di Andrea Muni
Il giorno dopo la strage alla redazione di Charlie Hebdo non riuscivo a smettere di pensare a due cose, forse banali:
1) da oggi tutta l’Europa è inevitabilmente più islamofoba di ieri, il che è un disastro tanto per gli europei che per le persone di cultura e di fede islamica; 2) continuavo a chiedermi cosa può far sì che una persona cresciuta in Europa (e non sulle alture dell’Afghanistan) si svegli una mattina e non trovi niente di più bello da fare nella vita che progettare razionalmente di uccidere altri esseri umani. Ho deciso di scrivere questo pezzo per obbligarmi a fare i conti con le due questioni che mi hanno angosciato, e non smettono di angosciarmi, dal giorno dell’attentato alla redazione di Charlie Hebdo. Premetto che scelgo di ignorare le teorie complottistiche (supportate anche dal vecchio Jean-Marie Le pen – sic!), fondamentalmente perché le ritengo inservibili allo scopo di provare ad articolare qualcosa di costruttivo, riflettendo a mente fredda, sulla tragedia di Parigi.
Col loro gesto orrendo i tre terroristi hanno mass-mediaticamente polverizzato in un paio di giorni gran parte del lavoro eroico, genuinamente politico e interminabile, svolto in prima linea da tante persone che quotidianamente si impegnano in Europa per l’integrazione culturale e sociale. L’Europa è oggi più islamofoba di tre settimane fa, e questo, purtroppo, è un dato. Vorrei introdurre la prima questione che mi angoscia offrendo due esempi, profondamente differenti, di uno strano silenzio che ha accomunato (paradossalmente) le persone che lottano quotidianamente per l’integrazione e le figure politiche di spicco dei partiti islamofobi e neo-fascisti.
1) La signora Evelyne, l’assistente sociale che ha avuto in custodia i fratelli Kouachi quando questi – senza padre e orfani di madre prostituta e suicida (di cui loro stessi hanno trovato il cadavere) – furono affidati ai servizi sociali a soli otto e dieci anni. La signora, ormai in pensione e fervente cristiana, dopo aver condannato gli attentati (non gli attentatori!) di Parigi, non ha potuto fare a meno di chiedersi (parlando di Sherif Kouachi) con toccante commozione e nostalgia: “se avesse avuto un’infanzia felice, sarebbe diventato un terrorista?”. Non una parola di condanna, o di rancore, da parte della signora, nei confronti di una persona che ha ucciso 12 persone innocenti. Una presa di posizione quantomeno inconsueta a cui ha fatto da contraltare la dichiarazione di un’attuale assistente sociale del diciannovesimo arrondissement parigino (dove sono nati e cresciuti i fratelli Kouachi). Marise (nome di fantasia datole dall’intervistatore) – impegnata attivamente sul capo dell’integrazione sociale e culturale – ha affermato “siamo tutti responsabili per non aver offerto una gioventù equilibrata a questi ragazzi, e per non aver scorto in tempo la sofferenza della loro madre e la loro sofferenza di orfani. Ma questa non può essere una buona scusa per uccidere altre persone né per lasciarsi affascinare dall’assurdità del fanatismo”. Anche in questo caso, comunque, nessun attacco diretto o aggressivo nei confronti degli attentatori, ma almeno un sobrio e appropriato monito a non vittimizzare (chiamando in causa infanzie terribili) chi si macchia di misfatti orrendi per pura sete di (auto)distruzione.
2) Su tutt’altro versante abbiamo invece il silenzio di Marine Le pen (e di Matteo Salvini, o chi per loro). Gli islamofobi “istituzionali” hanno infatti preferito – insieme a molte persone spaventate dal gesto disgustoso di questi tre personaggi – non accanirsi contro gli individui che hanno commesso la strage, preferendo piuttosto passare direttamente ad un’aggressione diretta della religione e della cultura islamiche, tacciandole tout court di violenza ed estremismo. Questo “piccolo salto” ha permesso ai leader dell’estrema destra di utilizzare propagandisticamente la tragedia di Parigi, facendo scivolare in secondo piano il fatto più evidente, cioè che la strage di Parigi è il frutto inevitabile di una mancata integrazione sociale (e del totale abbandono a se stesse di persone profondamente disagiate che sono nate e cresciute in Europa). È infatti invalsa a destra la teoria secondo cui i disagiati farebbero bene ad arrangiarsi da soli, teoria “sociale” di tutto “rispetto”, che però prevederebbe quantomeno che i suoi sostenitori non siano gli stessi che per primi si sconvolgono e si sconcertano quando, dagli angoli più bui della nostra società, emergono mostri di simili proporzioni. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. L’integrazione non è una questione “morale”, è una questione “strategica”, di tenuta politica, economica e sociale.
