di Maria Grazia Turri
[Articolo pubblicato su mimesis-scenari, lo riproponiamo qui con il consenso dell’autrice e della testata]
Quando ero adolescente pensavo che il mondo sarebbe diventato più ampio, più aperto, più libero e più giusto. Invece nel corso degli anni ho percorso 15 paesi che oggi non è più possibile visitare e così, contrariamente alle mie aspirazioni, il mondo si è ristretto e questo è avvenuto proprio mentre avanzavano processi che abbiamo definito mondializzazione e globalizzazione culturale, economica e tecnologica. Fenomeni che sembrano non aver coinvolto la dimensione politica, dove ci si richiama più al nazionalismo che al cosmopolitismo.
Eppure ciò che è avvenuto a Parigi – e avviene da tempo in Nigeria, in Iraq, in Siria, in Tunisia, in Mali, in Marocco, in Pakistan e in molti altri paesi – è una questione drammaticamente politica ed è la politica che è chiamata a dare risposte ad avvenimenti tragici e drammatici. È la politica che in primo luogo deve modificare la sua cultura, poiché culturale è la questione che dobbiamo affrontare, invertendo pratiche che l’Occidente ha attuato nel tentativo di preservare prerogative, spesso spacciate per valori, nell’illusione che preservando o difendendo alcune istituzioni si sarebbero presidiati e salvaguardati i valori stessi. Questi ultimi, quasi sempre, illusoriamente immaginati come statici e immodificabili.
Dal 1979 Europa e Stati Uniti hanno attuato politiche sciagurate e ora è difficilissimo invertire la piega che le vicende hanno assunto. Allora, come ora, le questioni sono molto complesse e per assumere decisioni si tratta di conoscere le culture altre e di educare alle loro conoscenze: è noto per esempio che gli Stati Uniti decisero sia nel 1990 che nel 2003 gli interventi militari in Iraq conoscendo poco o nulla di quel paese e in entrambi i casi lo ammisero molto tempo dopo.
Oggi il rischio molto concreto che corriamo è quello di ripercorrere l’errore che Edward Said denunciò con il libro Orientalismo: semplificare un fenomeno culturale e far coincidere questa articolata e intellettualmente ricca religione, l’islam, con il fanatismo. E questo a discapito di un elemento molto evidente: la lotta è all’interno dello stesso mondo islamico e le prime vittime sono proprio le persone che a questa dimensione si rifanno.
In questi giorni ricorrono soprattutto due parole: terrorismo e guerra. Entrambe inappropriate. Il termine che il mondo islamico adotta è Jihād, che l’Occidente declina al femminile perché l’accosta a guerra, mentre nella lingua originaria è al maschile. Jihād implica una variegata e considerevole teologia – mi scuso quindi per le semplificazioni qui d’obbligo – ed è con questa dimensione che sia la cultura occidentale che i seguaci del Corano devono fare i conti.
Nel tempo Jihād ha assunto un significato, dal punto di vista terminologico e semantico, grazie al contenuto teologico-giuridico che gli hanno conferito le fonti del diritto islamico: il Corano, la Tradizione – sunnah – e la giurisprudenza successiva, poiché il primo testo non fornisce risposte e soluzioni al complesso insieme di problemi che progressivamente le varie comunità musulmane si sono trovate a dover affrontare.
Jihād ha un significato letterale che è quello di sforzarsi, applicarsi a qualcosa, ma il suo valore semantico va analizzato attraverso l’esegesi – tafsīr – e l’ermeneutica – ta’wīl –.
La parola ha connotazioni complesse e almeno tre significati: combattimento contro se stessi, combattimento contro i “cattivi” musulmani, lotta contro gli infedeli. Un unico concetto unifica le diverse accezioni di «lotta sulla via di Dio». Jihād è lo sforzo che il musulmano deve compiere su più versanti – spirituale, morale, intellettuale, politico – per creare una società giusta e decorosa, dove i poveri non siano sfruttati: la società in cui Dio ha voluto che l’uomo vivesse e si trasformasse.
