di Andrea Muni
Vecchi schiavi, nuovi signori
Ci saranno d’ora in poi più favorevoli condizioni d’avvio per più vaste formazioni di dominio, di cui non sono ancora esistite le uguali. E questa non è ancora la cosa più importante; è resa possibile la fondazione di stirpi internazionali, che si pongano il compito di allevare una razza di dominatori, i futuri “signori della terra”; – una nuova, enorme aristocrazia, edificata sulla più dura autolegislazione, in cui sarà conferita una durata di millenni alla volontà di violenti uomini filosofici e di tiranni artisti; una specie superiore di uomini che, grazie alla loro sovrabbondanza di volontà, sapere, ricchezza e influsso, si serviranno dell’Europa democratica come del loro strumento più docile e maneggevole per prendere in mano le sorti della terra, per plasmare, come artisti, l’”uomo” stesso. (Nietzsche, Frammenti postumi)
Nel rileggere oggi queste righe del Nietzsche maturo, scritte proprio durante gli anni in cui preparava la Genealogia della morale, sono rimasto colpito dallo strano modo in cui questa inquietante e affascinante profezia si sia evidentemente già avverata.
Con tali esseri non si fanno calcoli, sopraggiungono come il destino, senza un motivo, una ragione, un riguardo, un pretesto, esistono come esiste il fulmine, troppo repentini, troppo terribili, troppo persuasivi, troppo “diversi” per essere anche soltanto odiati. […] Sono gli artisti più spontanei, più inconsapevoli che esistano – insomma, esiste qualcosa di nuovo, dove essi appaiono, una concrezione di dominio che vive. […] Essi ignorano che cosa sia colpa, responsabilità, scrupolo, questi organizzatori nati; regna in loro quel terribile egoismo di artisti dallo sguardo bronzeo, che nell’“opera” si sa giustificato in anticipo per tutta l’eternità, come la madre nel figlio. Non sono costoro quelli nei quali è allignata la “cattiva coscienza” – lo si comprende fin dal principio – tuttavia, senza di loro non sarebbe cresciuta questa brutta pianta, essa sarebbe assente se sotto il peso della loro violenza di artisti non fosse stato eliminato dal mondo, o per lo meno reso latente, un enorme quantum di libertà. Questa aspirazione alla libertà, resa latente a viva forza – lo abbiamo già capito – questo istinto della libertà represso, rintuzzato, incarcerato nell’intimo, che non trova infine altro oggetto su cui scaricarsi e disfrenarsi se non se stessi: questo, questo soltanto è, nel suo principio, la cattiva coscienza. (Nietzsche, Genealogia della morale)
I Signori favoleggiati da Nietzsche nella Genealogia sono scomparsi per sempre, forse addirittura non sono mai esistiti, sono una sorta di mito, e ogni nostalgico desiderio di restaurazione della loro originaria e poderosa imposizione di valori sarebbe al contempo un nevrotico delirio di onnipotenza e una disperata suggestione. I nuovi “signori” sono i discendenti degli “schiavi” della Genealogia, mentre gli odierni “deboli” non sono affatto i discendenti degli antichi signori, sono piuttosto i servi degli schiavi. Ma allora, chi è che comanda davvero? Un’intera corrente filosofica, strutturalista e post-strutturalista, risponderebbe: il sistema, il dispositivo, il regime di verità, il discorso dominante. Ma non è sufficiente, bisogna infatti incidere la carne di questo “sistema”, perché esso non è un’entità soprannaturale, noi lo siamo. Ed è per questo che è necessario tornare, e ritornare, a Nietzsche.
Da dio all’io
L’Uomo Nuovo prospettato nell’esergo nietzscheano sembra essere proprio il soggetto neo-liberale; un soggetto che ha rigettato con coraggio e vigore il sospetto altruismo dei suoi progenitori, gli schiavi diventati padroni, assumendosi orgogliosamente la responsabilità del proprio egoismo e del proprio relativismo. Il soggetto neo-liberale, a suo modo, è un Edipo coraggioso e consapevole che ha rifiutato pubblicamente e politicamente proprio quell’altruismo (e quell’universalismo) che hanno rappresentato l’astuzia segreta (e l’arma vincente) dei suoi progenitori politici. In fondo, anche lo stesso Nietzsche disprezzava profondamente proprio quell’altruismo che vedeva come la trappola sia del cristianesimo, sia del socialismo, sia dello spirito liberal-democratico del suo tempo.