Insomma, sia sul fronte delle persone che lavorano attivamente per l’integrazione, sia su quello anti-islamico “istituzionale” è emersa una certa refrattarietà a manifestare direttamente il proprio rancore nei confronti dei terroristi. Sottolineo “istituzionale”perché invece gli islamofobi “popolari” sembrano essere di tutt’altro avviso: per quale ragione altrimenti la Francia avrebbe deciso di secretare il luogo di sepoltura dei terroristi (se non per paura di ritorsioni – o celebrazioni – popolari post-mortem)? Gli anti-islamici “istituzionali” invece – tanto per non rischiare di fare i conti con la realtà sociale di ciò che è avvenuto – hanno preferito passare direttamente allo scontro tra civiltà, incitando all’odio nei confronti della fede e della cultura musulmana – che i tre terroristi hanno utilizzato come prima scusa che avevano sottomano per giustificare il loro desidero di (auto)distruzione. Mentre i progressisti “istituzionali”, a cui inizia a tremare il culo, ma che, al contempo, non possono dire di aver paura dell’islam, hanno pensato bene di montare ad arte una “coraggiosa” manifestazione in favore della libertà di espressione. Come se la libertà di espressione c’entrasse minimamente qualcosa con tutto quello che è accaduto…
Ogni ragionamento politico “istituzionale” fatto finora sulla strage di Parigi continua a rivelarsi nient’altro che un disperato tentativo di non guardare in faccia la realtà. Si è arrivati persino a dire che il cristianesimo è diverso dall’islam, perché non si fanno attentati terroristici in nome del cristianesimo. Il che forse è vero, almeno recentemente… se eccettuiamo le 77 vittime causate da Anders Breijvik (il terrorista che nel suo delirante manifesto politico di autodefiniva “salvatore del cristianesimo”) in Norvegia nel luglio 2011. Per giustificare la sete di sangue del neo-nazista Anders Breivik si è parlato di “malattia mentale”, un disagio che per qualche misterioso motivo non ci viene altrettanto spontaneo attribuire a persone di origine araba o magrebina.
Il trucco qui infatti è tutt’altro. Sappiamo benissimo che il cristianesimo non è la nostra religione “politica”. Se per l’islam radicale stato e fede coincidono, ciò significa che – ai loro occhi – la religione dell’Occidente non è affatto il cristianesimo, ma il capitale. Quando andiamo a casa loro a fare la guerra in Iraq, generando l’Isis, ci andiamo in nome del capitale, del soldo, del petrolio, non di Gesù. Lo scontro di civiltà montato ad arte per strumentalizzare l’attentato a Charlie Hebdo ha veramente del surreale. Tre terroristi, cittadini francesi ed europei, fanno una strage in nome dell’islam… e l’opinione pubblica si divide tra fazioni pro- e anti- islam. È come se io facessi una strage in nome della Coca-cola e l’opinione pubblica si dividesse tra capitalisti e comunisti senza porsi nemmeno per un istante il problema di capire come sia potuto accadere che io, Andrea Muni, mi sia ridotto a scegliere uno sponsor così a buon mercato per giustificare la mia sete di morte.
Un terrorista come i Kouachi, come Koulibaly, o come Brejivik è una persona stanca di vivere. Una persona che sceglie, come finale esplosivo della propria misera esistenza, di morire uccidendo altre persone. Un terrorista “suicida” è una persona che ha già deciso che la sua vita, in questo mondo, non vale niente.
Non esistono oggi in Europa persone con una casa, una famiglia, un lavoro e un futuro che diventano magicamente terroristi per intervento del radicalismo religioso; questa schematizzazione è semplicemente ridicola. Esistono invece molte situazioni di disagio, anche in Europa, in cui l’integralismo religioso trova ampi spazi per radicarsi e affascinare gli “ultimi”. Primo tra questi spazi è senz’altro la prigione, un luogo che ci immaginiamo capace di poter ingoiare tutte le persone pericolose che ci minacciano; peccato solo che – visto che non si può tenere gente in carcere trent’anni perché è “pericolosa” – queste persone poi, quando escono, ritornino alla società civile con la loro rabbia decuplicata e “arricchiti” di conoscenze quanto meno discutibili. E purtroppo (per i neo-fascisti) non si può sempre rimandare queste persone “al loro paese”: perché Koulibaly e i Kouachi, come Breivik, erano cittadini europei a tutti gli effetti.
