di Francesca Mazzotta
Nel ricco torrente di espressioni artistiche che ultimamente problematizzano il sistema-famiglia, zampilla “La Nona”, in scena fino allo scorso 29 ottobre allo stabile La Contrada di Trieste, riadattamento del testo di Roberto Cossa nella regia di Marcela Serli, che con l’autore condivide la sensibilità italo-argentina, e nella traduzione di Pino Tierno, restituita in dialetto triestino da Ariella Reggio.
La messinscena stringe in un nodo lucido due spaccati sociali solo apparentemente lontani: l’Argentina vessata dal lungo regime di Videla e l’Italia di oggi, paese di ruminatori, tritatutto più triste che mai nelle vesti di bruxista spietata. Potente è pertanto la scelta di collocazione circolare dell’onomatopea che si fa guida sonora: prima che il sipario si apra, lo sgranocchiare crunch crunch registrato attira il pubblico incuriosito, poi riecheggia all’apice del dramma, “incorporato” nel verso della invincibile nonna.
La “Nona” compare in medias res e in modo simpatico, ma in un crescendo diviene personaggio perturbante: a suon di fame mastica e comanda, consuma le energie e le vite dei familiari, scampando a ben cinque tentativi di eliminazione – i primi due per mano del nipote, di abbandono per strada e di “cessione in sposa” al tabaccaio Italo; sopravvive persino al tentato omicidio da parte di quest’ultimo toy-boy ottantenne che, esaurito, le dona una cassa di chewing-gum per testarne la dentatura e, sconcertato dall’ennesima resistenza, resta paralizzato. Gli ultimi due tentativi per avvelenamento e rogo, ancora ideati dal nipote artista, decretano la fine dell’intero gruppo familiare.
Tutto ruota insomma intorno al motivo del teatro classico, italiano e slavo, della fame e della miseria, che bisogna alleviare a tutti costi, ma come? Davvero con l’antica legge del taglione, o vendetta, ricatto, aggiramento? Con il sacrificio di una vittima che possa espiare il clan? Il nervo tematico è proprio questo: come si possono alleviare vuoto e fame, se non si rinuncia a qualcosa, se insomma non ci si muove verso l’altro come comunità?
Indiscussa splende Ariella Reggio, dittatrice d’affetto, personificazione di un secolo breve speso a inclinare a proprio piacimento l’asse di rotazione, dimenticando le altre parti del sistema. Intorno a lei si muove il resto del complesso umano e sacro, nel senso latino e ambivalente del termine, cioè anche “funesto”: i coniugi Ferruccio e Mariuccia (Adriano Giraldi e Marzia Postogna), la nipote Jessica (Zoe Pernici) in cerca di un marito/lavoro accettabile, la scapola Redenta (Paola Bonesi), lo zio musicista Ciccio (Maurizio Repetto) e lo sventurato tabaccaio Italo (Maurizio Zacchigna), che tentano fallacemente di far felice la nonnetta, senza accorgersi che silenziosamente li divora.
L’originalità risiede anche in questa deviazione: è il tradizionale l’oggetto del dramma, che attacca non tanto la logica empia, come avviene più comunemente nei rifacimenti della tragedia classica, quanto la causa di tale logica, che dimentichiamo, oggi più che mai: il nostro intrinseco contraddirci, e dunque la necessità del dubbio. Chi siamo, prima di fare, compiacere, relazionarci alle persone più vicine? “Cosa ci fa più paura”, riprendendo una delle didascalie nel retroscena?
La vera protagonista che si sbraccia tra le maglie di questa calzatura color carne, chiedendo cibo e ancora cibo, che non basta mai, simboleggia plausibilmente il paese che magna magna, la nostra Italia travestita da bandiera monocroma; il vestito carnascialesco non può però rivestirci per ogni stagione.
Il deus ex machina si sdoppia in divinità elettrodomestica “conservatrice” (il freddo e l’acqua, la corrente: frigorifero, cucina, madia, lavanderia) e nel monito verbale sullo schermo nascosto dal tendaggio del retroscena. Un limite di quest’ultimo linguaggio è il carattere del testo, brevi didascalie propedeutiche o di commento all’azione della protagonista; potrebbe giocare su uno stile più provocatorio, anche considerando l’attuale gravità del mondo digitale e dell’intelligenza artificiale. Tra i due dèi (domestico e esortativo-didascalico) i personaggi si muovono gradualmente alla deriva, condannati al giogo del boia/capro: l’artista, il buon padre, la zia ingenua e la madre neutrale, la figlia incapace di farsi comprendere, il tabaccaio che a ottant’anni vorrebbe fare “l’affare matrimoniale”, restano schiavi di sé e del proprio linguaggio, orchestrati dalla vecchia tenera e nociva che continua a filastroccare la sequenza di bisogni – “formaio” “salame” “persuto”, e “patatine” e “maionese” (richieste via via più standard, verso il fast food); ma a suon di “pan”, “pan” (gioco lessicale sul Dioniso greco, che potrebbe scardinare il “parassitarsi” del gruppo?), si abbrutisce anche la Nona, la sinfonia si fa fuori tempo, fuori luogo, senza corda verbale o musicale che tenga l’insieme.
La messinscena brilla per l’abilità sartoriale (drammaturgica e registica in primis) di tenere tirato il filo dell’ambiguità tra sacro, sagace e tragico, senza squilibrarne i pesi reciproci. Così, la tradizione greca e il canovaccio russo dove si distinguono sia Dostoevskij sia Cechov, si intrecciano in modo felice con accenti di De Filippo, toni di Troisi nel personaggio di Ciccio (“genio e ingenuo del male” per l’appellarsi alla logica extra-sociale dell’artista), nonché col monstrum dei media: verso la metà dello svolgimento, questo compare nel suono che precede i titoli del tg e nella voce del presentatore del programma che si complimenta con la concorrente-maestrina.
Ma la notizia maestra, attesa e salvatrice, non giunge mai, né il coro si muove davvero. Tantomeno la nonna si decide a morire: la miseria incrementa proporzionalmente alla sua dolce testardaggine; i tasselli della macchina scricchiolano, i personaggi si scambiano appena di posto. Il senso ultimo pare questo: senza rivoluzione interna in senso individuale, l’ordigno non si disinnesca.
Varrebbe forse cominciare a cambiare musica (canale espressivo?), sembra suggerire la conclusione rock su The beautiful people di Marilyn Manson, che trasforma anche il riflesso cromatico della scena – dal viola dei due parallelepipedi laterali, al verde fumoso del finale (dal colore della pietà alla più semplice speranza?). La Reggio campeggia fino alla fine che la eleva, con la folta chioma bianca, su un gran podio di ferro, trainata dai sottoposti familiari. The Walking Death, l’insieme corale trionfale su cui si chiude il sipario. La luce di scena illumina la star sopraelevata, il suo volto altero. Sotto di lei e alla sua sinistra procede Jessica, la nipote, martire per antonomasia di questa produzione: l’invisibile gioventù dimenticata.
*Immagine tratta da Teatro Stabile La Contrada, qui il riferimento.