Sembra uno scherzo, una parodia, eppure pare proprio che la nuova stirpe prefigurata da Nietzsche sia già qui, da un bel po’ di tempo, e che forse “non la vediamo per il semplice fatto che è stata vittoriosa” – proprio come scriveva il filosofo tedesco, a proposito dei primi “schiavi diventati padroni”.
È forse giunto il momento storico di riconoscere, solo semi-ironicamente, a questi “malvagi” individualisti una perversa forma di onestà. Essi non volevano più fingere di perseguire il Bene e la Verità universali, mentre erano ormai smaliziatamente consapevoli di non star facendo altro che perseguire il proprio utile e la propria verità: non volevano più nascondersi, volevano sedurre, imporsi, plasmare il valore “uomo”.
La nuova morale scaturita dalla loro recente trasvalutazione del valore “bene” è molto semplice, è la nostra, e si riassume così: “è bene per tutti, che ognuno faccia il proprio bene”. L’unico punto cieco di questo nuovo imperativo morale – che mescola in uno strano mix la morale kantiana e quella utilitarista – sta nel fatto che il “bene” in questione non è davvero così relativo e individuale come sembrerebbe, esso in realtà è già scritto nelle strutture politiche e simboliche della nostra società. Il soggetto della vita e della relazione diviene ogni giorno di più il servo dell’io progettuale e razionale che “conosce i propri desideri”; la vita è al servizio dei desideri dell’io, il soggetto della vita e della relazione va lentamente trasformandosi in una macchina, in uno strumento di cui l’io “dispone” per realizzare i propri progetti e desideri.
Ridere la verità: una vera e propria religione dell’Io è andata costruendosi – durante il secolo scorso – proprio mentre parallelamente cresceva nei soggetti della nostra società il grottesco sospetto che l’Io non fosse ciò che realmente siamo.
Posto che tutto ciò che l’uomo “conosce” non soddisfi i suoi desideri, ma piuttosto li contraddica e li spaventi, quale divina scappatoia poter cercare la colpa di tutto ciò non già nei “desideri”, bensì nel “conoscere”. (Nietzsche, Frammenti postumi)
Ma quali sono le conseguenze pratiche di tutto ciò?
Tre sintomi: il mio bene, la mia verità, il mio io
Ora, chiunque abbia davvero letto Nietzsche sa bene che non è esattamente il soggetto neo-liberale l’Uomo Nuovo che il filosofo tedesco aveva in mente, e avrà quindi certamente capito che questa prima parte dell’intervento è parzialmente parodistica e grottesca. Al contempo però, chiunque lo abbia mai letto davvero sa che Nietzsche ci ha insegnato a diagnosticare lucidamente – senza romanticismi e facili autocommiserazioni – il presente e la malattia, seguendo tutte le traccie del veleno fin dove fa più male.
Gli uomini valorosi e creativi non concepiscono mai il piacere e il dolore come problemi ultimi – si tratta di stati concomitanti, bisogna volere entrambi se si vuole raggiungere qualcosa. (Nietzsche, Frammenti postumi).
Diagnosticare il presente è la lezione fondamentale, il vero compito etico-politico, di Nietzsche e della genealogia. Ma attenzione, per non cadere nella stessa trappola di coloro che additiamo come i nostri avversari dobbiamo stare molto attenti a dare il suo giusto peso e valore al termine “diagnosi”. Una diagnosi infatti è in certo senso una scommessa, una presa di posizione che consente di agire, cioè di optare per un trattamento piuttosto che per un altro. Sarà però solo a posteriori, cioè a livello dei risultati della cura scelta in base alla diagnosi, che essa potrà rivelarsi “vera” (cioè vincente), o falsa (cioè perdente). Poniamo allora queste tre diagnosi sul nostro presente, in modo tale che possano servirci per prendere posizione eticamente su alcune questioni di primo piano riguardanti le nostre esistenze quotidiane:
1) Il cosiddetto soggetto neo-liberale è il nuovo soggetto trascendentale, il nuovo a-priori storico della soggettività; esso coincide col soggetto razionale, normale, sano, felice. Chi non si riconosce in questa forma di soggettività calcolante, progettuale ed edonista non può che essere escluso, medicalizzato, compatito o per lo meno ghettizzato dal senso comune (quando non direttamente da un’istituzione).