Come sappiamo dalle loro tremende storie personali, le vite dei tre attentatori raccontano di un disagio propriamente occidentale (intercettato in carcere – e già prima nella banlieue – dall’integralismo islamico). Il radicalismo (politico o religioso) è da sempre seduttore degli ultimi, degli stanchi, degli sconfitti: è la loro consolazione, il loro momento di gloria. Ogni universalismo (politico o religioso) strizza l’occhio prima di tutto agli scontenti, ai sofferenti, agli sconfitti, agli ultimi: li vittimizza per poi offrigli un al di là (divino o politico) capace di ricompensare il sacrificio (in vero poco costoso) delle loro già miserevoli vite. Come ha avuto modo di notare Žižek, in uno dei suoi ormai sporadici momenti di lucidità, la specificità degli attentatori di Parigi è quella di essere dei giovani francesi; giovani svantaggiati e sfortunati che ci hanno provato – forse maldestramente e svogliatamente – a combinare qualcosa nel mondo e nella cultura in cui sono cresciuti (la nostra!). È stato il loro fallimento personale e sociale nella nostra cultura – la prima alla quale hanno guardato – a condurli auto-vittimisticamente tra le braccia del radicalismo islamico. A questo proposito – per chi se lo fosse perso, e per chi leggendo queste righe ritenesse che estremizzo la questione – consiglio l’agghiacciante video in cui un giovane Sherif Kouachi viene ripreso mentre prova a sfondare come rapper (con una canzone che parla di rap e moschea).
Perché dunque questa strana indifferenza bi-partisan, di islamofili e islamofobi “istituzionali”, nei confronti degli attentatori? Niente odio nei loro confronti, nessuna manifestazione eclatante di disprezzo, nessuna ingiuria. È come se ci fosse qualcosa di morbosamente sacro in queste figure, qualcosa di insondabile, di intangibile, di ingiudicabile dal punto di vista di una persona “normale”. Tutti condannano gli attentati, ma nessuno condanna gli attentatori: alcuni non lo fanno per un eccesso di umanità, altri semplicemente perché hanno una migliore strategia propagandistica da giocarsi. Credo che in entrambi questi atteggiamenti (razzismo e vittimizzazionne), si celino un’ipocrisia e una paura che fanno ostacolo a considerare il terribile evento di Parigi per ciò che è: la responsabilità individuale di tre persone.
La paura: considerarli responsabili come singole persone obbligherebbe automaticamente a fare i conti col fatto che esiste un momento razionale (non un raptus!) in cui una persona (disperata) progetta consapevolmente di commettere un male mostruoso. Tutti noi potremmo – in condizioni limite di disagio e malessere quali erano quelle dei tre pargini – partorire consolatorie fantasie omicide e stragiste lasciandoci sedurre da chi vigliaccamente potrebbe indurci (e aiutarci) a metterle in pratica. Breivik – per fare un controesempio – non era né povero né di colore, aveva altri problemi… e si è lasciato sedurre da altri “integralismi”.
L’ipocrisia: mi sembra ci sia un gran desiderio di non pensare al fatto (angosciante) che questi mostri vivevano in mezzo a noi, vestendo come noi, leggendo giornali, mangiando pizze, andando su internet, ascoltando musica. Non vogliamo pensarli come persone che avevano sogni e desideri come i nostri, ben differenti da quelli di morte, martirio e autodistruzione a cui sono giunti come “seconda scelta”. Fa male pensarli così, pensarli come la signora Evelyne pensa a Sharif Kouachi; ci fa male pensare che abbiano desiderato di essere persone “normali”. Preferiamo immaginarli nati e cresciuti in un mondo totalmente altro, in un mondo in cui queste violenze accadono a causa di arretratezze, guerre, abusi atroci… un mondo “altro” che invece, vertiginosamente, non è che il “negativo” fotografico del mondo in cui NOI viviamo: l’Europa di oggi. Il mondo dei quartieri degradati delle grandi metropoli, dei poveri, degli ignoranti, degli immigrati, dei precari, dei disoccupati, degli orfani, dell’assistenza sociale,…
L’humus di questo odio feroce è qui in casa nostra, noi stessi lo co-creiamo (col razzismo, con la vittimizzazione degli immigrati e con i più piccoli gesti quotidiani che nemmeno ci accorgiamo di compiere). È un circolo vizioso di odio e paura, paura e odio. L’odio genera paura e la paura genera odio in una spirale che in questo momento sembra inarrestabile. Un odio nuovo, che cresce invisibile sotto in nostri occhi, come una robusta pianta assassina pronta a spalancare la sua orrenda bocca carnivora nel buio, per poi ripiombare ipnoticamente nelle tenebre del più totale anonimato. Non serve a nulla odiare l’islam, odiarlo non fa che aumentare questa tremenda spirale d’odio di cui beneficiano soltanto i potenti (economicamente), gli “istituzionali” (propagandisticamente), i benpensanti che difendono i “poveri” senza mai averci avuto davvero a che fare (moralisticamente), e i razzisti (vittimisticamente).
