di Andrea Muni
(Immagine di Marco Guglielmelli)
Trieste, Rems di Aurisina, 25/11/2023
Percorro col dito il muro della cella, c’è una crepa che non passa, è sempre lì, come un pezzo di me. Le sbarre alla finestra non mi impediscono completamente di vedere fuori. Vedo la gente passeggiare, lanciarsi sguardi fuggevoli e imbarazzati quando si intralcia a vicenda il passo sul marciapiede, sulle strisce.
Guardare fisso nel muro è come guardare indietro, dentro. Vedere altri. Non appena la fissità dello sguardo consuma la flebile realtà del muro e si schiude verso l’interno, vedo quest’altro che mi spaventa, che mi fa schifo, pena. È difficile non odiare ciò che fa ribrezzo, ancora più difficile non provare orrore per ciò che si odia. Difficilissimo poi se quel qualcosa sono io; qualcuno che ho appena cessato di essere – o che potrei essere ancora.
Sopportare ciò che siamo stati: mantra fondamentale dell’arte impossibile di non soccombere a se stessi; unica chiave per non perdere contatto con la realtà. La vergogna di sé? Splendida. Il ridicolo? Meglio ancora. La nausea? Sì può sempre vomitare. Ma l’odio, quando è rivolto verso se stessi, disegna trappole immense.
Dietro al muro sgretolato, dentro di me, scorre e scorre senza sosta il film dei miei errori, dei miei tremori. Le palpebre non possono chiudersi verso l’interno, gli occhi rivoltati sono costretti ad assorbire, come radici da una terra contaminata, tutto il dolore che non può smettere di essere stato. Ma dell’Arancia meccanica che fa la muffa nel mio cuore, io sono il regista, l’attore e lo spettatore di un male che sono ancora io.
***
Nell’ora d’aria non parlo con nessuno, respiro. Preferisco parlare durante il lavoro. Faccio il pane insieme a un altro detenuto, Freddy. Non so cosa ci faccia qui a La Verriére, credo aspetti di essere estradato in Inghilterra. Io invece i miei giorni li finirò qui. Chissà se sarò Louis Althusser fino all’ultimo, chissà se lo sono ancora.
How can you live with that? Me lo ha chiesto Freddy una volta, credo riferendosi al fatto che ho ucciso Hélène. Ah, la lingua inglese, a volte il suo ebetismo la costringe a invenzioni meravigliose.
Cos’è that in questa frase se non io? Cosa sono io nella colpa, se non proprio that? E cos’altro può essere allora il perdono se non la via impossibile, lo scarto o il filo sottile, che lega e separa io e quella cosa? Me e la mia colpa? Il punto è che, dopo tanti anni, ancora non sono mai riuscito a percorrerla tutta senza spezzare il filo.
Forse per riuscirci dovrei fare i conti fino in fondo col fatto che io non sono me. In una parola: dovrei impazzire ancora un po’, o tornare a studiare linguistica, o entrambe. Ma sì, è chiaro, il problema è tutto nel perdono.
Il perdono è un regalo, perdonarsi è un regalo, ma tutti sanno che farsi i regali da soli è una cosa pessima, oltre che impossibile.
***
Ora nevica, nel silenzio del cortile trovo pace nei turbini di foglie secche che mi avvolgono, il vento riaccende la vertigine di ricordi appassiti, dispersi nel passato. Ricordo Hélène e il suo lavoro appassionato al SEDES, la mia infanzia e la mia gioventù cattoliche, la mia prigionia, mia madre e la sua aria da martire, i continui ricatti emotivi con cui mi manovrava come un burattino, gli anni all’École Normale, le piccole e grandi vittorie della mia militanza, del comunismo.
E poi mi viene in mente che, quasi sempre, chi fa del male agli altri, persino a quell’altro un po’ speciale che chiamiamo me stesso, è qualcuno che non è riuscito perdonarsi; come me. Qualcuno che ha sognato troppo a lungo di trovare negli altri, nel loro amore o nella loro distruzione, una redenzione, una conferma o una smentita assolute della propria esistenza.
Ora che è tardi lo vedo, troppe volte la spietatezza che ho avuto per coloro che amavo non era che l’eco di quella che avrei voluto far ricadere sordamente su me stesso. O viceversa.
L’estensione, a volte spaventosa, con cui il mondo e gli esseri umani si colorano di noi, delle nostre emozioni e dei nostri rancori, può assumere contorni smisurati, espandersi come un liquido, o una macchia di sangue.
Che significa uccidere una persona che si ama e poi uccidersi? Non lo so, perché – a quanto mi dicono – io vivo. Forse un bisogno di autodistruzione che ambisce a superare i confini banalmente biologici della vita. L’annientamento di ogni oggetto, di ogni appiglio, di tutto ciò che, nell’odio di me, mi separa ancora dal deserto. Perché, nell’odio di me, la morte è una scorciatoia, un sollievo. Non l’estrema punizione. L’estrema punizione è il deserto.
