di Federica Gregoratto
Evviva il socialismo e la libertà! (Canto di lotta, Bandiera rossa)
Noi siamo gli ultimi di un tempo/ che nel suo male sparirà/.[…] E tra di noi divideremo/ lavoro, amore, libertà. (Franco Fortini, L’Internazionale)
1. La perdita della libertà
Negli ultimi trent’anni i partiti e i movimenti di sinistra europei hanno subito una serie consistente di perdite: in termini di voti, di interesse, di influenza e di credibilità. La perdita di cui vorrei parlare in questo articolo è però di un tipo particolare: riguarda l’idea, il concetto di “libertà”. Non intendo però affrontare la questione dal punto di vista pratico-politico; piuttosto, vorrei porre il problema dal punto di vista discorsivo e ideologico.
Non intendo, cioè, parlare di come i rappresentanti politici di sinistra – e per sinistra s’intenda qui uno spettro abbastanza ampio di posizioni che vanno dalla socialdemocrazia di stampo classico, ai movimenti extra-parlamentari no-global e affini, alla sinistra delle lotte per i diritti civili, fino a includere quello che rimane dei comunismi (rifondati o meno) –abbiano di fatto visto ridursi i margini di contrattazione utili a affermare o difendere gli interessi dei gruppi sociali di cui, almeno in teoria, sono l’espressione. Non ho nemmeno intenzione di mostrare fino a che punto la stragrande maggioranza del popolo europeo si sia avviluppata, a partire dagli anni ‘70, nelle sottili maglie di una “società del controllo” (Deleuze) che ha gradualmente prosciugato le fonti immaginative, creatrici e critiche del “popolo di sinistra”.
Si potrebbe riportare le cause complicate di una tale perdita di libertà all’affermarsi dell’idea che i mercati capitalistici (soprattutto finanziari) siano regolati da una logica a se stante, nettamente separata da altri tipi di logiche (politiche, sociali, famigliari, culturali). La sfera economico-finanziaria è considerata oggi talmente autonoma da essere spesso scambiata per un soggetto, dotato di facoltà di giudizio, volontà e sentimenti – un “qualcuno” che acquista o perde fiducia, dà giudizi negativi sull’operato altrui, solitamente su quello dei governi, si offende e reagisce male. Benché vi siano strategie diverse per affrontare un tale soggetto – tentare di domarlo, piegarlo ai propri interessi, averne paura, dargli corda –, l’immagine di un mercato dotato di potere decisionale autonomo non viene messa in discussione.
Una tale concezione del mercato, trasversalmente accettata, è di sicuro responsabile dello strozzamento dei margini di libertà sofferto dalle sinistre, ma quello che intendo sostenere qui è qualcosa di diverso. Con “perdita di libertà” io penso soprattutto al fatto che l’idea di libertà sia stata progressivamente espunta dall’armamentario concettuale e ideologico[1] della sinistra per andare a infilarsi in quello delle destre (neoliberali, neo-conservatori e reazionari), dove ha trovato terreno fertile per germogliare e rafforzarsi all’interno di un preciso campo semantico.
Il panorama politico italiano offre spunti esemplari per cogliere questo slittamento. Si prenda la famosa intervista di Enrico Berlinguer sulla cosiddetta “questione morale,” rilasciata a Scalfari su “la Repubblica” il 28 luglio 1981, che può essere considerata il paradigma della maggior parte del/i discorso/i della sinistra italiana (e non solo) degli ultimi trent’anni. In questa sede, Berlinguer identificava la differenza specifica della sinistra comunista nel rifiuto radicale del partito di diventare una “macchina di potere e di clientela” separata dai veri bisogni della gente. Il partito, secondo Berlinguer, s’identificava piuttosto nella lotta per l’affermazione di ideali quali l’uguaglianza, l’inclusione dei “poveri” e degli “emarginati,” la partecipazione politica, la giustizia sociale, il rifiuto del consumismo e la morigeratezza nella spesa pubblica. L’idea di libertà non compare nemmeno una volta, evidentemente Berlinguer non la metteva tra i valori e principi chiave di un partito votato al bene comune e alla democrazia. (Anche se, a dire il vero, un implicito riferimento a un certo tipo di libertà si può scorgere nell’esplicito apprezzamento del capitalismo: “pensiamo,” sostiene Berlinguer “che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante.”)