Invece di confluire (un po’ bovinamente) in manifestazioni strumentali come quella in onore della libertà di espressione, potremmo piuttosto provare a trovarci tutti d’accordo almeno su una cosa: gli attentatori di Parigi (e Breivik) sono un esempio, transculturale, transreligioso e interclassista, di un tipo di essere umano che chiunque noi siamo – nel micro delle nostre esistenze – ci ripromettiamo di non diventare mai: un nichilista che si soddisfa solo uccidendo e morendo. Un fragile insicuro invidioso che ha bisogno di zittire tutti per sentire ancora il suono dei suoi pensieri.
Queste persone meritano il nostro disprezzo transculturale, perché – invece di provare ad affrontare la merda che la vita ti butta in faccia ogni giorno, come fanno miliardi di persone sfortunate – hanno preferito sfogare la propria (auto)distruttività contro persone inermi, nella segreta speranza di essere ricordati (almeno dal loro dio) per qualcosa di disgustoso… visto che ormai avevano la certezza che qualcosa di bello, in questo mondo, non sarebbero mai stati capaci di farlo.
La discriminazione e la vittimizzazione sono i due reciproci ingredienti politico-culturali di un mix esplosivo: l’auto-vittimizzazione. L’auto-vittimizzazione è un cancro, è il più grande pericolo che corrono quotidianamente tutti quelli che (io per primo) non sono felici di come sta andando il mondo. L’auto-vittimizzazione è ciò che ha “autorizzato” gli attentatori di Parigi a compiere il loro gesto mostruoso, ma è anche ciò che permesso al popolo tedesco di tollerare e appoggiare l’Olocausto; è anche ciò che ha fatto sì che il popolo americano appoggiasse entusiasticamente l’invasione in Iraq; o ciò che permette alla gente di Israele di tollerare il lento genocidio del popolo palestinese. L’auto-vittimizziazione è un fenomeno tristemente transculturale, ed è pericolosissima; è la stessa trappola che fa sì che, come europei, negli ultimi quindici anni, abbiamo invaso insieme agli USA tutto il Medio Oriente, raccontando a noi stessi che lo facevamo in difesa della civiltà, della libertà, della democrazia, dei diritti umani, del bene.
Come conclude Žižek nel suo bel pezzo: far tacere gli altri con la violenza (immaginandoli come i veri malvagi, ed immaginando se stessi come i buoni), non è che il sintomo di quanto le nostre verità siano deboli, fragili, autovittimizzanti, poco meno che consolatorie. Una verità che non crede in stessa deve infatti far tacere tutte le altre per riuscire ancora ad aggrapparsi al suono della propria voce. Una verità del genere è una verità che rende infelici, una verità di ripiego che, mentre finge di consolare, spinge giorno dopo giorno sempre più sull’orlo dell’abisso. Ci sono milioni di persone disagiate che vivono e muoiono con dignità, mentre ci sono persone che vivono e muoiono piene di odio e rancore, come i terroristi di Parigi (o Breivik). Quest’ultimi non sono persone “con più palle” di quelle che si spengono in silenzio sotto i lampioni delle stazioni, o di quelle che si tolgono la vita dopo avercela messa tutta provando a riconquistarsi una vita “normale” (e aver tragicamente fallito, come la madre dei fratelli Kouachi).