Sade non è un fantasma erotico, è l’immagine ipermorale del carnefice, del giustiziere, che i troppo bravi e i troppo buoni tengono murato nelle segrete del loro cuore. Ma basta un terremoto per vederlo librarsi, invertito e minaccioso, su chi amiamo; basta una rivolta per vederlo rovesciarsi allucinatoriamente a sfregiare, sugli altri, l’immagine intollerabile di noi stessi che i loro volti ignari ci rimandano.
Ecco a che serve perdonarsi, questo regalo impossibile da fare a se stessi, per gli altri.
***
Quello che cercavo era la prova, la contro-prova, della mia non-esistenza. La prova che ero già bello che morto a ogni speranza di vita e salvezza. Ma la mia autodistruzione doveva passare simbolicamente per la distruzione degli altri, compresa quella della donna che amavo. Così ho scritto nella mia autobiografia, L’avvenire dura a lungo, nella parte in cui cerco di ricostruire i cosiddetti Fatti, ovvero come e perché ho ucciso Hélène. Non ricordo ancora niente, dopo tanti anni. Solo l’istante appena successivo. Sono qui, rinchiuso, che cerco di analizzare la mia vita e la mia derelizione. È stato un raptus? Un lapsus? Sono psicotico? Delire à deux, si è detto, ho detto. Ma poi sono io che l’ho ammazzata, non il contrario.
Perdonarsi insegna a perdonare gli altri, e viceversa. Un circolo che le malìe del cristianesimo hanno saputo trasformare in arte del controllo per due millenni. Il perdono senza religione, si sa, è un impossibile. Ma Lacan – quel furbacchione che mi ha usato solo per i suoi comodi – si divertiva a dire che l’impossibile e il reale sono sinonimi, perché contrari del possibile.
E così, mentre sconto la mia pena, me ne sto qui. Rifletto molto, perché niente mi scalda più. Dieci anni in cui mi sveglio e mi chiedo perché, per come. Chi ero o dov’ero, per non accorgermi di cosa stavo facendo, di cosa ho fatto.
Con la stessa fatica, lo stesso disgusto e lo stesso senso di superiorità che proviamo quando perdoniamo un altro, dovremmo imparare a perdonarci. Per non distruggere chi amiamo. Il disgusto è un bel sentimento, un sentimento di rango, che collima col comico. Applicato a se stessi è molto meglio dell’odio, ha sapore di tragi-commedia e parodia: ci scinde in due parti, quella schifata o derisa, e quella che – disprezzando, deridendo – troneggia sul passato e perdona ciò che non possiamo smettere di essere stati.
Lo dico per voi, a me tutto questo non serve più, non può più cambiare nulla.
***
Perdonarsi non significa recuperare una verginità o una bontà perdute, non fa riavvolgere il tempo, non redime niente e nessuno, ma allena a de-idealizzare se stessi e gli altri. Perdonarsi, perdonarli, non serve che a questo: a proteggere l’al di qua, in cui siamo davvero carne e vita, dalla violenza delle idee e delle immagini che non cessano di separarci impercettibilmente, abissalmente da noi stessi e da coloro che amiamo. Quando insegnavo ho chiamato questa esperienza tossica di se stessi e degli altri ideologia. Ma darle un nome non mi ha impedito di soccomberle.
Niente scatena il furore, l’odio e la violenza quanto un ideale che appassisce, un idolo che si rivela solo pietra o terracotta, un bel sogno inquinato dal ronzio reale di un’ape. La più profonda apatia, la più spietata severità, il nichilismo più glaciale, sono sempre effetto (o parenti) di una brusca de-idealizzazione. Di noi stessi o degli altri? Ma che importa, il punto è proprio che, in fondo, è lo stesso.
Hélène l’ho uccisa perché non sono stato capace di perdonarmi; perché non sono riuscito a perdonarmi di non meritare il suo amore. I miei fallimenti, i miei tradimenti, il mio disagio psichiatrico, il mio maschilismo, l’ombra di mia madre e l’inesistenza di mio padre, i figli che non ho mai avuto. L’ho uccisa perché non mi abbandonasse, perché pensavo di me che non avevo un’esistenza veramente mia, un’esistenza autentica, [e che] dubitando di me stesso fino all’estremo […], non sono mai stato altro che un essere artificiale, fatto di nulla, un morto.
Che freddo, la neve è caduta per tutta l’ora d’aria, mi è arrivata alle caviglie. Il vento si è fermato. Fortuna che rientro, mi pare di avere di nuovo vent’anni e di essere nel campo di concentramento dello Schleswig coi nazisti che mi torturano. Quelli sì che sono cinque anni che preferirei proprio non ricordare. Hélène non credeva in dio, e nemmeno io. Siamo comunisti. Il suo volto non sfuma, non si dirada, non cambia: è la mia condanna, la mia vita, quella che mi resta. Quando questo muro che fisso nella penombra si sgretola, e si spalanca il buio, vedo solo lei. E la mia colpa infinita. Perdonatevi.