Dopo la “settimana marxiana” dello scorso febbraio, proponiamo ai nostri lettori il secondo dei tre approfondimenti promessi sui maestri della scuola del sospetto – Marx, Nietzsche e Freud. In questa settimana “nietzscheana” Pier Aldo Rovatti e Rossella Fabbrichesi, intervistati rispettivamente da Stefano Tieri e Andrea Muni, interverranno sul rapporto del pensiero di Nietzsche con l’attualità e con la dominante “politica della filosofia (e del sapere in generale)”. Successivamente un pezzo di Helmut Heit – docente all’Università di Berlino – indagherà il rapporto di Nietzsche con la scienza del suo tempo e il positivismo; concluderanno la settimana Francesca Ruina, con un pezzo sulla morte di dio nietzscheana filtrata – e criticata – attraverso alcuni strumenti psicanalitici e di critica letteraria, e Andrea Muni, con un intervento su una nuova possibile “Nietzsche renaissance”.
Qualcosa è effettivamente cambiato nel panorama filosofico-culturale del nostro paese (e non solo del nostro paese). Nel corso dell’ultimo decennio si è consumata infatti una piccola rivoluzione nella cultura. A consumarsi come una sigaretta dimenticata sul posacenere è stata la carica vitale, seduttiva e paradossalmente rivoluzionaria di un certo pensiero critico. Lentamente i dipartimenti di filosofia e le pagine culturali dei giornali sono andate svuotandosi della presenza di certi autori e di certe tematiche, per venire invece colonizzati da altri ambiti disciplinari – storicamente minoritari, almeno dagli anni Sessanta – quali la filosofia analitica, la filosofia morale, della scienza, l’epistemologia, le neuroscienze, la logica, la sociologia, la psicanalisi recalcatiano-lacaniana e la filosofia politica. Tutte queste importanti discipline hanno in un certo senso costruito il loro prestigio ai danni del cosiddetto pensiero critico, non perdendo occasione per mostrarne a turno l’infondatezza, l’intellettualismo, l’amoralità, il relativismo e la carenza di sbocchi pratici e/o tangibili.
Certamente si tratta di una battaglia, di un agonismo, e bisogna ammettere – a posteriori – che, se il pensiero critico è andato arenandosi fino quasi a scomparire, la colpa di ciò non può essere ascritta soltanto a quelle altre “perfide” discipline che – non mettendo storicamente né politicamente in discussione i propri presupposti – risultano evidentemente più funzionali al mantenimento di quello status quo politico (e del sapere) che Lacan in altri tempi aveva chiamato “il discorso dell’università”.
Un pensiero critico, se è davvero tale, deve avere infatti anche il coraggio di riflettere auocriticamente sulle ragioni della propria squalifica, della propria messa fuori gioco e della propria atrofizzazione. Ed è proprio qui che rientra in gioco Nietzsche, il maestro del sospetto a cui dedichiamo questa settimana. Il gusto e l’interesse del grande pubblico (e anche di quello specialistico) ci suggerisce in maniera abbastanza secca che forse la lettura cosiddetta “post-moderna” dell’opera di Nietzsche ha fatto politicamente (e mediaticamente) il suo tempo.
Questa evidentemente non è una colpa né di Nietzsche né di quello che ne ha fatto il post-modernismo, forse, al limite, è una colpa di quelli che oggi – pur desiderandolo – non si sono ancora adoperati e impegnati per far sorgere una nuova lettura dell’opera nietzscheana, che sia capace di affascinare e competere politicamente e mediaticamente con quelle palesemente volte a screditarla per malcelati intenti politico-filosofici. Un rilancio dell’opera nietzscheana che non tema religiosamente di tradire la sua “lettera”, e che non tema la critica né l’autocritica. Quando si ama qualcuno bisogna imparare a cambiare con lui/lei, bisogna imparare ad insegnargli (e a lasciarsi insegnare) come cambiare insieme. Coloro che ancora oggi amano Nietzsche non devono temere di osare farsene qualcosa di nuovo, non devono temere di chiedersi di nuovo, daccapo, perché lo amano; non devono temere di deturparlo, di deformarlo e persino di mettere in dubbio quel che finora hanno creduto di aver imparato da lui. Potrebbe essere necessario – per poter ancora dire di amare Nietzsche – iniziare ad esercitare una certa crudeltà, non solo nei confronti della sua opera, ma soprattutto nei confronti di quella che è stata la ricezione dominante del suo pensiero negli ultimi cinquant’anni.
Ripartire da Nietzsche contro Nietzsche, dalla critica contro la critica, osare addirittura una genealogia della genealogia. Tutto questo per potersi ancora dire nietzscheani, per poter essere davvero critici, per non abdicare alla lotta e al confronto, per non arroccarsi su posizioni autoconservative che rischiano di trasformare – e forse parzialmente hanno già trasformato – lo stesso pensiero critico in una di quelle discipline di cui abbiamo detto che non sono disposte a mettere in discussione né il luogo da cui parlano, né la loro storia né la loro funzione politica nell’attualità.