Adempiere al Jihād consentì, e consente ancora oggi, di congiungere l’immanente al trascendente: il Paradiso è la ricompensa nell’aldilà, la trascendenza del destino terrestre; lo Stato islamico, il Sigillo della profezia, non deve essere costruito su un modello immaginario ma corrispondere all’operato complessivo dei primi quattro califfi, «i ben guidati» dall’esempio dello stesso Profeta. Cosicché il «combattimento sulla via di Dio» richiama alla mente l’avventura escatologica che non può non sfociare nella Parusia. Tant’è che più che di Jihād nel Corano si parla di pace: la stessa radice – s·l·m – di islam è quella dell’arabo salām e dell’ebraico shalom e di muslīm, sottomissione. I segni esteriori dell’islam, concordia e amicizia, furono sin dalle origini portati a visibile prova della pretesa superiorità della comunità musulmana sul resto dell’umanità, tant’è che l’intero testo sacro vuole trasmettere l’idea che la guerra è sempre uno strumento spregevole nelle controversie.
È indubbio che il Corano rappresenti la Parola di al-Llah che è scesa nella Storia, in quella storia che va da Adamo a Maometto e di cui il Profeta ne è il compimento. Un testo che è anche codice, che è legge, sharīʻha, sulla base della quale è regolata la vita della comunità che si riconosce in una sottomissione, muslīm, al credo di un Dio unico. Il quadro teologico è così anche un orizzonte teocratico: il processo che da Dio è giunto alla Storia, dalla Storia deve ritornare a Dio. La comunità dei fedeli si deve assumere il compito di ricondurre in un orizzonte di salvezza i popoli della terra, di generare un’esperienza universale di ascesa alla metastoria, di assolvere il compito di produrre a termine un processo escatologico che ha valore sia immanente che trascendente.
In questo quadro la Storia ha un suo senso e possiede un fine nel duplice significato di scopo – la realizzazione in terra di una comunità, la ummah, armonica e pacifica – e di termine – quando l’intera comunità umana sarà pacificamente e armonicamente sottomessa a Dio la Storia avrà fine e sarà il tempo escatologico del Paradiso. La ummah islamica è di conseguenza la comunità depositaria dell’espressione della volontà divina. Ogniqualvolta la fede individuale, la fede dei propri compagni, la pace, la sicurezza e l’esistenza della comunità musulmana, o di una parte di essa, risultino minacciate viene invocato il Jihād.
Il proverbio del Maghreq «Io contro mio fratello; io con mio fratello contro i miei cugini; io con i miei fratelli e i miei cugini contro tutti» interpreta assai compiutamente il principio della solidarietà fra coloro che si riconoscono nella comune sottomissione ad al-Llah e a Maometto come suo Profeta. Proprio a questo modo di concepire la solidarietà è ascrivibile l’origine e l’interpretazione che è stata data del Jihād.
Nel Corano non vi è un solo concetto che non possa essere ricondotto a Dio. La matrice trascendente non deve venir mai meno. La maestà e l’onnipotenza del Dio sono tali che possono umiliare potentemente l’orgoglio umano; ma al contempo il Dio musulmano sconfessa coloro che perdono il senso della necessità continua dell’iniziativa umana e cercano di sottrarsi alla responsabilità del proprio operato trovando rifugio nell’onnipotenza divina; in tal modo viene messo in primo piano il valore fondamentale della libertà e della responsabilità dell’azione individuale e collettiva.
Amedy Coulibaly non conosceva bene l’arabo ma solo il francese e la ricchezza e le sottigliezze del Corano e della Tradizione qui accennate per quanto concerne il Jihād gli erano sconosciute. Così a un Occidente che semplifica ha fatto da contraltare un musulmano che non conosce a sufficienza i caratteri di responsabilità e libertà che la sua stessa religione professa. E succederà ancora.
