Cultura, turismo, assemblee (regolari) e scioperi “selvaggi”

di Daniele Lettig

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Trova le differenze. Si potrebbe dare questo titolo alla comparazione tra due vicende simili (ma con conclusioni opposte) avvenute in Italia e in Francia a pochi giorni di distanza, e che riguardano il diritto di assemblea e di sciopero, le rivendicazioni contrattuali e salariali dei lavoratori, il rapporto dei governanti con il mondo del lavoro, e infine il settore della cultura e del turismo in senso più ampio.

Iniziamo dal nostro paese. Per lo scorso 18 settembre i sindacati dei lavoratori del settore della cultura – da tutti esaltata come “il petrolio d’Italia” (definizione di per sè abbastanza orrenda) – convocano un’assemblea, da svolgersi su tutto il territorio nazionale, per discutere, tra le altre cose, del mancato pagamento da oltre un anno dei compensi dovuti per le aperture festive straordinarie.

(Un ritardo, detto per inciso, che dimostra come al di là delle espressioni retoriche o delle operazioni-spot finanziate da privati cittadini, la “valorizzazione” della cultura – altra pessima espressione – abbia ben poco di concreto, visto il trattamento riservato al personale che si occupa quotidianamente della custodia e del mantenimento dei siti, e che è il tramite diretto delle istituzioni artistiche e culturali con i visitatori e i turisti).

L’assemblea è indetta una settimana prima, l’11 settembre, e viene comunicata alle soprintendenze, che la autorizzano secondo i termini prescritti dalla legge. Il giorno prima dell’assemblea, giovedì 17, i sindacati comunicano alla stampa quello che accadrà l’indomani e i possibili disagi per l’apertura ritardata dei siti archeologici e dei musei. La mattina di venerdì 18, infine, prima di riunirsi i lavoratori affiggono agli ingressi dei cartelli dove si spiega che l’apertura sarà posticipata (anche se al Colosseo, per un errore, il cartello dice che il sito rimarrà chiuso fino alle 11 di sera – pm – invece che alle 11 del mattino).

Alle 11.30, tutti i siti vengono regolarmente riaperti al pubblico, ma ovviamente nel frattempo si sono formate code di turisti non al corrente dell’assemblea, e la rete ha iniziato a rilanciare la notizia. Inizia quindi una polemica furiosa, che nel corso della giornata viene cavalcata da politici di varia estrazione, (s)cultura e provenienza, che confondono senza stare troppo a pensarci “assemblea” e “sciopero” e si producono in reazioni inconsulte nei confronti dei lavoratori, “colpevoli” di avere impedito per ben tre ore ai turisti di visitare le bellezze d’Italia.

Tra i tanti, i più rappresentativi sono Matteo Renzi, Presidente del Consiglio dei ministri: “Non facciamo nessun attentato al diritto di sciopero, ma per come è fatta l’Italia diciamo che i servizi museali stanno dentro gli esercizi pubblici essenziali”.

E Dario Franceschini, Ministro dei Beni culturali: “Alla vigilia delle giornate europee del patrimonio vedere turisti che hanno prenotato mesi fa che arrivano da tutte le parti del mondo in fila davanti ai cancelli chiusi fa male, […] è un danno per l’Italia in un momento in cui stiamo investendo dopo tanti anni per la prima volta in modo così consistente nei beni culturali, nel rilancio dell’immagine del paese, nel turismo”.

Ma anche altri, per non essere da meno, si danno da fare nell’attaccare i lavoratori: merita una segnalazione particolare – anche se la carità di patria suggerirebbe altrimenti – l’incauta intemerata di Francesca Barracciu, che inspiegabilmente ricopre nel governo la carica di Sottosegretario ai Beni culturali, ruolo senza dubbio importante e che richiederebbe abilità cognitive un po’ meno modeste di quelle della signora, secondo la quale “lo sciopero è un reato in senso lato”. Affermazione che ha suscitato l’indignazone persino di Flavio Briatore (!).

