa, può essere la possibilità di sentirsi compreso, straniero tra gli stranieri, rifiutato e intruso tra i rifiutati e gli intrusi. Che anche questo è riconoscersi: scoprire che essere padri di sé stessi non è altro che assumersi delle responsabilità, ovvero sapersi dare da soli le proprie risposte per poi saperle dare anche a chi ne avrà bisogno. A volte nelle panchine della Piazza mi capita di incontrare amici di adesso o persone a cui ho voluto bene anni fa. Tanti tra loro, a volte urlando o a volte in silenzio, si fanno racconto di una storia che inizia e finisce sempre con le stesse parole: «è andata male, è andata male». È andata male ma questo non significa solo paura. Nel momento in cui uno scopre che sopravvivere non è la cosa più importante, allora si rende conto di una vita di gesti e di atti impensata, una forma di amore che neppure supponeva esistesse. Come riscoprire il proprio nome tra le macerie che lo compongono, assieme a una gioia insperata. Una volta, aspettando alla fermata dell’autobus con un vaso di ciclamini in mano, mi è capitato di diventare involontaria possibilità di vita per una farfalla che altrimenti non avrebbe saputo dove posarsi nella strada trafficata. Questo vorrei scrivere su una panchina di Trieste, «è andata male», ma farlo per affermare l’importanza della propria vita e della vita di ciascuno, in un atto d’amore. È andata bene.
Young Charlito
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Disegno di Silvester Silvana
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Nessun oggetto riesce a compendiare il poco senso che ho della politica quanto una panchina. L’immagine di due, tre, toh, quattro esseri che prendono congedo dall’andare, e che, senza essersi messi d’accordo, si ritrovano lì, momentaneamente scollati dal flusso, tenuti assieme soltanto da un’esigenza, casualmente simultanea, di interrompere qualcosa, di cioncarsi via dal viavai, di non continuare, e starsene fermi, finalmente, a ciondolare la testa di qua e di là, senza neppure parlare, in un vuoto di scena che ha la stessa natura di un respiro, quella peculiare forma di amicizia che non presuppone confidenza alcuna e in cui si condivide soltanto una voglia calma di sparire, di appiattirsi sui bordi della strada e delle sue faccende, di diventare nient’altro che un clima: questa immagine è forse l’unica che riesca a dare forma a quella specie di nebbia che si insinua nella mia mente ogni volta che la parola ‘politica’ viene a sfiorarmi i miei sensi.
Beh, certo, che la politica mi si associ a un’immagine tanto statica e stanca, tanto lontana dalle piazze dell’agire, non lascia ben sperare, e, in effetti, buona parte del mio impegno quotidiano consiste nel fare in modo di sperare il meno possibile; a ogni speranza che sento nascere in me, io cerco immediatamente un antidoto, un analgesico che blocchi sin da subito la fanfara di tensioni e paure entro cui quel sinistro sentimento mi ingarbuglierebbe: la speranza è un danno forse definitivo, scriveva Amelia Rosselli, e gli abitanti delle panchine, io credo, sottoscriverebbero il verso nel legno su cui poggiano i glutei, e dimenticherebbero quel ‘forse’, per geniale e labirintico che sia.
Stare in panchina è una forma di vita; a volte, la sola possibile. Adesso che ci penso, la prima volta che provai una rabbia politica fu quando, una decina di anni fa, mi avvidi che erano iniziati a uscire, in modo via via più frequente, dei, come chiamarli, decreti?, o provvedimenti?, insomma roba giuridica il cui scopo, apparentemente, era quello di ridurre al minimo il numero delle panchine: per combattere il degrado, era necessario, si diceva, limitare l’ambigua presenza delle panchine, soprattutto in luoghi particolarmente suscettibili di scapestro, come per esempio nelle stazioni; se proprio le vogliamo tenere, a mò di ricordo e citazione, omaggio al tempo passato, bisognerà comunque modificarne la forma, evitare come la peste una regolarità orizzontale delle panchine, inframezzarle di braccioli, separare un sedile dall’altro, scomporre la panchina, insomma, in atomi e parcelle, e sbizzarrirsi col design per fare in modo che, qualora qualcuno gli prendesse lo sghiribizzo di non avere una casa in cui dormire, non gli venisse più in mente la degradata idea di appisolarsi lì sopra, e cominciasse a valutare l’ipotesi, più edificante e civile, di andare a cercare riposo sotto le rotaie.
Che poi le panchine sono sempre vuote. Anche quando noi ci sediamo sopra. Anzi, è proprio quando sono più popolate che le panchine palesano il loro inaggirabile legame con il vuoto, il loro ammanco essenziale. La proprietà più salvifica delle panchine è quella di svuotare qualsiasi essere o cosa si appoggi sul legno o sulla pietra di cui son fatte. Quella capacità, tutta loro, di mettere il pensiero per strada, e di immettere, nella strada, un vuoto di scena. Un vuoto che ci sdraia l’anima. Andarsi a sedere su una panchina significa dunque andare in vacanza. Ognuno ci arriva coi propri bagagli, più o meno pesanti, ma, dal momento stesso in cui si mette a sedere, i suoi bagagli non lo riguardano più. Per questo, alzarsi è sempre tanto faticoso; un piccolo scatto delle gambe, ed eccoci costretti a tornare a casa.
L’onorevole Dabliu