di Cristiano Vidali
“All’antico diritto di lasciar vivere e far morire è andato sotituendosi il diritto di far vivere e lasciar morire”. Con queste parole Michel Foucault forniva una delle più lapidarie e taglienti definizioni dell’aberrazione della politica tradizionale, processualmente pervertita in Biopolitica.
Questa parola indica, in realtà, un decorso che attraversa la complessa coscienza d’Occidente, e, nell’additare il germe di una genesi collettiva in cui le degenerazioni eventuali sono riscontrabili come già implicite, si sospinge ad una problematizzazione critica del significato di Politica nella sua interezza. Si tratteranno qui brevemente, in modo inevitabilmente insufficiente, i punti salienti che spingono l’umanità all’adesione ad una dimensione politica ed all’istituzione di un Potere che, donando la conservazione della vita al prezzo della vita stessa, trova la propria legittimazione e tende naturalmente alla comprensione della moltitudine, all’afferramento delle individualità.
L’ingresso politico da uno stato di natura coincide con il riconoscimento consensualmente esplicito della Legge, un’emanazione astratta, ma dall’essenza formale coercitiva. La germinazione di tale scenario è embrionalmente duale, e, in particolare, scissa fra i poli di auctoritas e potestas, esercitate da figure differenti o drammaticamente coincidenti: la prima consiste nel riconoscimento della validità della forma di legge, la seconda nel contenuto prescrittivo della stessa. In un fatale crinale storico, questo binomio dev’essere accolto simultaneamente, in quanto un’autorità senza legiferazione sarebbe impotente quanto una prescrizione priva di autorevolezza ininfluente.
A partire da tale accettazione, vantaggiosa solo nella misura in cui anche il prossimo la riconosce e vi si assoggetta a sua volta, la qualità della Legge si pone come insindacabile e totalizzante, ovvero senza limiti d’esercizio e sottratta all’arbitrario giudizio critico dei soggetti. La Legge, per non assistere allo sgretolamento della propria sensatezza, deve poter essere solo rispettata. Sanzioni, esortazioni, direttive sono ipostatici compromessi corollari che tentano di controllare uno stato di dissesto, ripristinando la legittimità indiscussa della Legge originaria in quanto tale.
Delineato un simile profilo della legalità, l’assoggettamento umano appare intuitivamente un’istanza incontrollatamente folle, la cui convenienza è solo marginale. Perché, in fondo, elemosinare difesa ad un’istituzione legittimata a donare la morte? Ciò avviene a partire da una promessa originaria ed autocensoria della Legge coincidente silenziosamente con lo stato d’eccezione. L’identificazione di uno stato d’eccezione profila distintamente una dimensione ordinaria, in cui la Legge deve esser disposta a flettersi alla diffusione della sensibilità e delle esigenze storiche, ed una anomala, eccezionale in cui è necessario poter rimuovere ogni limite alla Legge affinché un riassestamento sia possibile.
La capziosità della proposta consiste subdolamente nel fatto che a dichiarare lo stato d’eccezione è la sede stessa della Legge, assente di qualsiasi controllo superiore e legittimata, così, a sopprimere tutti i limiti che ne avevano consentito l’accettazione. Il nazismo fu un proclamato stato d’eccezione della durata di dodici anni, quella economica del 2007 una grande recessione necessitante misure straordinarie; l’ultimo secolo di storia è costellato di proclamazioni di condizioni di crisi che acconsentono misure straordinarie e riforme celeri, scevre di cautele all’interno di democrazie che conservano i principi del potere ed ostentano le crisi della storia per invocare la propria onnipotenza.
Assunta la putrida trinità della Legge, è necessario tematizzare lo scenario di umana vita su cui essa si esercita. Questo indugio genealogico rimanda alla semantica greca, dove la vita poteva essere definita Biòs oppure Zoè. La prima designa la vita relazionale, il costituirsi di un’individualità nella fitta rete di co-soggetti; la seconda la vita vegetativa, la condizione dell’essere in vita.