Il frutto di tutto questo can can, in cui le ragioni dei lavoratori non sono state prese in considerazione per nulla o quasi, è un decreto che equipara i musei ai servizi pubblici essenziali, e prevede quindi la possibilità di ricorrere alla precettazione dei lavoratori. Un esito quantomeno curioso, per una giornata iniziata con un’assemblea regolarmente convocata per motivi più che seri (discutere su che iniziative prendere dal momento che il governo è in ritardo di oltre un anno nel pagamento dei salari accessori: pagamenti dovuti a seguito di un’iniziativa peraltro lodevole, cioè tenere aperti i siti anche nei giorni festivi). Riunione, peraltro, annunciata pubblicamente in anticipo e che ha provocato solo uno slittamento nell’apertura al pubblico. Guardandolo da un’altra angolazione, tuttavia, quest’esito è quasi “inevitabile” dato il clima generale di crescente attacco ai diritti in cui siamo immersi: d’ora in poi, quindi, in campo culturale sarà sempre il sacrosanto Diritto del Turista a prevalere. È la “valorizzazione”, baby.

Curiosa coincidenza, i francesi la pensano diversamente. Potrebbe sembrare strano, dal momento che la Francia è il paese guida per quanto riguarda le politiche di promozione dei beni artistici: i suoi investimenti nel settore culturale sono tra i più alti in Europa (e non solo) e il numero di turisti che visitano il paese, e visitano Parigi, è da anni superiore a quello di coloro che vengono in Italia.

Beh, quattro giorni dopo gli avvenimenti italiani, dalla capitale transalpina arriva un segnale di tutt’altro tenore.

Come riporta le Monde (le parti evidenziate sono mie):

Le porte del Museo d’Orsay sono rimaste chiuse martedì 22 settembre e lo resteranno oggi mercoledì 23. Lo sciopero, annunciato il mattino di martedì dai membri del personale su iniziativa della CGT-Culture [Confederazione generale dei lavoratori, più o meno l’equivalente della CGIL], è stato effettuato senza dare alcuna comunicazione ai visitatori. Un semplice messaggio attaccato con lo scotch sui vetri annunciava la chiusura provvisoria del palazzo.

People outside in front of Orsay Museum. Some of the French capital's most important museums including the Pompidou center and the Musee d'Orsay are closed because of a strike of staff members. Paris, FRANCE-02/12/2009.

I lavoratori francesi dunque hanno scioperato, e scioperato davvero (non limitandosi a discutere in assemblea) contro un’iniziativa del governo, che proprio per far fronte all’aumento del numero dei visitatori prevede che i musei pubblici – tra cui l’Orsay, il celebre museo degli impressionisti, e il Louvre – siano aperti tutti i giorni (attualmente lo sono sei giorni a settimana, con orari più lunghi di quelli dei musei italiani).

Ovviamente, anche a Parigi i turisti “che avevano prenotato ed erano venuti da tutto il mondo” sono delusi e si fanno sentire, come raccontano sia le Monde che altri giornali francesi, descrivendo lo spaesamento dei visitatori con accenti più o meno simili a quelli usati dai colleghi italiani qualche giorno prima.

Quello che cambia, è la reazione da parte del mondo politico: invece che a solo due ore di volo, sembra di stare su un altro pianeta. Nessuna reazione isterica, nessun tweet strafottente che promette decreti immediati contro i lavoratori. I rappresentanti del sindacato vengono convocati al Ministero della Cultura, che la sera stessa del giorno dello sciopero promette una circolare per venire incontro alle loro richieste. Dopo il secondo giorno consecutivo di chiusura forzata, poi, la direzione del museo assicura ai sindacati che assumerà altro personale prima di iniziare l’applicazione dei nuovi orari, e così giovedì 24 il museo riapre.

Che conclusione trarre dal raffronto tra questi due fatti, che hanno numerosi tratti in comune, ma che hanno dato luogo a reazioni ed esiti diametralmente opposti? Forse che l’“eccezione culturale” francese non è fatta solo di grandeur e grandi investimenti in questo settore (i quali peraltro hanno un ritorno economico tutt’altro che indifferente), ma anche di un’attenzione ancora presente (seppure anche là le contraddizioni non manchino) alle rivendicazioni che vengono dal mondo del lavoro. E visto il modo con cui il ceto politico francese ha reagito all’agitazione che ha tenuto chiuso senza preavviso il museo (e che, siamo onesti, avrebbe fatto infuriare almeno un poco chiunque di noi si fosse trovato davanti ai portoni sbarrati dell’Orsay), magari ad essere “selvaggio” non è lo sciopero parigino, ma piuttosto i governanti italiani.

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