Credo che si parli molo poco di quanto ci facciano schifo i terroristi di Parigi perché questo ci costringerebbe a confrontarci automaticamente anche col muto eroismo di tutti gli “ultimi” che non provano alcun rancore per un mondo che li discrimina, li sfrutta e li tradisce – cosa che, specialmente in questo momento di paura, di fragilità e di dilagante xenofobia, proprio non abbiamo voglia di fare (anche perché ci abituiamo sempre un po’ di più, anche grazie alla demagogia dei vari partiti, a provare rancore nei confronti del mondo non appena qualcosa ci va storto – foss’anche per colpa nostra). E invece è proprio questo il momento di ricordarci che a volte ci vuole più coraggio a non “avere le palle” che ad averle, specialmente se “avere le palle” significa sfogare ciecamente il proprio odio contro persone inermi. Il mio personalissimo pensiero, per concludere, oltre che a tutte le vittime della strage, va a tutte quelle persone – differenti per fede cultura ed estrazione sociale – che, pur vivendo situazioni di disagio o di svantaggio, non cedono al desiderio nichilista di sfogare il loro dolore contro persone che non gli hanno fatto direttamente nulla di male. Eroi sono tutti coloro che, quando sentono di non aver più nulla da perdere – cosa che capita sempre più spesso a sempre più persone – hanno il coraggio e la forza di vincere l’istinto a vendicarsi ciecamente e indiscriminatamente del mondo che li circonda.
Eroi del silenzio e dell’”infamia”. Eroi che, pur non avendo niente (o pochissimo) da perdere, lottano allegramente ogni giorno per costruirsi una piccola vita felice e dignitosa (o per la semplice sopravvivenza). Eroi che ti ricordano silenziosamente che, prima di tutto e alla fine dei giochi, è sempre con te stesso che devi fare i conti – che tu sia Charlie o meno.
Mi sembra un po’ troppo semplicistica come spiegazione: contrappone ad una cultura del razzismo e dalla violenza (il Male) una cultura dell’accettazione e della tolleranza (il Bene) ma la situazione non è così. Non c’entra niente la povertà in sé, poiché sedurre dalla violenza si fanno anche gli abitanti dei paesi benestanti (come Breivik). La verità è che siamo in una guerra tra la Mondializzazione imperante e tutte le alterità che le si oppongono in maniera violenta e coi suoi stessi mezzi. Per gli islamici, o gli immigrati disagiati dei paesi occidentali, non è tanto un problema di benessere, quanto di un vuoto nichilista a cui noi siamo abituati e sottomessi mentre loro no. In tale clima l’Islam radicale fornisce un giusto pretesto per tutti gli esclusi dal Nuovo Ordine Mondiale e dalla Globalizzazione imperante. In questa situazione siamo noi i poveri e i miserabili, prigionieri della nostra ideologia fasulla e politically correct e incatenati ad un universo televisivo e virtuale, non loro.
ciao alessandro, sono talmente d’accordo con te, al punto tale che mi rileggerò il pezzo perché mi sembra sia esattamente quello che ho detto anch’io 🙂 grazie del bel commento 🙂
Tutto giusto.
Ma prima o poi dovremmo accorgerci che l’immigrazione coatta è servile alla globalizzazione, alla mondializzazione, all’azzeramento delle identità, all’appiattimento culturale, all’incremento del profitto del capitale.
A volte mi rendo conto che, soprattutto da una certa “parte” politica, sia troppo difficile da digerire.
Ciò non significa xenofobia o odio del diverso, tutt’altro: l’immigrazione di adesso va fermata per il benessere nostro e loro.
Ciao Lorenzo, grazie di partecipare 🙂 Pur non condividendo il valore che mi sembri attribuire all’identità, trovo che tu abbia toccato una questione davvero importante: cosa possiamo fare per il benessere nostro e loro?
La prima cosa che mi viene in mente è: smettere di sfruttare le loro terre e il loro lavoro a basso costo, e poi, smettere di fare le guerre in casa loro in nome del “bene”.
La seconda che mi viene in mente è: dedicarsi all’integrazione (vera!) dei milioni di cittadini europei (come erano anche i terroristi) che sono immigrati (o figli di immigrati) regolarmente arrivati in Europa.
Se è difficile accettare, per una certa politica, come tu dici molto bene a mio avviso, che l’immigrazione è un deleterio controeffetto della globalizzazione, è vero anche che – per un altra “certa” parte politica – è ancora molto difficile accettare che un cittadino europeo di pieno diritto possa avere la pelle nera o essere di fede islamica. E questo – sarai d’accordo con me – è inaccettabile.
Ho scritto il pezzo proprio nella speranza di articolare (in primo luogo per me stesso) una possibile terza via (etico-individuale), che possa tagliare corto con la dialettica (un po’ stucchevole) tra vittimizzazione e discriminazione.
