di Francesco Bercic
Chiunque s’impanchi a critico del sistema universitario contemporaneo, nella fattispecie dell’insegnamento all’interno delle facoltà umanistiche, si scontra presto o tardi contro il muro apparentemente invalicabile dello specialismo. Basti dare un’occhiata anche sommaria alle recenti pubblicazioni accademiche, non solo di settori umanistici, per comprendere portata e ampiezza del fenomeno: tranne rare eccezioni, esse indagano per lo più campi di ricerca talmente circoscritti da apparire talvolta cavillose e insignificanti perfino a chi insegna la stessa materia, per non parlare di un pubblico generalista. Ovviamente si tratta di una questione irriducibile a un giudizio di sorta. In ogni caso, l’impossibilità di accedere a un sapere sintetico e aperto, di compendiare le diverse conoscenze settoriali e farle convergere in un’unità, sembra più che mai acclarata, come d’altronde aveva intuito già cent’anni fa Max Weber: “Un risultato realmente definitivo e valido è oggi sempre una prestazione di carattere specialistico” (La scienza come professione, 1917). “Chi non possiede oggi – aggiungeva rivolgendosi ai giovani laureandi – la capacità di indossare dei paraocchi e di persuadersi intimamente che il destino della sua anima dipende dall’esattezza di questa, proprio di questa congettura rispetto a quel passo di quel manoscritto, se ne rimanga lontano dalla scienza”.
Lo stesso Weber era però consapevole dei pericoli insiti nell’affermazione storica dello specialismo. A gettare una luce sinistra è soprattutto la citazione apocrifa di Nietzsche con cui si conclude l’Etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905): “Specialisti senza spirito, edonisti senza desiderio: questo nulla si immagina di essere asceso a un grado di umanità mai prima raggiunto”. Se lo studio specialistico è una condizione necessaria delle moderne facoltà umanistiche, resta allora da capire se, e come, tale studio possa essere compatibile con una prospettiva “spirituale”, scongiurando così l’anatema di Nietzsche: quello di uno specialismo autoreferenziale e fine a sé stesso. Da questo punto di vista, è interessante soffermarsi sulla funzione che Weber assegnava alle cattedre umanistiche, in particolare a quella di filosofia, raffrontando il suo modello – fatti salvi tutti i doverosi distinguo del caso – con l’attualità.
Spesso si ripete che l’attività di ricerca, anche in ambito umanistico, dev’essere “scientifica”: un proposito di certo condiviso da Weber. Ma la parola scienza è oggi, per mille motivi, inflazionata, assomiglia sempre più a un contenitore vuoto, usata talvolta come fosse una clava per delegittimare le opinioni altrui e corroborare le proprie. Anche per questa ragione il pensiero di Weber può essere utile, al fine di sgomberare il terreno da interpretazioni fuorvianti o, peggio ancora, opportunistiche della “scienza”. In tedesco, scienza suona Wissenschaft e possiede un significato che l’italiano non è in grado di riprodurre: tant’è che si trova tradotta, in certi casi, più generalmente come “sapere”, proprio per sottolineare la differenza semantica tra le due lingue. Al di là dei problemi terminologici comunque, il profilo della scienza weberiana è delineato con precisione. La scienza per Weber è un processo che parte da lontano, dalla scoperta da parte dei greci dell’arma ancora oggi più importante a disposizione del pensiero: il concetto. Il progresso scientifico si presenta dunque – prima grazie al concetto, poi con l’aiuto dell’altra grande arma fabbricata nel Seicento, la verifica sperimentale – come un graduale “disincanto del mondo”: “La coscienza o la fede che (…) non sono in gioco, in linea di principio, forze misteriose e imprevedibili, ma che si può invece, in linea di principio, dominare tutte le cose mediante un calcolo razionale” (La scienza come professione). Tale era e resta la funzione specifica della scienza come professione. Può quindi essa risultare spirituale? E soprattutto: qual è il ruolo delle discipline umanistiche – altrettanto “scientifiche”, in senso weberiano, al pari di qualunque altra materia?
Weber non lascia spazio a dubbi: no, la scienza non può essere spirituale, se per spirituale s’intende la possibilità di rispondere alla domanda di Tolstoj: qual è il modo giusto di agire? La scienza non offre “visioni del mondo” (Weltanschauung) né può rappresentare una larvata forma di precettistica. I diversi ordini di valori sono tra loro in una “lotta inconciliabile” e la scienza non può stabilire la preminenza dell’uno sull’altro. Le sue costruzioni concettuali si presentano allora come “un mondo sotterraneo di astrazioni artificiali che cercano, con le loro mani esangui, di cogliere il sangue della vita reale, senza però mai riuscirci” (ibidem). Difficile vederci dello spirito, in un’immagine del genere. Lo scienziato – dunque l’accademico – non è un “profeta”; ricorda piuttosto un “erbivendolo”: come quest’ultimo vende i suoi prodotti ai clienti, così il docente universitario “vende” ai suoi allievi le proprie conoscenze, e nient’altro.
