di Massimiliano Mezzarobba
Tra le varie cose, la sempre più attesa e quanto mai discussa convention renziana della Leopolda – contraltare annunciato, in questa sua quinta edizione, delle “logore” bandiere rosse innalzate con nostalgico orgoglio in piazza san Giovanni – si è contraddistinta per una scelta non casuale dei propri arredamenti interni.
In un clima da Silicon Valley, tra omaggi al fondatore di Facebook e apparecchi Apple dislocati in ogni dove, chiunque sarebbe rimasto catturato dall’aspetto solo apparentemente contraddittorio del palco della kermesse. Ai numerosi elementi della modernità high-tech, si affiancavano, infatti, oscure presenze dal sapore assai vintage, tra le quali spiccavano una vecchia bicicletta in attesa di riparazione e un tavolo degli arnesi proveniente da un lontanissimo passato.
Tutto ciò a indicare (quasi l’immagine della rimessa proiettata sul retro del palco non fosse sufficiente) che il vero protagonista della quinta Leopolda era un certo qual celebre garage, sito nella cittadina californiana di Cupertino, tra le cui mura prendeva vita alcuni decenni fa una delle start-up di maggior successo del secolo scorso.
I destinatari di questo premuroso tributo intellettuale leopoldiano, inutile dirlo, erano la figura e la storia personale di Steve Jobs: modello indiscusso, negli intenti degli organizzatori della manifestazione fiorentina, di quella propensione al successo e alla crescita di cui il nostro paese avrebbe un così disperato bisogno.
Qualche occulto nemico della giovane e bella Leopolda, potrebbe però chiedersi, molto malignamente, se Jobs avrebbe davvero gradito di essere collocato da Matteo Renzi nel suo Pantheon politico.
Sembrerebbe in effetti che vi siano ottime ragioni per credere che un redivivo Steve Jobs, acquisita la cittadinanza italiana, non negherebbe il proprio voto né il proprio appoggio a Matteo Renzi: dell’attuale premier egli apprezzerebbe probabilmente il dinamismo e il giovanilismo; ne condividerebbe senza dubbio le scelte estetiche, la cura maniacale dell’immagine, il misticismo della comunicazione; ne ammirerebbe sicuramente la propensione ad accettare le sfide e la determinazione nel perseguire degli obiettivi; forse ne stimerebbe addirittura l’aspetto rassicurante ma fiero, così come non ne disdegnerebbe l’atteggiamento autoreferenziale, condotto ai limiti dell’autocelebrazione; di certo si rispecchierebbe nel bianco candore delle sue camicie. A ben guardare, è inoltre verosimile che i due si troverebbero in ottima sintonia anche su molti dei nostri più scottanti temi economici.
La questione è però ben lungi dall’esaurirsi in questa sbrigativa serie di ironiche costatazioni.
L’inserimento coatto di Steve Jobs nell’immaginario collettivo della socialdemocrazia italiana non può non destare alcuni imbarazzati interrogativi, specialmente oggi, alla luce dell’ennesimo strappo politico consumatosi il 25 ottobre sull’asse Roma-Firenze.
Dovremmo d’ora in poi rassegnarci all’idea che essere di sinistra significhi scegliere innanzitutto tra Camusso e Jobs? E se così fosse, cosa implicherebbe sbilanciarsi a favore del polo “cupertinista” della dicotomia? Cosa significherebbe davvero pretendere di rimanere fedeli a certi valori tanto cari alla sinistra tradizionale, come l’equa redistribuzione della ricchezza, e al contempo venerare religiosamente la figura del self-made men? Certamente portare avanti, senza vertigini, entrambi i termini di questo binomio sarebbe da parte dei renziani un’acrobazia teorica e programmatica eccezionale.
Contravvenga o meno al nostro buonsenso, dovremmo forse fare i conti con l’idea che iniettare il mito di Steve Jobs in una logica concretamente egualitarista, significa immaginarsi l’avvenire della nostra società composto di soli miliardari di successo. Ci costringerebbe, cioè, ad ammettere la possibilità – oltreché l’auspicabilità – del raggiungimento di un consorzio di individui in cui tutti dispongano della sostanziale possibilità di elevarsi, assieme ai propri pari, al rango di affermato e benestante imprenditore di se stesso.
In attesa che una quantità sufficiente di ricchezza per ottenere un tale risultato anche solo all’interno dei nostri confini nazionali sia creata (o inventata), non può sfuggire la banale osservazione che, almeno per il momento, decidere di candidarsi al rango di campione dell’iniziativa privata, con prospettive di arricchimento personale pressoché illimitate – o anche solo osannarne l’esempio – continua a stridere inevitabilmente con quel polveroso presupposto che forse un tempo si sarebbe chiamato “giustizia ed eguaglianza sociale”. Conseguentemente, non può sfuggire che una tale candidatura non può non condurre ad avvallare una concezione marcatamente individualistica della società; che fa della guerra comune di tutti contro tutti il valore fondativo della nostra organizzazione collettiva.
Una guerra dalla quale, tuttavia, la cronaca recente indica consolatoria che all’incirca un individuo su mille sa emergere vittorioso, imponendosi su tutti gli altri: i quali si limiteranno a venerarne il nome. E il garage.