Ti rispondo per punti, così da inquadrare meglio il discorso:
“La prima cosa che mi viene in mente è: smettere di sfruttare le loro terre e il loro lavoro a basso costo, e poi, smettere di fare le guerre in casa loro in nome del “bene”.”
Sono d’accordissimo con te. Infatti non ne faccio una questione etnica, ma valoriale: le lobby capitaliste occidentali sono i nemici degli “europei” (sempre se lo vogliono capire) così come degli “arabi”. Lapalissiano.
“La seconda che mi viene in mente è: dedicarsi all’integrazione (vera!) dei milioni di cittadini europei (come erano anche i terroristi) che sono immigrati (o figli di immigrati) regolarmente arrivati in Europa.”
In tutto ciò io rivedo, ribaltato, il fardello dell’uomo bianco: perché dobbiamo essere noi a dedicarci all’integrazione? E se io non lo vorrei fare, ad esempio, ne sarei forzato? Qua sta il paradosso dell’ “integrazione forzata”.
” […] è vero anche che – per un altra “certa” parte politica – è ancora molto difficile accettare che un cittadino europeo di pieno diritto possa avere la pelle nera o essere di fede islamica. E questo – sarai d’accordo con me – è inaccettabile.”
Vero, ciò è figlio in parte di razzismo e xenofobia perfettamenti servili alle logiche della globalizzazione, ma anche di una certa reticenza generalizzata (di questo, ahimè, parliamo, non di casi singoli) a integrarsi. Non mi pare di dire un’eresia in tutto ciò, o sbaglio?
Ps: per me non è inacettabile dal momento in cui la “cittadinanza europea” è una balla colossale, figlia di un’istituzione creata ad hoc dagli USA per mantenere il controllo economico e geopolitico dell’Europa. Io non mi sento per nulla cittadino europeo, tanto meno quindi riconosco un islamico come cittadino europeo (anche perché, se proprio vogliamo andare a ritroso, tra i pochissimi fattori di comunanza di valori europei c’era, nei secoli passati, la fede cristiana in ottica antiislamica).
Inacettabile è vedere sfruttati dal capitale, dalle lobby, dagli USA, dalla UE questi poveri cristi.
Inacettabile è vedere le cooperative che si intascano fior fior di soldi dai fondi di accoglienza e integrazione.
Inacettabile è vedere questi uomini vivere e lavorare in condizioni disumane e sottopagati, fino ad accettare stipendi ben sotto alla media dello standard europeo.
Inacettabile è vedere i cittadini italiani, spagnoli, tedeschi ecc accettare a loro volta lavori con stipendi calmierati dall’immigrazione e dallo sfaldamento di ogni tutela sociale che gli Stati avevano.
Inacettabile è vedere gli scontri etnici tra poveri nelle nostre metropoli.
Inacettabile è far finta di non vedere che dentro a questo mondo si nascondono molti criminali, delinquenti ecc che aprofittano di arrivare da noi per delinquere impunemente.
Inacettabile è non comprendere che il multiculturalismo forzato, perché di questo si tratta, altro non è che un progetto disegnato a tavolino per annientarci sotto qualsiasi punto di vista statale, d’indipendenza, sociale, nazionale. culturale e, lo dico sì, identitario. A noi europei e a loro immigrati. Vittime entrambi di uno stesso carnefice.
Prendo spunto dal tuo intervento, Lorenzo, per fare un discorso un pò più largo. A me questo rovesciamento non convince. Mi sembra artificiale e retorico. Per esempio il discorso – molto in voga – di opporsi all’immigrazione in nome degli stessi immigrati sfruttati, mi puzza molto. E’ un salto furbesco, che astrae da tutti i rapporti sociali concreti, come se lo sfruttamento “a casa loro” non esistesse. Se poi il problema sono le “lobby” occidentali, bene. Ne prendiamo atto e facciamo passare delle linee di conflitto diverse, trasversali a popoli e nazioni. Qua, però, mi sembra nascondersi l’inghippo: sotto parole come lobby e popolo avanza una caratterizzazione diversa, più etnica, dove un popolo indifferenziato e radicato su un territorio ben marcato si oppone a lobby globalizzate. E si reintroduce un pregiudizio sottilmente razziale. Quando invece è evidente che lo sfruttatore possa essere tranquillamente “nazionale”. Quel “valoriale” è sintomatico: la postura è quella razzista, ma non più biologicamente, anche se spesso finisce per intrecciarsi con istinti un pò meno sofisticati ( “il negro”, ecc).