L’ostacolo principale all’espansione, all’universalizzazione dell’Islam è nella storia dei musulmani stato rappresentato in primo luogo dagli apostati e dagli scismatici, dalla fitna, cioè dallo scandalo, dal disordine, dal caos, a cui Gilles Kepel ha dedicato un libro in cui descrive il dramma che questa ha rappresentato e rappresenta per questo mondo. La fitna, concretizzatasi fra il 659 e il 680 con la morte del quarto califfo Alì e di suo figlio Hussein, ha diviso la ummah e ha separato i sunniti – i seguaci della tradizione – dagli sciiti – il partito, la Shi’a. Si sono così storicamente contrapposti i sunniti situati nei territori dell’Arabia Saudita e limitrofi e dall’altro gli sciiti, stanziati in quello che oggi è l’Iran.
La visione radicale nella pratica musulmana – quella che molti impropriamente definiscono fondamentalismo – si forma quando avviene la divisione della dār al-islām in Stati-Nazione antagonisti. Divisione che è frutto della Prima Guerra Mondiale, del crollo dell’Impero Ottomano e della spartizione coloniale in aree di influenza degli Stati europei.
La fitna, la divisione interna, viene così a rappresentare emblematicamente la condizione di empietà, poiché l’unità originaria della ummah è stata spezzata. Questa condizione idilliaca diventa così solo un ricordo, una chimera, una nostalgia mai realizzatasi a cui però richiamarsi per mobilitare i fedeli. Questa lettura della condizione della comunità islamica ha origine nel presupposto, per lungo tempo coltivato da molti esegeti della Tradizione, che l’essere umano, gettato nel mondo per essere messo alla prova, ha trasformato l’islam in una questione solamente individuale, per effetto di una perdita di senso e di energia, di una «entropia nel corso dei secoli» come ha sostenuto Bruno Etienne. È questo il punto nodale che discrimina il concetto di “modernità” adottato dall’Occidente, e la lotta è “contro” la modernità. Il vero nodo della controversia teorico-pratica è la superiorità dell’individuo sulla comunità. Il destino della ummah è di conseguenza una ininterrotta dialettica fra verità-rivelazione e storia realizzata, e quindi le forme politiche assunte dalla ummah debbono favorire la possibilità di essere musulmano, di essere non solo semplice credente sottomesso ma militante dell’islam, in primo luogo per ripristinare l’unità della comunità originaria.
È questo che spiega la lotta interna al mondo musulmano, le stragi che vediamo da anni in molti paesi del Nord Africa, nel Corno d’Africa, in Medio Oriente e in alcuni Paesi asiatici.
L’Europa e gli Stati Uniti, sin dall’inizio del secolo XX, hanno agito all’interno di questa scissione, hanno “sfruttato” la fitna, nella presunzione di poter in questo modo governare geopoliticamente le aree del pianeta a supremazia islamica. Ci siamo immessi e abbiamo tentato di incunearci in una divisione che per il mondo islamico rappresenta la ferita delle radici. Avremmo potuto scegliere la strada di facilitare la riconciliazione, di sanare la ferita, e invece in alcune situazioni cruciali abbiamo imboccato una strada che facilita la posizione di coloro che ritengono che l’islam non debba fare i conti con una storicizzazione dei dettami religiosi.
Nel 1979-80, quando il “nemico” degli Stati Uniti diventa l’Iran di Khomeini, anche per la perdita del petrolio a basso prezzo che lo Scià garantiva, vengono finanziate e favorite le scuole wahabite dell’Arabia Saudita, i cui militanti diventeranno la manovalanza in Afghanistan contro l’URSS, per poi trasformarsi nei combattenti islamici radicali prima in Algeria, poi in Bosnia. In un processo senza interruzione questi diventano i militanti di Al-Qaeda guidati da Bin Laden. Oggi il caos libico ha rinvigorito la presenza di questa organizzazione nel Maghreb, che dopo la guerra in Mali si è insediata nel sud dell’Algeria, in parti della Mauritania e del Niger. L’Arabia Saudita teme il Califfato ma appoggia un Fronte islamico che vuole costruire un Emirato fedele alla dottrina wahabita del Regno. E l’obiettivo è creare uno Stato sunnita fra Iraq e Siria, ma i singoli e anche specifiche fazioni sfuggono al controllo di chi si illude di strumentalizzarli. Ma per l’Occidente le monarchie del Golfo sono clienti e partner finanziari e così si chiudono non uno ma entrambi gli occhi di fronte a questo foraggiamento finanziario e logistico.
