di Francesca Ruina
È una mattina d’estate, con i raggi del sole che trapassano le finestre semiaperte del salotto per andare a conficcarsi sul vellutino verde scuro del nuovo divano di mia madre. Lei va avanti e indietro, trasportando grandi ceste con panni da stendere sul terrazzo, lanciandomi ogni tanto un sorriso svogliato e commentando la mia posizione scomposta sul divano. Io non mi muovo, resto ferma con il telecomando in mano, facendo zapping nel vuoto cosmico che quella scatola rettangolare rigurgita. Ho undici anni. Ancora non lo so, ma lì, in quella noiosa mattina soleggiata, la mia infanzia sta drasticamente per finire.
Tra soubrette scosciate e immagini di spiagge affollate, il caso vuole che il mio zapping si incagli su MTV, canale a me ancora del tutto sconosciuto. Ed è lì che il tempo si ferma, che la stanza – mia madre, i panni, le parole – sparisce, che i raggi del sole si congelano sull’immagine di un ragazzo che urla un dolore che sento insieme così estraneo e così intimamente mio. È Kurt Cobain, che trasuda quella puzza di spirito adolescenziale che alla soglia dei trent’anni continua a starmi incollata addosso.
Spaventata e attratta da quell’angelo bruciato che da quel giorno ha cambiato irreversibilmente la mia percezione di me e del mondo, ho iniziato a collezionare le sue foto. Nascondevo il suo sguardo triste sotto una pila di libri, consultando di tanto in tanto quell’informe dolore come un oracolo che, immobile e silenzioso, sapeva tutto di me. Non capivo perché lo facessi, non capivo cosa stessi davvero nascondendo là sotto, né cosa fosse quello strappo, quel vuoto che sentivo esplodere alla bocca dello stomaco, ogni volta che il mio sguardo incontrava la sua immagine. Da lì al momento in cui mi sono finalmente decisa a comprare “Nevermind” sono passati un paio d’anni. Anni in cui tentavo disperatamente di non guardare quelle foto, di cantare insieme alle mie compagne di scuola le canzoni allegre che la radio mi buttava addosso come uno schiaffo, come un sorriso di plastica che bisognava a tutti i costi dipingersi sul viso. I’m not like them / but i can pretend.
Ma c’era qualcosa che mi calamitava irrimediabilmente verso di lui. Più tentavo di respingerlo, più quella sensazione che lui incarnava mi impregnava corpo e pensieri. Senza saperla dire, informe come un dolore bucato.
E poi finalmente ho trovato il coraggio di andare, di nascosto – da me stessa più che dagli altri –, in quell’unico negozio musicale di cui la mia cittadina di provincia disponeva, e di prendere in mano la mia inquietudine. Sono tornata a casa con passi lenti – li ricordo tutti – e, quando il cd ha iniziato a girare nello stereo, tutte le lacrime dell’universo sono sgorgate dai miei occhi, dalla mia pelle, dalla mia anima, mentre io, immobile ed esterrefatta, ho iniziato ad ascoltarmi.
Hello hello hello, how low?. Quanto in basso?, mi chiedeva Kurt con quella sua voce straziante che veniva da un altrove da sempre dentro di me. Quanto in basso bisognava scendere? Quante pistole che non avevo – no, i don’t have a gun – erano pronte a spararmi in bocca per smorzare la mia voce afona? Il silenzio del cielo plumbeo della Seattle degli anni Novanta mi precipitava addosso senza più nemmeno essere il tempo che stavo vivendo. In quell’inizio di secolo che tutto avrebbe cambiato, in cui tutto invece mi ristagnava insipidamente tra le dita, mentre mi affannavo a ricreare sulle corde arrugginite della mia chitarra quelle due note ossessive di Something in the way.
C’era qualcosa, qualcosa che non aveva nome, che non aveva forma, che usciva dalla voce di Kurt – il mio easy friend – in cui rifugiarmi, in cui riconoscermi, mentre il resto del mondo sembrava sorridere, stucchevolmente soddisfatto, agli anni Duemila, all’esplosione tecnologica, alla globalizzazione che prometteva a tutti che non ci saremmo mai più sentiti soli. Io invece sola mi ci sentivo, lontana, lontanissima dal benessere capitalistico che sputava i suoi slogan pacificanti, cancellando differenze e sofferenze, eliminando – di fatto – la vita.
Quello strazio, quella voce ritorta su se stessa, quegli accordi stridenti di chitarre scordate, di bassi pulsanti e di batterie ossessive, erano l’eco di una generazione che non c’era, che non c’era più e che non c’era mai stata. Non era l’urlo rabbioso del punk, né il ritornello tranquillizzante del pop e nemmeno una sofisticata ricerca di suoni sperimentali. Non era una culla in cui trovare un’identità generazionale, ma il rumore di un malessere esistenziale diverso per ciascuno. Era una heart-shaped box, una scatola a forma di cuore, una casa a cui era volato via il tetto. Era uno specchio rotto.
Ora, all’alba dei trent’anni, riascoltando quei pezzi troppo spesso rimasterizzati, riguardando quegli occhi diventati icona, indossati da svariati attori per pellicole più o meno commerciali, mi chiedo cosa sia rimasto. Mi chiedo che fine abbia fatto quella bambina che guardava il video di Smells like teen spirit con gli occhi sbarrati e la bocca semiaperta, che ascoltava il dolore per la prima volta, con la forza e lo stupore di chi si trova di fronte a qualcosa di magico e incomprensibile. Mi chiedo che fine abbia fatto l’adolescente che avrebbe voluto stare sotto i ponti di Aberdeen a fissare il nulla, sorseggiando pennyroyal tea e confidando in un Leonard Cohen afterworld. Mi chiedo cosa le direi da adulta quale ora – perlomeno anagraficamente – pare che io sia.
Forse nulla. Forse ascolteremmo insieme l’Unplugged in New York – perché, in effetti, ora, il tempo di Bleach e Incesticide è drammaticamente finito – in silenzio, con quello sguardo eternamente perso in un altrove che non c’è. Forse le direi che no, la pace dei sensi non la troverà, che il riposo per quell’inquietudine non ci sarà mai, che ci sarà sempre qualcosa che manca e che quella mancanza è incolmabile.
Ma le direi anche che è proprio da lì, da quel vuoto che sente così prepotentemente alla bocca dello stomaco, che nasceranno tutti i suoi desideri. È da lì che imparerà a diventare la persona che è, da lì che riceverà la spinta per trovare il suo personalissimo posto nel mondo. E anche se continuerà a pensare i think i’m dumb, arriverà il giorno in cui, con un filo di voce, si sussurrerà maybe just happy.