Ma anche parlare di “reticenza” all’integrazione mi sembra di nuovo un discorso rovesciato, decontestualizzato. Tante cose andrebbero dette, mi limito alla questione generale. Ragionando per assurdo: ma se anche non si volessero integrare, omologandosi piattamente ai nostri usi e costumi? Cosa pretendiamo? Che si adeguino a una cultura in cui noi stessi non crediamo più o che costruiamo fantasiosamente su “tradizioni millenarie”? Mi viene in mente il padano Salvini che difende il presepe. C’è una finzione in tutto questo. “Vengono qui e hanno anche la pretesa di…”: qui sta il problema, riconosciamo il migrante finchè resta un “altro” subalterno, muto, docile. Quando alza la testa, si fa soggetto portatore di diritti, rivendicazioni, lotte, è un ingrato. Condivido con te, per opposte ragioni, l’insofferenza per questo multiculturalismo di facciata, che si ferma lì dove inizia la soggettività dell’altro. Poi c’è la legge, certo: ma a quella dobbiamo un’osservanza “formale”, o ne facciamo un fatto di eticità? Ed ecco l’integrazione, anche e soprattutto dei diritti.Quando dici “ma se io non volessi fare”, parli da una posizione di forza. Perchè ” se non lo fai” stai già escludendo all’altro le tue stesse possibilità, le neghi da una posizione di privilegio. E qui di nuovo si torna al punto dello sfruttamento e dei salari. Domanda ingenua: ma se avessero i nostri stessi diritti, sarebbe ancora possibile sottopagarli trascinando i salari ad una corsa al ribasso? A chi conviene? Non riesco a capire perchè la risposta allo sfruttamento della loro forza lavoro sia la chiusura delle frontiere. Se è quello il problema (così vediamo il bluff, se c’è – dico in generale, nel discorso pubblico), parliamo di politica dei salari, di accesso ai diritti di quelli che “forzatamente” (questo sì in maniera inaccettabile) ingabbiamo in una clandestinità di convenienza. E ancora la delinquenza: ma pensiamo veramente che una persona faccia migliaia di km per “delinquere”? La delinquenza sarà o no un fatto sociale? Mi rendo conto del problema – di cui parla ottimamente Andrea nell’articolo – di non giustificare un atto omicida, così come delle scelte individuali di ognuno. Però di certo non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla povertà, allo sbarramento di qualunque opportunità.
Banalmente, non hai risposto a un quesito insito nella mia risposta ad Andrea.
Tutto ciò, a chi conviene? A chi fa gola? CHi ci guadagna? Chi ci perde? Chi sono le vittime? Chi i carnefici?
Questa immigrazione è stata costruita al fine di accelerare il processo globalizzante, o no?
Non voglio rifuggire dal dibattito, ma, a mio avviso, senza sapere in merito la tua opinione su questi punti chiave non credo di essere in grado di scoprire altre carte, sarebbe come giocare a poker con le carte di tressette.
A me della strage di Parigi colpiscono due aspetti apparentemente più deteriori. Il primo, assai banale, è che Charlie produceva – e credo continuerà a produrre – al 90% merda. Potrebbe essere una mia opinione, ma temo lo sia a ragion veduta avendomi il Fatto costretto ad acquistare la copia di Charlie in allegato: semplicemente imbarazzante, di un livello assimilabile a quello di altri numeri accuratamente visionati su alcuni siti internet.
Data (anche) la qualità delle vignette e delle battute, mi pare evidentissimo che l’attacco alla redazione non sia assimilabile a un attacco alla nostra libertà di espressione, di cui la satira è, perdonate il gioco di parole, la massima espressione – qualora ben fatta, pensata e confezionata. Traduco: scrivere “merda” accanto alla figurina stilizzata di Maometto in prima pagina non è satira; perché non insinua nulla, né induce a riflessioni, risultando quindi una specie di tautologia coprofila partorita da un bambino di tre anni.