Di fronte a tale scissione, la Legge può affermarsi solo attraverso un’esclusione inclusiva: anticamente, detenendo il potere di donare la vita o punire con la morte l’irriguardoso, ma rispettando l’individualità politica, oppure nella recente esplicitazione biopolitica, ritenendosi esterna alla vita ed alla morte, regolamentando inoffensivamente il solo spazio pubblico e normativo. Di fatto, rispetto all’uomo, presso il quale zoè e biòs sono in realtà indecidibili ed insussistenti, l’assoggettamento diviene, così, indifferenziato quanto totalizzante.
Con l’afferramento della soggettività da parte di un potere solidamente costituito, si produce l’epifania della biopolitica, esternantesi eclatantemente solo a partire dalla modernità. Successivamente alla Rivoluzione Francese, il sedicente culmine dell’Illuminismo, si assiste ad un’inedita consapevolezza del potere che, anziché ostentare la propria legittimità nell’ingenua improduttività di un rogo, rivolge i propri subordinati verso se stesso, alimentandosi e riproducendosi per mezzo di essi verso una nuova configurazione invisibile, silenziosa ed ubiqua.
Manicomi, prigioni, ospedali, scuole, enclosures, fabbriche: ogni luogo d’esistenza comune, dove la vita si conduce e si costituisce effettivamente, è oggetto di una razionalizzazione diffusa e radicale. Ciascuno viene concepito secondo una mansione specifica dalla soggettività preventiva ed inserito secondo una disposizione strumentale ed ottimizzante. I corpi docili, educati interiormente, si sublimano in beni di un’ortopedia sociale, ammansiti e sfruttati per un’eterna emanazione del Potere costituito, il solo fulcro capace di partorire nude vite.
L’allucinato quadro sinteticamente abbozzato desta spesso l’imbarazzo dell’eccesso, come una sofisticata denuncia metafisica che, nel tragitto verso la realtà, perde ogni consistenza. Ma una tale maschera metafisica è proprio la bastiglia inattaccabile del Potere. Il Potere non coincide con nessun individuo, che pur ne è rappresentante, non è riducibile a nessuna istituzione, che pure ne è l’ossatura, e rinasce come una fenice da ogni rivoluzione. Il Potere è inafferrabile perché non è nulla e non è in alcun luogo: è il Tutto, e proprio in quest’eterna, eversiva ridefinizione esso si perpetua ineccepibilmente. “La vera anarchia è quella del potere”, diceva Pasolini.
Quest’ubiqua assenza, tuttavia, è sensibilmente determinante per ognuno di noi. Non appena si esce di casa (ma anche al suo interno) si partecipa ad una complessa farsa, una favola di astrazioni che riorientano costantemente l’antropologia, e si scimmiottano le regole di un estraneo invisibile in un gioco a cui consciamente o inconsciamente partecipiamo sempre. Ogni gesto apparentemente ingenuo, ogni spontaneità illibata non sono altro che gli “errori” di un sistema di relazioni la cui intima verità è solo un prodotto malato.
Sarà possibile far cessare questa sciarada di intenzioni protesiche solo comprendendo che tutto ciò che si ritiene essere normale, normale non lo è affatto. La reazione a tale indignazione è un’autentica inclinazione destituente, che non significa predicare anomia o anarchia, che, rifiutando idealisticamente il Potere, non fanno altro che rinnovare e supportare le sue emanazioni. Si tratterebbe forse, piuttosto, di riconoscere il paradosso che ci circonda e non parteciparvi più, denunciarlo in ogni sua manifestazione, provare a giocarlo diversamente. Malgrado il rischio della pubblica incomprensione e/o umiliazione, la sola via per cambiare una storia malata è il coraggio dell’eresia; e questo, oltre ad essere qualcosa di profondamente umano, è una responsabilità di ciascuno di noi.