di Francesca Mazzotta
E così lascio a voi questa storia. La storia di una passione. Di un intreccio di passioni. E di tutto il resto che questa trama vuole raccontare. L’amore per il passato, l’amore per il futuro e la rovina che tutti e due gli amori possono portare.
(G. Pressburger, da Una passione, Racconti triestini)
La tragedia di Pressburger Nel castello, testo inedito messo in scena in una veste slovena nell’omaggio registico di Alessandro Marinuzzi, è un attraversamento del confine tra paradigma della vergogna e tecnica di derisione, senza soluzione di continuità. Lo spettacolo propone di ripensare la dialettica della filosofia tedesca, in un’antitesi e una tesi invertite di ordine rispetto alla norma. La sintesi non può compiersi: come a dire che non c’è stato il tempo, non quello che serviva, per comprendere la natura dell’opposizione. In questo senso, i tre momenti della vicenda (lo scontro, la cacciata dal “castello di babele” che pericola, la morte con la fuga) ben collimano con la tripartizione degli atti. La comprensione della trama è simultanea all’azione drammatica.
Il cappotto (si suppone, con citazione di Gogol) è l’oggetto che apre e chiude una tragedia dell’incomunicabilità, propria di un freddo est con coordinate soffuse. Il figlio Martello si presenta al castello di suo padre Chiodo, portando il suo cappotto: l’indumento si fa subito emblema, carico di un significato di possessività – del corpo, dell’abito. Portato all’inizio dal figlio, il cappotto sarà spostato nel corso di tutto lo spettacolo, e indossato da Martello, significativamente, solo una volta, in chiusura del terzo atto, lasciando nello spettatore il sospetto del motivo di questo “rivestimento”: come segno di trionfo, o di sconfitta del (definitivo) esiliato?
La tradizione invincibile vanifica l’accordo. Il figlio in effetti è lì, nella reggia che ora gli spetta, per rivendicare la firma della cessione ereditaria.
Nel brutale agone familiare – che vede l’intransigenza vittimista-aggressiva del vecchio Chiodo (nella struggente interpretazione di Alojz Svete) presa a pugni dalla rabbia incontenibile del figlio Martello (Primož Forte) – si fa strada una luce semioscura femminile, con l’intervento di Elisa (Eva Mauri), nuora e moglie, che si chiarisce testimone onnisciente nonostante sia stata per un terzo del tempo scenico chiusa in un risolino. Dopo la visita del duca di Norfolk, ospite d’onore in città, il secondo atto, con l’intromissione del vero castellano, padrone/amante di Chiodo (Franko Korošec), e il dettame del necessario ostracismo del gruppo, porta la costellazione dei miserabili a scombinarsi, la gabbia di Chiodo a raffreddarsi fino ad arrugginirsi e chiudersi. La foschia si dissolve come se di fatto nulla fosse successo. Il figlio fugge lontano.
L’azione divampata da questo tragico allegorico, insomma, si compie senza di fatto trovare un compimento. I personaggi del “passaggio”, con un ruolo d’onore e onere – oltre al già menzionato duca, il notaio chiamato in causa come unico depositario attendibile, e puntualmente canzonato (ancora il cangiante Korošec), e la teste che scrive e annota (Elena Husu), incorniciano un altro personaggio liminare – si ritiene, di maggior peso: immobile e seduto, muto in un angolo, siede un uomo vestito di scuro (Marko Škabar). A sinistra della scena, osserva. L’unico vittorioso di questa trama, è colui che non si pronuncia, eppure assiste?
Il lavoro, mettendo in scena la lacerazione finale della vita dell’artista inchiodato a sé, sfiora il classico sofocleo col rifinimento del “tornaconto del molestato”. La figura messa a fuoco, un’osmosi tra Edipo e Prometeo, è rovesciata continuamente e in questa impossibile distinzione delle parti sta tutto il dolore. Il male del padre si riversa nel figlio, e viceversa: è difficile non avere pietà per entrambi.
Il testo nella sua versione originaria in italiano, è incorporato con dei sopratitoli integrati al retroscena. Esso stesso si fa corpo preso a “percosse e pause, e poi ancora percosse” (citando per traslato). Oltre a questa scelta originale è quella cromatica (col sostegno dell’abile Andrea Stanisci), che accosta al manicheo bianco/nero alla Beckett, un carcerario colore a righe, decadente che riecheggia un estetismo di fine secolo (il colore ambra-avorio della lettiga, o letto, del prigioniero mummificato). Il tono minimale prevalente nell’allestimento si accentua così di morte e passione.
L’ambientazione decadente, dal sapore apocalittico ibrido, greco-seicentesco, crea un effetto surreale che viene più da confrontare col nostro cinema (tra il grottesco di Fellini e l’assurdo carnale di Ferreri), o col cinema di Kieslowski. Il surrealismo non è neanche quello italiano della letteratura e della pittura, nonostante il richiamo (nei due manichini cadenti a lato, bianco e nero) a De Chirico, e nonostante la narrativa stessa di Pressburger. Il simbolo forse diviene, piuttosto, sintomo: il castello frana, la trascendenza è impossibile, aprioristicamente.
L’attuale forza ecatombale della restituzione, grato ricordo di Marinuzzi dell’amico e intellettuale, sta nel messaggio preservato senza storpiature. E un messaggio chiaro, sotto il gran carico di tensioni, emozioni, tonalità fosche e colonne scosse, è che se tutto deve ricomporsi, è bene che sia lontano dall’ipocentro del sisma. Sotto la bufera che, fuori dalle mura – regali o vassallatiche che siano, rende ugualmente uomini per ciò che si è.