Non essendo satira, lo sbrodolamento puerile di Charlie non poteva, né può, in definitiva, essere eletta a baluardo della nostra oclocrazia clericale. E ad avvalorare la mia tesi ci sono anche le parecchie persone che alla manifestazione di Parigi si sono “immolati” a difesa della libertà d’espressione e di pensiero ostentando simboli religiosi: come a dire, Anche se abbiamo modi diversi di chiamare papà, siamo tutti uniti per Charlie. Peccato che la satira sia per sua natura il contrario di tutto ciò che è dogmatico, apodittico e irrazionale. Quindi, al massimo, nel riprendere uno dei pochi brani eccellenti dell’ultimo libro di Houellebecq, si potrebbe dire che la strage sia risultata, se non il mero gesto estremo di giovani cittadini francesi emarginati, sofferenti e divenuti delle terribili teste di cazzo, un’offesa agli atei e agli agnostici, che sono i veri nemici dell’Islam e di tutte le religioni. In definitiva, se è vero, come è vero, che l’attentato a CH non è per niente un attacco alla nostra libertà di espressione, è anche vero che l’aver ammazzato individui atei/agnostici e materialisti in rapida sequenza abbia offerto una chiave di lettura sociologicamente intrigante, che secondo me non può essere ridotta alla pur doverosa sottolineatura di una semplice responsabilità individuale.
Il secondo punto è invece la – per me – sempre sorprendente bontà d’animo che viene profusa nei confronti delle religioni. Il dramma non è che nelle settimane successive l’Europa, o anche solo la Francia, sia diventata sempre più islamofoba; bensì che l’Europa diventi sempre più islamofoba quando non accenna minimamente a strutturare idiosincrasie e diffidenze simili nei confronti del cristianesimo – che, ricordo, non ha poi visto dividere i poteri temporali e religiosi da tempi così immemori. Le parole del Papa sulla mamma e sul pugno non hanno scatenato l’indignazione di nessuno, mi pare: la prova più tangibile e perfetta che si è assimilato della strage al CH solo ciò che fa comodo agli occidentali cattolici secolarizzati. Il dibattito sull’Islam è straordinariamente importante perché, se da un lato è vero che l’applicazione universale delle leggi coraniche potrebbe portare a un’equa redistribuzione delle risorse e alla cancellazione della povertà, l’accettazione prona dell’avanzare dell’Islam nei territori dello Stato di diritto occidentale condurrà sicuramente alla distruzione dei principi su cui si fondano le nostre libertà prodotte dall’Illuminismo; che, seppure non modulino l’agire umano nel migliore dei mondi possibili, consentono comunque a tutti di modulare le proprie vite in totale indipendenza da presunte volontà soprannaturali. Detto altrimenti, per quanto mi disgustino il multiculturalismo e il relativismo d’accatto inventati di recente per “liberarsi a cazzo” (cit.), questi due approcci vanno applicati mantenendo una ferma opposizione a tutti gli elementi culturali che si identificano con una religione avente la pretesa di far coincidere il diritto divino con quello civile. Ognuno ha le proprie ragioni finché le tue non si scontrano con la Ragione.
Lorenzo: questa immigrazione non “è stata costruita” al fine di accelerare il processo di globalizzazione, è un suo effetto indesiderato. Ripartiamo da qui se vuoi. Inoltre ho trovato veramente strana la tua risposta sulla questione dei cittadini europei di fede e di cultura islamica o di origine extra-europea, magari da generazioni: hai svicolato dicendo che non riconosci l’Unione europea, ma essere cittadino europeo significa essere cittadino di uno stato membro (ad esempio italiano). Mi sembra che nella tua risposta implichi che uno straniero non può e non deve mai in nessun caso diventare cittadino italiano, correggimi se sbaglio, non vorrei fraintendere. Inoltre ti faccio notare che la Francia quando ha invaso e colonizzato Tunisia e Algeria ha obbligato tutti i cittadini tunisini e algerini a diventare anche cittadini francesi… a proposito di controeffetti della colonizzazione… gli hanno dato la cittadinanza forzata per dominarli meglio… pensa che bella storia… 🙂 Inoltre sul lavoro delle cooperative potresti essere un po’ più preciso con nomi e cognomi, o ritieni un dato acquisito che tutti quelli lavorano per l’integrazione siano dei mangiasoldi? Sono d’accordo con te che spesso ci sono delle frodi, ma è anche il caso di fare un po’ di distinzioni… abbiamo ad esempio presentato una inchiesta di Lilli sull’UNHCR che svelava alcuni sgradevoli retroscena, ma ci sono realtà e realtà, non credi?
Luca: il tuo discorso mi sembra incredibilmente autocontraddittorio… la Ragione a cui fai riferimento alla fine del tuo bell’intervento (che parzialmente condivido) è esattamente quella che fa da sfondo alla laicità esasperata di charlie, oltre che quella che ha portato l’Occidente a colonizzare il mondo in nome di valori “universali” che essa (la Ragione) millanta.