Stefano Tieri: uomo e natura: che diritti ha il primo sulla seconda? L’intelletto umano può porsi al di sopra di essa, plasmarla a suo piacimento? Le “grandi opere”, ad oggi, si sprecano: si pensi al TAV Torino-Lione, o al ponte sullo stretto di Messina, per rimanere ad esempi italiani.
In che misura questo “progresso” migliora la vita degli uomini? E quanto viene, invece, irrimediabilmente perduto? Citerò, a proposito, le parole di Fëdor Dostoevskij: «non tentate di intimorirmi con il vostro benessere, le vostre ricchezze, la rarità delle carestie e la velocità dei mezzi di comunicazione! Le ricchezze sono aumentate, ma le forze sono diminuite. Non c’è più una forza che diriga il pensiero: tutto si è rammollito, tutto e tutti sanno di marcio» (l’Idiota).
Max Cappellina: L’uomo non ha diritti, la natura non dà concessioni. La natura è una mera convenzione sociale, da sempre come termine è stato usato per definirla come un insieme sottomesso all’uomo, bacino di risorse illimitato. La conferma ci arriva, oltre che dai disastri ecologici dell’industrializzazione, anche dalla nuova ideologia “eco-capitalista” ugualmente legata al profitto e al grande dio Mercato (basti pensare al green marketing di molte aziende come l’Eni, che di green ha solo il colore nei loghi pubblicitari), forse ultimo soffio vitale di un percorso nato molto tempo prima, che ha radici proprio nella dinamica uomo-natura. Questo meccanismo di sottomissione della seconda, prima terminologico poi effettivo, può essere ben riassunto e illustrato da questa frase: «Il dominio dell’uomo sulla natura è originariamente causato dal dominio reale dell’uomo sull’uomo» (M.Bookchin, Ecologia della Libertà). È quindi nella liberazione dell’uomo dai rapporti gerarchici una possibile soluzione al disastro ecologico (dal greco oikos=casa, ambiente – logos=linguaggio, parola) ed economico (sempre dal greco oikos – nomos=leggi, regole), liberazione che porti anche ad un’armonia tra l’uomo e la natura?
Stefano: Hai riportato l’etimologia greca delle parole “ecologia” ed “economia”, fai bene: la cultura greca non può che essere un punto di partenza per questo discorso. Platone, padre del pensiero occidentale, disprezzava la tecnologia; sul frontespizio dell’oracolo di Delfi era riportata la celebre massima “nulla di troppo”; il concetto di hybris (“tracotanza”, “eccesso”) e il rispetto dei limiti proprî della natura umana ha permeato tutto il mondo ellenico, fino a riflettersi nelle opere teatrali giunteci.
Tutto ciò lo ritroviamo totalmente capovolto più di 2000 anni dopo, nel riduzionismo. Personalmente individuerei proprio in questa corrente di pensiero, conseguenza della rivoluzione scientifica del XVII secolo, l’errata impostazione del rapporto uomo-natura: sia all’interno del proprio stesso corpo (nella medicina positivista), sia rispetto alla realtà esterna (con interventi invasivi verso l’ambiente).
A tuo avviso le dinamiche di potere che hanno permesso all’uomo di imporsi sulla natura risiederebbero nella gerarchia tra gli uomini. Farò un passo ulteriore, coinvolgendo la linguistica: è lo stesso concetto di “natura” ad essere gravido di questo potere gerarchico. Nel suo stesso affermarsi identifica infatti anche cos’è “contro natura”, allo stesso modo in cui il normale ghettizza l’anormale. Come si esce da questo paradosso?
Max: Ciò che è “naturale” e ciò che è “contro-natura”, “innaturale”, è puramente prodotto dell’uomo, ovvero è un nostro “derivato”. L’uomo si sente sicuro nel definire, giudicare, un aspetto o una condizione che incontra nella sua vita secondo due parametri principali, a cui si legano numerosi aggettivi, così, ad esempio: una persona che viene giudicata “folle” per via di certi suoi comportamenti che appaiono strani, diviene l’incipit di una classificazione tra ciò che è secondo o contro natura. Poi spesso capita che una conoscenza più prossima del personaggio che precedentemente si è modellato in tal modo (folle quindi contro-natura), si sveli nella sua profondità, fino alla nascita di un’amicizia, ovvero il linguaggio diviene comune, una koiné, si fonde. E tramite la conoscenza dell’altro, che si potrebbe estendere quindi all’ambiente che ci circonda, potrebbe divenire una base per un rapporto armonico, non-gerarchico con la natura stessa.
Stefano: provo a riflettere sulla natura di questo linguaggio “comune”, perché è chiaro che alla base di ogni rapporto gerarchico sta – come hai osservato – il linguaggio stesso, strutturato sulle esperienze (non prive di pregiudizȋ e giudizȋ) del genere umano. È evidente che dovrà essere un punto di incontro fra linguaggi diversi, poiché ognuno possiede un proprio linguaggio (sebbene la contemporanea tendenza sia quella dell’appiattimento sulla totale mancanza di profondità comunicativa). Ma allo stesso tempo non credo che il perno di questo incontro sia da collocare nel punto mediano fra i differenti linguaggi: dovrà invece valorizzare la diversità, dovrà saper vedere quanto di più positivo e genuino sia possibile cogliere nel contatto con il “folle”. Quest’incontro dovrà quindi giocarsi sulla continua messa in discussione del proprio linguaggio, per raggiungere quella conoscenza diversificata e “plurale” possibile solo in questo particolare (e non poco problematico) punto di contatto.
Max: Mi trovo d’accordo con te sul fatto che non deve essere un punto medio il punto di contatto, ma appunto ciò che annulla le distanze, le diversità che divengono simbiotiche. Non sarà la ricerca di un equilibrio a salvarci, nè l’ennesimo messianico Savonarola o Mussolini di turno, ma l’ascolto dell’altro, come si ascolta il vento, come ci si bagna inevitabilmente sotto la pioggia. Come è necessario il sole, il calore, l’energia, un fondersi con essa di cui siamo fatti e di cui tutto è fatto, solo da questo punto di partenza, egualitario, si potrà discutere di un futuro, ma anche di un presente valido. Invece gli argini di cemento aumentano sempre di più, intorno, il cemento non parla, non ha un linguaggio, non sa ascoltare, è un immenso collante rigido, il dogma del profitto (senza dilungarsi in esempi vari riguardo ai cementifici e alla loro tossicità e nocività) che incolla il dominio dell’Uomo sulla Natura. Ma a che prezzo? La voracità dell’uomo (occidentale in primis) è arrivata a tal punto che un’autoestinzione sembra la strada – il linguaggio – che stiamo percorrendo.