È a questo punto, seguendo le parole di Weber, che si crea quel cortocircuito che attanaglia le università e, con esse, il mondo moderno. Perché dall’anatema nicciano di cui sopra – dalla condizione di “specialismo senza spirito” e di “edonismo senza desiderio” – si potrà rifuggire, secondo Weber, soltanto con un nuovo profeta e nuove profezie. Soltanto un profeta potrà infondere calore, con la sua voce, in quella “pietrificazione meccanizzata” che per Weber è il destino del capitalismo moderno. Soltanto lui potrà riaffermare una dimensione autenticamente spirituale, capace di orientare l’esistenza delle masse, rispondendo alle domande vitali che, secondo Wittgenstein, rimangono fuori dal perimetro della scienza: “Anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati” (Tractatus logico-philosophicus, 1921). Ma se il professore non è altro che un “erbivendolo”, quale ruolo può giocare in questo l’università?
Lo scienziato, dunque il docente universitario, non può e non deve essere un profeta. Ma può e deve educare i suoi allievi in tal senso. Deve allenare le facoltà spirituali dell’individuo, cioè l’esercizio del pensiero orientato alle scelte di vita e alla concezione personale del mondo. Questo è secondo Weber il compito precipuo delle discipline umanistiche e, in particolare, della filosofia. Così e soltanto così sarà possibile sperare in nuovi profeti, così lo spirito potrà forse ricominciare a soffiare nella “gabbia d’acciaio” della modernità. Come può perciò l’insegnamento universitario, concretamente, attendere a una siffatta aspirazione?
Vi porrete infine la domanda: se così stanno le cose, che cosa offre allora propriamente la scienza di positivo per la vita pratica e personale? (…) Noi possiamo e dobbiamo dirvi che questa o quest’altra posizione pratica può essere derivata con coerenza interna e quindi con serietà, per quanto riguarda il suo senso, da questa o quell’altra fondamentale concezione del mondo, magari da una soltanto, o forse anche da più, mai però da questa o quell’altra. Se vi risolvete per questa presa di posizione, voi servite questo dio – per parlare metaforicamente – e offendete quell’altro. (…) Possiamo quindi, se comprendiamo bene il nostro compito, costringere l’individuo a rendersi conto del senso ultimo del suo proprio operare.
(M. Weber, La scienza come professione)
La filosofia, ma in realtà le discipline umanistiche nel loro complesso, svolgono una cruciale funzione critica, facendo chiarezza sul “fondamento di valore”. E in questo modo gettano le basi affinché possano emergere nuovi profeti: riallacciando il pensiero del singolo alla tradizione che lo ha preceduto ed educandolo così – attraverso chi prima di lui si è fatto carico di rispondere alla domanda di Tolstoj – a rispondervi in prima persona. Non c’è ovviamente nessun rapporto di necessità logica fra le due cose, fra un’educazione che manifesti un simile orientamento e l’effettiva comparsa di profeti sulla piazza pubblica. Di profeti, attualmente, non sembra ci sia traccia. Ma l’università si limita a fornire gli strumenti (e non è certo cosa da poco): come essi verranno poi utilizzati, non è più sua responsabilità.
Si può credibilmente affermare che oggi – quando gli atenei redigono i programmi di studio, quando organizzano conferenze o forum d’ogni genere – l’università si preoccupi di dar vita all’ideale di Weber? Si può credibilmente affermare che oggi l’università offra un così delicato apprendistato spirituale, sul quale per Weber si gioca niente meno che il destino dell’intera umanità? Il tono solenne probabilmente non aiuta, ma la domanda è legittima. È forse più credibile sostenere che le facoltà umanistiche abbiano quasi del tutto abdicato a un compito del genere. Leggendo quei programmi di studio o assistendo a quelle conferenze, si scopre come una certa tradizione – che include lo studio della storia e della letteratura, dei grandi sistemi di pensiero, dell’arte e via dicendo – stia venendo lentamente estromessa e quindi abbandonata in favore di corsi e discipline che con lo spirito hanno poco o nulla a che fare. Tutto ciò in nome di una “scienza” intesa non già in senso weberiano, ma in un’accezione particolarmente ristrettiva e dunque oppressiva ai danni del passato e della sua storia.
All’impossibilità sancita da Weber di presentare scientificamente una risoluzione pratica, una morale, si è sostituita la convinzione diffusa che interrogarsi sul nostro agire, sul bene e sul male, sulla verità siano occupazioni vetuste, superate dai tempi. A queste, si preferiscono le discussioni sulle magnificenze dell’intelligenza artificiale o, per dirne un’altra, sui rischi delle fake news. Argomenti rispettabilissimi, va da sé, che però non possono costituire il cuore dell’offerta formativa di un’università. Altrimenti, all’orizzonte si scorge soltanto uno specialismo piegato alle tendenze che vanno per la maggiore, incapace di reggere l’urto di qualunque interrogativo esistenziale, introspettivo. Non per rispondervi – come già chiarito – ma per scoprire “quale dio si sta servendo”. Con l’inevitabile conseguenza che l’unico dio a essere servito è l’“edonismo senza desiderio”.
*Immagine di Ant Rozetsky (via Unsplash), qui il riferimento.