Quando nel 2002 il nemico diventa Saddam Hussein vengono finanziate e favorite le personalità sciite, umiliando le comunità tribali sunnite e creando così i presupposti per una rivalsa di questa componente che come conseguenza genera il Califfato islamico, la Terra Promessa, nell’area meridionale della Siria e settentrionale dell’Iraq. Siria e Iraq vanno perciò ben oltre i loro confini, sono la chiave di volta del Medio Oriente perché coinvolgono sia Israele sia i giganteschi interessi del petrolio. Di converso gli Stati del Golfo finanziano i gruppi salafiti e jihadisti, come il Fronte al Nusra, in modo da indebolire l’alleanza sciita capeggiata dall’Iran; gli iraniani, invece, armano e sostengono il regime di Bashar al Assad.
Anche l’attuale prezzo del petrolio in costante caduta si inserisce all’interno di questo quadro legato alla fitna: l’Arabia Saudita e il Qatar intendono ridurre in questo modo le entrate iraniane, sotto l’occhio benevolo della Turchia, dopo che a seguito delle rivolte arabe hanno temuto l’arrivo di masse di diseredati, a cui hanno reagito finanziando gruppi salafiti e i Fratelli musulmani, nella speranza che queste organizzazioni islamiche potessero contenere o imbrigliare le rivoluzioni.
Il tentativo e la politica occidentale si è mossa, da un lato, sempre sulla base delle categorie politiche di Carl Schmitt, nemico-amico, che tanta distruzione hanno prodotto in Europa nella prima parte del secolo XX con la Seconda Guerra Mondiale e la Shoa. Dall’altro, ha teso a rendere alcune aree deboli e rendendo le persone che le abitano deboli, ma l’umiliazione produce il desiderio del riscatto perché genera l’idea di essere fuori dalla comunità e dal corpo sociale. Dinamite pura per l’Occidente l’insieme di queste geopolitiche e delle politiche sociali che ne sono diretta conseguenza, tanto che molti commentatori rimpiangono i dittatori che tenevano sotto controllo le devianze politiche che si rifanno all’islam.
Oggi l’islam si presenta come una Babele di linguaggi politici, un fai da te, ed è attraversato dalla cultura individualistico-narcisistica dominante in Occidente. Cultura che si sostanzia in comportamenti anarchici e nel fatto che le azioni violente si concentrano su obiettivi dal valore mediatico e dove ogni altro può diventare un obiettivo sensibile, il che mira a frammentare la società, in primo luogo quella che è vittima della fitna.
Il fine ultimo degli atti violenti è sostanzialmente quello di isolare i cittadini di fede musulmana, farli percepire come una minaccia per tutti gli altri, dividere la società, distruggere il concetto stesso di cittadinanza per come si è venuto formando nel corso della modernità. La religione fornisce pertanto il pretesto ideologico a menti compromesse dal narcisismo sociale, inclini alla violenza, che dà loro l’illusione di essere qualcuno e di dare un senso alla loro esistenza. Si afferma anche qui una libertà senza responsabilità, un individualismo con l’individuo ma privo della persona. Per recuperare la dignità di fronte a sé si piega il mondo al proprio volere e la mediaticità moltiplica il chi si è. Un comportamento che l’Occidente conosce bene e che ha legittimato nella potenza che il denaro svolge.
Sociologi, psichiatri, filosofi e politologi devono interrogarsi sul “narcisismo delle armi” generato da colui che, considerandosi una nullità, compie una prodezza. Lo dobbiamo fare soprattutto perché gli atti violenti sono fatti in franchising e questo è testimoniato dal fatto per esempio che le dichiarazioni degli assassini di Parigi oscillavano intorno ai gruppi di appartenenza e di militanza: l’importante era rifarsi a qualcuno mediaticamente noto.