Com’era prevedibile, spostandosi a destra, questa idea liberale di libertà ha avuto maggior fortuna. Se per Berlinguer “iniziativa individuale” e “impresa privata” dovevano avere un loro spazio legittimo, con Berlusconi, com’è noto, esse sono divenute gli assi portanti del suo intero progetto politico, economico e culturale.[2] Non a caso, nella sua dichiarazione mandata in onda su tutte le reti televisive per annunciare la propria discesa in campo (26 gennaio 1994), Berlusconi citava proprio la “passione per la libertà” come motivazione principale del suo impegno politico. I nomi della coalizione di governo da lui guidata a partire dal 2001, Casa della libertà, e del suo successivo partito, Popolo della libertà, mi sembra la dicano lunga sulla centralità, e sul successo, di questa parola nella semantica dell’egemonia berlusconiana.
Filosoficamente, “libertà” è un concetto che scappa da tutte le parti; la sua polisemia lo rende un campo di battaglia su cui si scontrano da sempre forme, concezioni e progetti di vita diversi. Nella sua accezione più nobilmente liberale, libertà definisce la condizione e la capacità di dire, fare e pensare quello che ci pare, senza essere sottoposti a costrizioni e restrizioni. Due clausole fondamentali regolano questo tipo di libertà: primo, la nostra libertà non deve ledere quella di altri, e, secondo, costrizioni e restrizioni possono essere tollerate solo se legittime, cioè adeguatamente giustificate. La “libertà” diventata cavallo di battaglia di Berlusconi è a ben vedere compatibile con questa definizione: essa risiede nella promessa (non mantenuta, certo) della realizzazione più vertiginosa e sguaiata di tutti i nostri desideri (che sostanzialmente si riducono a soldi, sesso, e scalata sociale). Dato che, inoltre, tale libertà è in teoria promessa a tutti, nessuno ci deve rimettere: né il precario sfruttato che si atteggia a imprenditore di se stesso, né la ragazzina di borgata che diventa prima showgirl e poi chissà. Le restrizioni che i “nemici” (i comunisti) vogliono imporre a questo modello – richiami alla decenza, alla morale, alla legge – non sono altro che l’illegittima e invidiosa espressione di modelli vecchi e fallimentari di politica (il comunismo illiberale, il muffo apparato burocratico.)
Naturalmente non c’è solo Berlusconi. I sostenitori più o meno espliciti delle politiche neoliberiste enfatizzano ad esempio l’aspetto positivo della libertà, che intendono come la capacità di progettare la propria vita in senso fortemente personale e privatizzato, astratto il più possibile da legami sociali istituzionalizzati e garantiti. L’elemento più accattivante qui sta nel brivido del rischio e della competizione, sorretto dal principio (o chimera) di una giusta ricompensa in caso di vittoria. La destra populista e xenofoba, invece, spinge sul lato negativo della libertà, imbastendo retoriche intorno al concetto atavico di liberazione dall’oppressore e dall’invasore (i terroni, gli africani dei barconi, i musulmani).
Ma libertà può voler dire di più che fare tutto quello che ci salta in mente, al riparo da illegittime ingerenze (due cose del resto molto importanti, a dispetto delle storpiature berlusconiane, neoliberali e neoconservatrici). Questo di più è quello che cercherò di spiegare di seguito con l’aiuto di Hegel e Marx.