2) Questa storicamente nuova esperienza della soggettività è sostenuta e soddisfatta da un inedito imperativo morale: “devo fare il mio bene”, “devo realizzare i miei desideri coscienti e la mie aspirazioni”. Ciò implica che il mio bene è in fondo uguale al bene di tutti gli altri: si tratta di lavorare per realizzare le “mie” aspirazioni.
3) Il rapporto del soggetto neo-liberale coi propri desideri/aspirazioni implica che egli possa conoscerli (e riconoscerli) introspettivamente. Questo presupposto è all’origine della vera e propria esplosione di disturbi psicopatologici scatenatasi negli ultimi decenni; esso infatti genera tutta una serie di controindicazioni che scaturiscono dal fatto che potrebbe non essere affatto vero che io possa mai avere una vaga idea di quello che effettivamente voglio (e sto facendo), mentre mi immagino di star perseguendo i miei desideri coscienti. Per fare solo un esempio: l’anoressia mentale – un grande cancro sociale in continua espansione – è spesso innescata e nutrita (apparentemente) dal desiderio cosciente di essere magri (e più magri degli altri), ma sappiamo benissimo che questo desiderio “cosciente” – che una persona può facilmente incontrare dentro di sé e cercare di perseguire – ricopre spesso un desiderio in atto di tutt’altro tipo: un desiderio di autodistruzione (che però di fatto non affiora mai alla coscienza della persona, specialmente fintanto che è soddisfatto dall’effettivo deperimento fisico).
La convinzione – politicamente radicata – di poter conoscere i propri desideri prima di esserli è diventata un perfetto fenomeno di copertura per ogni sorta di disturbi psicopatologici, disturbi che vengono immediatamente medicalizzati e colpevolizzati attraverso il rimprovero “non hai scelto bene il tuo desiderio”. In tal modo, le persone che vacillano di fronte alle regole del regime di soddisfazione neo-liberale sprofondano spesso in spirali autodistruttive per la paradossale ragione che – nel regime di verità della nostra società – non esiste l’opzione morale: “volevo fare il mio male e adesso sono sazio e contento di averlo fatto”. Essa rimane preclusa, sbarrata, forse perché è un’opzione troppo pericolosa per il regime di verità (e di soddisfazione individuale) che regge il dispositivo e lo stile di vita neo-liberali, un’opzione che – se eccessivamente socializzata – rischierebbe davvero di minarne alla base le fondamenta. La censura neo-liberale esige che il soggetto non sappia che a volte gli capita di (auto)aggredirsi perché, in fondo, vorrebbe vivere secondo differenti valori, esige che i soggetti non si accorgano che l'(auto)aggressione è l’ultimo ineliminabile sintomo del fatto che essi sono vita, corpo e la reazione prima di essere un Io.
L’autodistruttività è il contraltare, il negativo fotografico, della politica della soddisfazione neo-liberale. Essa è un sintomo che implora istericamente di essere approfondito, non curato. I sintomi sono fenomeni superficiali, strizzate d’occhio, riflessi in controluce, scollature troppo vistose… sono delle esche. Provocano, chiamano, chiedono che gli si guardi più dentro, essi rappresentano una malattia, esattamente come un attore rappresenta un personaggio che non esiste. I sintomi di una società – diversamente da quelli fisiologici – non ci possono aiutare a cogliere la verità della sua malattia. I sintomi della società, il genealogista lo sa bene, non rimandano al segreto della sua malattia, ma occhieggiano piuttosto in direzione della cura: i sintomi della società non sono altro che le persone, i soggetti, considerati a livello della vita e della relazione, e non a livello di quel che credono di desiderare.
Un sintomo è sempre un abbozzo – spesso maldestro e sempre doloroso – di soluzione. La febbre “cura” l’infezione, la combatte, la febbre ci fa paradossalmente del bene (anche se la percepiamo come ciò che ci debilita, per non dire ci distrugge), ma essa in realtà sta combattendo una battaglia in nostra vece, dandoci il tempo per trovare rimedi migliori. Il genealogista, come tutti gli altri, non è che un sintomo ben reale di quella malattia immaginaria che si chiama società.
