di Daniele Lettig
Gli attrezzi di uno scrittore sono le parole. Ed è su questo terreno che Leonardo Sciascia si muove in L’affaire Moro, misurandosi nell’estate del 1978 con gli avvenimenti che avevano sconvolto l’Italia nella primavera precedente: il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse – in seguito alla strage della scorta in via Fani a Roma –, la successiva uccisione del presidente della Democrazia cristiana dopo cinquantacinque giorni di sequestro, e gli eventi che costellarono quei fatali due mesi. In quanto uomo di lettere – così lo scrittore di Racalmuto si definiva, e non “intellettuale”, categoria “di generica e imprecisa massificazione” – Sciascia usa le proprie competenze, le armi della letteratura (oltre che della sua intelligenza al contempo illuministica e pessimista), per un’analisi lucidissima delle parole scritte da Moro nelle lettere uscite dal “carcere del popolo”.
E non è un caso che il volume si apra citando Pier Paolo Pasolini, che già nel a metà anni Sessanta aveva dedicato penetranti riflessioni alla lingua di Moro in un saggio poi raccolto in Empirismo eretico. Per Pasolini Moro era certamente “il meno responsabile” delle colpe per il quale il poeta friulano chiedeva il processo all’intera Dc; tuttavia, il linguaggio dell’uomo politico era ai suoi occhi incomprensibile perché completamente omologato a quello “produttivo-tecnologico” del neocapitalismo. Sciascia rilancia questo punto: nelle lettere dalla prigionia, Moro si è trovato a vivere “un contrappasso diretto: ha dovuto tentare di dire col linguaggio del nondire, di farsi capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire”: e la tragedia nella tragedia, suggerisce lo scrittore, è che gli altri, gli “amici” all’esterno, non fecero alcuno sforzo per capirlo. Accadde semmai il contrario, con Moro che da un lato fu innalzato al ruolo di “grande statista” facendone così un simbolo – che in quanto tale era sacrificabile sull’altare della “ragion di Stato”; e dall’altro fu ripudiato dai compagni di partito che giudicavano le sue lettere, via via più violente nei toni, come frutto di plagio e costrizione da parte dei brigatisti.
Sciascia conduce la sua riflessione non soltanto sui testi dell’uomo politico, ma su tutti i documenti più importanti dei cinquantacinque giorni. Vale a dire anche i comunicati delle Br e le prese di posizione dei membri della Dc e del governo. Riguardo ai primi, in essi lo scrittore siciliano coglie perfettamente aspetti che solo più tardi si scoprirà essere corrispondenti a realtà: come “l’impressione di un momento di inquietudine, di incertezza, di indecisione: pur nella terribile decisione della condanna a morte” che traspare dal comunicato numero sei (quello in cui, appunto, i brigatisti annunciano la conclusione del “processo proletario” e la condanna di Moro). Tra i secondi invece il posto preminente, per le conseguenze cui diede luogo, è senz’altro una nota “scritta di proprio pugno” da Giulio Andreotti, al tempo Presidente del Consiglio: quest’immagine è per Sciascia sia la rappresentazione “di un uomo che scrive una sentenza”, sia il simbolo di una scrittura che ha effetto sulla realtà, ovvero quella del potere, che è sempre potere di morte.
L’affaire Moro è dunque un libro di certo non facile, e che però vale ancora la pena leggere (o rileggere) nel 2015: non solo per l’analisi, a tutt’oggi di sorprendente attualità nonostante le conoscenze emerse in trentasette anni, di quella che è sempre, anche se ad alcuni può sembrare preistoria, una ferita aperta della storia italiana. Ma anche perché il confronto con i messaggi di Moro, che “sembrano arrivare a noi dall’antica ed eterna tragedia del potere”, grazie alla brillantezza della prosa di Sciascia esula dal mero fatto di cronaca, e assume la valenza più generale di una riflessione profondissima sul potere e sulla letteratura.