di Francesco Bercic
L’ostinazione con cui Milan Kundera, negli ultimi lunghissimi anni della sua vita, ha condotto la decisione di ritirarsi dal mondo con la m maiuscola, dai suoi riflettori e dai suoi palcoscenici, dalle sue gabbie e dalle sue promesse, ha oggi, per noi, un significato anche maggiore di tutte le sue opere. Dal giugno dell’‘85, la voce forse più celebre della letteratura tardonovecentesca non si è più concessa ad alcuna intervista, disperdendosi fra le strade di Parigi. Una sola eccezione, nell’autunno del 2008: un’unica risposta, alle tante domande sul suo passato: “Sono un romanziere”.
Il suo volto torna ora, in un anacronistico bianco e nero, nelle prime pagine di tutto il mondo, ma la notizia della sua scomparsa non arriva improvvisa, suona anzi come un compimento. “Non era già morto?”, sussurra qualcuno. Kundera era a tutti gli effetti diventato – se forse non è sempre stato – un’ombra, assomigliava a una diceria, a un modo di dire di cui molti si riempivano la bocca, senza che mai nessuno associasse a quel nome una storia precisa, reale.
Per noi, abitanti del chiassoso ventunesimo secolo, il suo silenzio è stato ed è ora incomprensibile, infonde un senso di imbarazzo e di impudicizia nelle pompose celebrazioni postume. Pretendiamo chiarezza, adesso, come l’abbiamo sempre pretesa. Avremmo voluto ascoltare, come un Grande Scrittore che si rispetti, le sue opinioni sul cambiamento climatico, che firmasse appelli per la giustizia, che partecipasse a giurie e che magari consacrasse l’ultimo Premio Strega. Lui si è sottratto, lasciandoci con Venditti.
Noi pretendiamo chiarezza, lui restituisce ambiguità. Noi vogliamo sapere, la sua biografia è il perpetuarsi di un mistero. Non riusciamo a spiegarci come si possa davvero rinunciare alla fama, all’agiatezza degli allori letterari, come si possa preferire l’oblio. Lo reputavamo già morto, perché non ha scelto la nostra vita.