I sintomi sono gli inconsapevoli alleati del diagnosta, non sono i suoi “malvagi” nemici. Un sintomo è accolto dal medico con entusiasmo, esso è utile, prezioso, affascinante, ha qualcosa da insegnargli, anche e sopratutto quando è sgradevole. Nel momento in cui appare, in cui si mostra, lui ne sa più di noi. Il sintomo è ciò che ci permette di azzardare una diagnosi (che a sua volta non può essere altro che il sintomo che noi stessi siamo, e che diamo in pasto alle diagnosi altrui).
Una nuova genealogia della morale deve urgentemente iniziare a diagnosticare questi sintomi, deve iniziare a prenderli sul serio, senza avere l’ossessione di estinguerli troppo in fretta, di eliminarli come se fossero dei nemici malvagi: essi non sono la malattia, sono piuttosto il germoglio stesso, la condizione di possibilità, della cura. Sono forme – spesso inconsapevoli – di resistenza in atto.
Dio difenda me da me stesso, ossia dalla natura che ho già acquisito. Essa deve gustare quella verità goccia a goccia, assaporarla come una medicina amara e violenta: e ogni singolo individuo di questa generazione deve superare se stesso per pronunciare un giudizio sopra di sé […] noi siamo guasti rispetto alla vita perché noi stessi non siamo convinti di avere in noi una vera vita. (Nietzsche, Seconda Inattuale)
Ciò che deve essere curato attraverso la genealogia non è la società, ma piuttosto, vertiginosamente, lo stesso diagnosta/genealogista; i sintomi della società (le persone) non servono per comprendere la società, ma per curare noi stessi. L’autodistruttività è una forma di resistenza politica, è un rituale attraverso cui il soggetto combatte la regola morale che lo governa dal di dentro sotto le mentite spoglie di quello che il linguaggio della nostra cultura ci ha abituato a chiamare “coscienza”, “autocoscienza”, o più semplicemente “io”. Non è un caso che Nietzsche, avendo per primo scoperto tutto ciò, abbia fatto la tragica fine che tutti conosciamo: non aveva complici, e forse non era esattamente il tipo di persona in grado di crearseli. Non avere complici con cui combattere per una “verità” potrebbe infatti essere una possibile definizione della follia. Quanto a noi, per portare avanti la nostra battaglia politico-culturale dovremmo forse imparare malignamente qualcosa dalla strategia utilizzata dagli schiavi della Genealogia, per non rischiare di autodistruggerci davvero, e di perdere la nostra battaglia, come è accaduto a Nietzsche e ai suoi antichi – e un po’ troppo idealizzati – Signori.
Ma questo è il fatto: sul tronco di questo albero della vendetta e dell’odio […] germogliò qualcosa di altrettanto incomparabile, un amore nuovo, la specie d’amore più profonda e più sublime… Ma non si pensi che esso si sia innalzato come la negazione di quell’odio […] No, la verità è il contrario! L’amore germogliò da questo come la sua corona, come la corona del trionfo, con lo stesso impulso con cui le radici di quell’odio affondavano sempre più profondamente e con sempre maggior bramosia in tutto quanto era abissale e malvagio, quella corolla era sbocciata nel regno della luce e dell’altezza con le stesse mete di quell’odio, verso la vittoria, la preda, la seduzione. […] Non rientra nella magia nera di una veramente grande politica della vendetta, di una vendetta lungimirante, sotterranea, che guadagna lentamente terreno ed è preveggente nei suoi calcoli, il fatto che Israele stesso abbia dovuto negare e mettere in croce dinanzi a tutto il mondo, come una specie di nemico mortale, il vero strumento della sua vendetta, affinché tutto il mondo, ovvero tutti i nemici di Israele, potesse abboccare a questa esca? (Nietzsche, Genealogia della morale)
Se noi siamo i nuovi deboli, i nuovi uomini del ressentiment, coloro che non si riconoscono (e soffrono) nel dominante sistema di valori, cos’altro potremmo negare e mettere in croce, come esca, se non proprio quell’io in cui comunque non riusciamo più a credere? È lui che dobbiamo sacrificare, è lui la nostra esca, il nostro strumento di lotta e di seduzione. Dobbiamo sentire e mostrarci nella vita che perderlo, disobbedirgli, non esserlo più, ci rende più felici: questo è il prezzo da pagare per portare fino in fondo, fino alla vittoria, la lotta per trasformare politicamente il senso e i valore di questa parola, “io”, che a tutt’oggi designa descrittivamente ciò che ci immaginiamo di essere mentre viviamo. Questo “sacrificio” è forse l’unico modo per fare della critica un’etica, per metterci davvero alla prova, per riscoprire la soggettività a livello della coerenza tra ciò che diciamo e ciò che facciamo. “Se si ferisce, questo maestro della distruzione, dell’autodistruzione, è poi la ferita stessa che lo costringe a vivere” (Nietzsche, Genealogia della morale).