2. La libertà di Hegel e Marx
Hegel ha un’idea di libertà – definita dagli interpreti contemporanei “libertà sociale” – per cui “essere liberi” significherebbe realizzare se stessi grazie alla “mediazione” altrui, cioè all’interno e con l’aiuto delle relazioni personali (amore, amicizia, famiglia) economiche e politiche da cui l’individuo proviene e dipende. Questo insieme di relazioni (o meglio, di interdipendenze) è infatti proprio ciò che materialmente costituisce l’individuo, ciò che lo fa diventare quello/a che è, ciò che gli dà la possibilità di soddisfare bisogni e desideri, di scoprire e portare avanti i suoi progetti. Le diverse sfere sociali, che la filosofia hegeliana ci aiuta a esaminare nelle loro connessioni, non stanno però semplicemente “al di sopra” degli individui – formandoli, guidandoli, manovrandoli, a volte schiacciandoli – ma sono esse stesse prodotte e trasformate da essi. Il nesso che lega gli individui tra di loro, e gli individui alle istituzioni sociali, potrebbe essere definito come una sorta di coappartenenza di dipendenza e indipendenza: da una parte siamo dipendenti dagli altri e dai tipi di istituzioni in cui ci troviamo (una certa forma di famiglia, o un certo tipo di mercato di lavoro), dall’altra, siamo (o dovremmo essere) abbastanza indipendenti da prendere le distanze dagli altri e dalla società, intraprendendo delle autonome attività critiche e trasformative. La coappartenenza di dipendenza e indipendenza è ciò che ci permette di attuare la libertà nel senso di libertà sociale.
In questo modello, quindi, l’esercizio della libertà non sta semplicemente dalla parte dell’indipendenza, ma comprende sia il momento del mettersi nelle mani degli altri da cui dipendiamo, sia l’affermazione della propria differenza, del proprio smarcamento dai condizionamenti sociali e dalla critica. Secondo una famosa metafora hegeliana, essere liberi significa qualcosa come “sentirsi a casa propria presso altri/o”, realizzare se stessi, per così dire, negli altri/in altro. Gli altri (per es. amici, amanti, parenti, compagni, colleghi, rappresentanti politici) e le forme di vita sociali in cui ci muoviamo (per es. famiglia, mercato, istituzioni democratiche) non sono il limite della nostra libertà, ma la sua condizione. Ne consegue che il prodigarsi per gli altri (aiutare amici/he, prendersi cura dei propri amati/e, lavorare per la propria comunità, lottare per migliorare le cose) non è semplicemente qualcosa che scaturisce da astratti obblighi e doveri morali, ma un’esperienza che appartiene alla struttura stessa della libertà (e che spesso funziona solo a patto che lo sforzo sia reciproco e comunemente condiviso.)
Si potrebbe obiettare (ed è stato obiettato) che questo modello è un po’ troppo conciliatore, buonista. Che tende a ignorare o cercare di smussare o disinnescare i conflitti e le tensioni – per es. tra proprietari e proletari, colonizzatori e colonizzati, uomini e donne. Questa critica non tiene conto di due aspetti che sono presenti in nuce già negli scritti hegeliani, e che verranno invece resi espliciti, io credo, dal giovane Marx. Il primo aspetto è il presupposto dell’uguaglianza e della reciprocità, il secondo è quello che concerne la lotta per l’uguaglianza e per la reciprocità.
Il rapporto tra proprietari dei mezzi di produzione (o, nel caso della fase attuale del capitalismo, di coloro che controllano il capitale finanziario e i suoi profitti) e lavoratori (coloro da cui viene estratto il profitto) non è di reciproca libertà, ma di reciproca alienazione (da se stessi, dall’altro, dalla propria attività e dal genere umano nel suo complesso). Non ci si può infatti incontrare e realizzare nell’altro/a fino finché ciascuno/a non riconosce l’altro/a e la sua attività come parte essenziale di sé, cioè fino a quando non si riconosce la propria dipendenza dall’altro/a.[3]
La dipendenza reciproca, dice Marx, c’è già, c’è sempre, ma non la si vuole ammettere, o meglio: sono i dominanti che fanno finta di niente e esercitano il loro potere come se non fossero anch’essi legati mani e piedi ai dominati. Il riconoscimento della reciproca dipendenza potrà darsi, ci suggerisce Marx, solo quando sarà superata (sia ideologicamente che nella prassi) la fittiva indipendenza delle classi dominanti; e il compito degli sfruttati, la loro lotta, deve perciò diventare quello di rendere esplicita e cocente la dipendenza dell’intera società dal loro lavoro (e dalle loro stesse vite). Quello che si auspica, allora, è la ricostruzione delle varie istituzioni sociali sulla base del riconoscimento dell’importanza delle relazioni di interdipendenza. Credo che il socialismo (o comunismo) potrebbe scaturire soltanto da un riconoscimento di questo tipo.