Anche nell’islam l’individuo, e non più la comunità, è diventato il focus culturale dominante e pervasivo: ciascuno può pensare di diventare un martire, uno shāhid, la cui celebrazione è stata in questa tradizione il nodo per affermare la superiorità della comunità sul singolo, il suo comportamento è stato sempre concepito come sociale e non individuale e trovava una legittimazione nella sacralità, perché diventava memoria collettiva in quanto svolgeva la funzione di fare da modello ideale e inaccessibile ai comuni mortali e reinsaldava i legami comunitari. Attualmente lo shāhid ritiene di appartenere a una comunità ma frantuma quella comunità e si configura come modello per singoli e minoranze con gravi problemi di frustrazione e identità. Al momento il reclutamento avviene nel luogo della frantumazione per antonomasia: la rete. E nella rete vengono immessi filmati truculenti nel tentativo di impaurire e comandare sul prossimo.
In presenza di una prolungata crisi economica e identitaria, fra loro strettamente connesse, l’Occidente sta trovando un nuovo nemico che può dare fiato a un’idea di radici che si ancorano alla tradizione religiosa, quella cristiana, dove riemergono termini come famiglia, nazione, identità, sacralità della vita. La crisi economica e la crisi culturale si fondono in una miscela esplosiva tanto più deflagrante per effetto di una dimensione sociale frantumata e sgretolata.
La scelta che abbiamo quindi davanti è quella fra chiusura, per percepirsi più sicuri, e apertura a una nuova forma di rappresentanza politica e sociale che costringe a pensare e ripensare a forme più accettabili di inclusione, a ridurre le disparità di opportunità e a tener conto e conoscere le culture altre. È la politica che deve compiere questa scelta e sta a noi cittadini spingere in una direzione o nell’altra. Divide et impera si è rivelato un motto disastroso, un boomerang nella vita quotidiana di tutti noi. Cambiare ottica è una scommessa, è l’apertura all’imprevedibile, ma un imprevedibile che si configura come una sfida in positivo.
Quello che non possiamo imbrigliare è infatti l’imprevedibile. Ci siamo illusi e continuiamo a illuderci di tenere sotto controllo gli effetti delle nostre scelte mentre sarebbe più saggio considerare la rilevanza dell’imprevisto nella vita e la caducità inclinabile della condizione umana. La smania di prevedere e di calcolare non ci aiuta ad affrontare il futuro. È questo il disagio principale della contemporaneità. Non riusciamo a immaginare un avvenire condiviso e a proiettarci in un dopo di noi. Prolunghiamo le esistenze ma contraiamo le aspettative.
N.B. 1. In questi giorni nelle sale cinematografiche viene proiettato il film Timbuktu, del regista Abderrahmane Sissako di origini mauritane ma vissuto in Mali, che descrive il fanatismo islamico in una delle città più affascinanti e ricche di cultura del pianeta. Si tratta un film che offre una prospettiva di dignità e di rispetto.
N.B. 2. Molti commentatori e molti politici utilizzano in modo sinonimico i termini integralismo, fondamentalismo e radicalismo per i fenomeni e gli atti di violenza collettiva che avvengono per mano di coloro che sostengono di rifarsi alla religione islamica. Seguendo i lavori di Bruno Etienne, Bernard Lewis, Karen Amstrong e Gilles Kepel questa sinonimia non è adottabile. Il termine integralismo è riconducibile prevalentemente al cattolicesimo per il carattere totalizzante che i movimenti violenti che si rifanno a questa forma religiosa danno delle Sacre Scritture; mentre il termine fondamentalismo sarebbe a loro avviso riconducibile al solo protestantesimo per la mancata storicizzazione delle Sacre Scritture dei movimenti violenti che a questa dimensione religiosa si riconducono. Per i movimenti islamici violenti sarebbe appropriato unicamente il lemma radicalismo, poiché i loro atti sarebbero in linea e riconducibili con le origini, le radici, della loro storia, e queste sarebbero riscoperte e rilette nella loro purezza e forma primitiva. Non si tratta di una divagazione che va sottovalutata, di un virtuosismo filologico o lessicale, ma di aspetti sostanziali perché il termine radicale evoca dimensioni istituzionali teocratiche.