Compreso il senso parodistico della parte introduttiva, mi concentro direttamente sulla conclusione del pezzo dove viene messo in evidenza la crucialità del sacrificio dell’Io. L’atmosfera che ho percepito rimanda in qualche modo ad un imperativo (a)morale, come se la centralità di Nietzsche nella nostra epoca consistesse nel suo indicarci una via per superare il regime di verità del soggetto neo-liberale, quasi ad intendere uno spiraglio di luce e di salvezza per il debole di oggi.
Dando per scontato che chi ha letto Nietzsche sappia riconoscere la profonda differenza che intercorre tra gli Uomini Superiori, i futuri Signori della terra, e l’Oltreuomo mi sembra evidente che nel messaggio nietzschano sia carico di veleno per noi “moderni”; il sorgere dell’Oltreuomo esige la morte e il tramonto della nostra civiltà e la sua venuta può essere solo preparata dai signori della Terra che dovranno incidere nelle carni degli “schiavi” l’Eterno ritorno dell’uguale in quanto solo attraverso la sofferenza, una nuova sofferenza, può essere creata la consapevolezza dell’eterno ritorno così come al tempo dei Signori fu attraverso il fuoco rovente che gli uomini impararono concetti come “colpa” e “debito”. La trasvalutazione di tutti i valori non si è ancora compiuta in quanto è di vitale importanza trasvalutare il tempo lineare del Progresso, il tempo di Chronos, e per fare ciò dovranno spezzarsi sia i vecchi schiavi che i nuovi Signori. In questo tempo non potrà mai apparire l’oltreuomo e noi possiamo solo favorirne la venuta scegliendo consapevolmente di morire e di auto-distruggerci.
Bel pezzo, mi ha fatto molto riflettere è bello trovare queste occasioni di dialogo sul pensiero nicciano 😉
Ciao giovanni, grazie del bel commento, ricchissimo di spunti. Inizio rispondendo all’ultima questione, precisando che io non intendo affatto che dobbiamo scegliere di morire in senso letterale, ma che dobbiamo sul serio aggredire quella parte di noi, di ognuono di noi, che è collusa con la morale neo-liberale, e che lo è ben oltre i limiti consapevoli di quel che il più radicale di noi può anche soltanto immaginare. Ti rilancio la questione, per poi provare a rispondere con più calma, chiedendoti secondo te, a livello del nostro linguaggio quotidiano, qual’è la differenza tra un desiderio e un pensiero.Io credo che – per fare il primo esempio che mi viene in mente – un primo modo, pratico, per aggredire l’io, potrebbe essere proprio quello di non accordagli il diritto di poter conoscere i desideri. il problema, forse, non è tanto quello di estinguerci, ma quello di cambiare posto, rifiutare l’identificazione politica al nostro pensiero cosciente, per prendere piuttosto posizione a livello di quel soggetto che siamo mentre parliamo, mentre subiamo la “verità” degli altri e mentre incidiamo la nostra sui loro corpi – in fondo cioè, come dicevo nell’articolo, si tratterebbe di prendere posizione dove viviamo e non dove pensiamo di vivere. Ma questa operazione ha un prezzo molto alto, perché nessuno di noi ha tutta questa voglia di pagare questo prezzo, nessuno ha molta voglia di abbandonare quel “posto sicuro” che il discorso dominante ci ha preparato fin da prima che nascessimo: un essere pensante, che ha un corpo, un’autocoscienza che conosce i suoi desideri e mette il corpo la vita e a reazione al lavoro per realizzarli… come uno schiavo col suo padrone.