Queste poche considerazioni sollevano ovviamente molti altri problemi teorici e pratici,[4] che salterò a piè pari per far posto a tre annotazioni conclusive – non le si prenda come conclusioni, ma come tracce per ulteriori riflessioni e ricerche.
Primo: le relazioni capitalistiche che aveva davanti agli occhi Marx non sono ovviamente più quelle attuali; il discorso delle interdipendenze può essere tuttavia applicato e ulteriormente sviluppato anche attraverso l’analisi del rapporto tra il capitale e la vita umana che è il suo terreno di profitto – oggi non solo attraverso il lavoro ma anche grazie alla privatizzazione e finanzializzazione di attività come la cura, la salute, l’educazione, il pensionamento.
Secondo: Marx si è interessato soprattutto alla sfera della produzione e dello scambio; ricordandoci di Hegel, il discorso delle interdipendenze può essere allargato a includere altre sfere, come l’amore, o la politica. L’interdipendenza vale del resto anche tra queste sfere: come hanno già mostrato certe femministe socialiste negli anni ’70, per es., lo sfruttamento delle donne, dei loro sentimenti e legami, è una rotella nell’ingranaggio dell’economica capitalistica; inoltre, la regolazione di quest’ultima non deriva da leggi “naturali,” ma da precise azioni politiche.
Terzo: in questo articolo ho suggerito che la sinistra dovrebbe recuperare la libertà, non tanto secondo il modello liberale quanto secondo quello “sociale” che ho schizzato con riferimento a Hegel e Marx.[5] Le riflessioni abbozzate qui prendono in considerazione, come ho accennato all’inizio, il piano discorsivo e ideologico, non quello immediatamente pratico e politico. La “libertà sociale” non è però una mera idea filosofica, costruita in vitro, ma un concetto concreto, attualizzabile. In effetti, secondo me, lo spettro di questa idea si sta già aggirando tra le macerie del Sud Europa, alimentando i progetti politici ed economici di partiti come Syriza e Podemos. È nel loro – e presto forse non solo “loro” – socialismo democratico e transnazionale che questo spettro potrebbe farsi ora storia. Una storia ancora da scrivere.
NOTE
[1] Per ideologia intendo qui un insieme di idee, convinzioni e tesi che hanno il potere di dare una certa forma alla, e perfino di creare una realtà.
[2] Non mi si fraintenda: non intendo tracciare una linea di continuità esplicita tra Berlusconi e Berlinguer. L’intervista di quest’ultimo costituisce un monito contro l’“occupazione” dello Stato e di tutte le sue istituzioni da parte di partiti che gestiscono “loschi interessi” nell’oblio più totale del bene comune; se Berlinguer aveva in mente soprattutto DC e PSI, niente vieta di proiettare la stessa preoccupazione sul futuro ventennio berlusconiano.
[3] Si veda soprattutto il frammento su James Mill del 1844, testo preparatorio per i Manoscritti economico-filosofici (“Estratti dal libro di James Mill ‘Elementi di economia politica’”, in Marx – Engels, Opere, III, Editori Riuniti, Roma 1976.)
[4] Uno dei problemi più spinosi è, a mio avviso, quello dell’“indipendenza.” Marx vede nell’indipendenza soprattutto il potere della proprietà privata, e quindi la logica dell’antagonismo. Tale antagonismo può essere giocato a favore della lotta di classe nella misura in cui i lavoratori cercano di sottrarsi allo sfruttamento e al dominio affermando la propria indipendenza, tramite l’indispensabilità del loro lavoro, e ribaltando le relazioni di produzione. Che cosa ne è dell’indipendenza all’interno di relazioni socialiste è una questione su cui si dovrebbe scrivere un altro articolo.
[5] Il modello liberale, è bene sottolinearlo, non è eliminato ma incluso in quello sociale.