Storia della sessualità 2.0. I “pedofili virtuosi”

di Andrea Muni

bimbi

Da molto tempo desideravo riflettere pubblicamente su un fatto sociale che mi ha particolarmente sconcertato. Non mi è stato subito chiaro il motivo per cui provassi un simile disagio nei confronti di un’iniziativa apparentemente senza ombre come quella dei cosiddetti “pedofili virtuosi”, un gruppo di persone – ovviamente americano – che ha fondato una sorta di lega di auto-aiuto per persone che hanno “pensieri” sui bambini, senza che questi si siano mai tradotti – a loro dire – in seduzioni o violenze reali.

Sul sito dei “virped”, dalla sezione intitolata “Esperti scientifici”, si può leggere – tra le altre – l’autorevole opinione del dott. Blanchard, docente in psichiatria a Toronto e collaboratore dei Dsm americani 4 e 5 (in particolare per la sezione riguardante le turbe dell’istinto sessuale). Cito il professor Blanchard, che i “virped” a loro volta riportano in esergo alla loro sezione “scientifica”:

Le persone non scelgono di essere attratte da adulti o bambini, così come non scelgono di essere attratti dagli uomini o dalle donne. Non tutti i pedofili sono molestatori di bambini, né tutti i molestatori di bambini sono pedofili. I molestatori di bambini si definiscono per i loro atti, mentre i pedofili si definiscono per i loro desideri. Ci sono pedofili che non hanno mai realmente esercitato la loro attrazione sessuale nei confronti di bambini. Essi non devono essere accusati per ciò che provano, ma piuttosto supportati nella costante auto-censura che devono esercitare su se stessi per poter continuare ad avere un comportamento etico.

C’è qualcosa di toccante in queste parole. Sono ben consapevole di quale sia la reale difficoltà nel trattare praticamente – e non “teoricamente” su una rivista culturale – questioni delicate come quelle che riguardano le scelte pratiche di gestione della salute mentale, e/o quelle giuridico-penali riguardanti la violenza sui minori. Non c’è niente di più lontano dalle mie intenzioni di proporre qui una “sparata” libertaria contro la presunta repressione sessuale. Vorrei piuttosto svolgere qualche piccola considerazione storica, e qualche distinguo psicologico, per provare a orientarci un po’ meglio nella vertigine che ci coglie quando entriamo in prossimità di temi così delicati (per non dire tabù).

La prima cosa che mi chiedo è se non sia stata proprio la costante autosorveglianza che queste persone già esercitavano su se stesse ad aver prodotto in loro la convinzione di essere dei pedofili. La seconda è invece come sia possibile che un esperto, uno psichiatra, possa collegare in modo così disinvolto, senza nessuna zona d’ombra, quelle che sembrano delle “fantasie sessuali” a delle identità scultoreamente definite. La terza riguarda invece il collegamento tra “fantasie” e “atti”. Cercherò di approfondire queste tre questioni.

Il problema messo inconsapevolmente in luce dai “virped” è infatti, a mio avviso, un problema cruciale che riguarda il rapporto tra i cosiddetti “fantasmi” (cioè le “fantasie”), l’identità sessuale e gli atti sessuali propriamente detti. Pensiamo al celebre testo di Freud Un bambino viene battuto, in cui il padre della psicoanalisi racconta come molti nevrotici gli abbiano raccontato di ricavare soddisfazione sessuale dal fantasma, cioè dal “pensare al fatto che…”, un bambino viene picchiato. Freud non viene nemmeno sfiorato dall’idea che questo fantasma, che produce eccitazione sessuale, implichi che il soggetto sia un pedofilo. Esiste una questione cruciale riguardo alle fantasie sessuali, sempre lasciata in disparte, che (esattamente come nei sogni) riguarda il fatto che, nella “scena”, non è chiaro dove siano il soggetto, l’oggetto e l’osservatore effettivi (della “scena” stessa e della pulsione). Freud si accorge, ad esempio nel testo citato, che per il soggetto che racconta la “scena” non è affatto chiaro se lui sia il bambino, l’impersonale picchiatore o chi osserva la scena. Tutto questo per far notare, solo preliminarmente, fino a che punto la psichiatrizzazione della famiglia, della sessualità e degli stessi bambini – cominciata proprio a cavallo tra otto e novecento – abbia vissuto nell’ultimo secolo un’escalation clamorosa.

Credo esista un problema “generale”, un problema di “base”, riguardante la nostra abituale idea della cosiddetta “sessualità”, la quale a volte mi sembra funzionare da indesiderato innesco per alcune manifestazioni particolarmente inquietanti di violenza (sessuale e non). Pur essendo senz’altro un’iniziativa socialmente utile, quella dei “virped” contribuisce a rendere dominante un’idea di desiderio – e di desiderio sessuale in particolare – che paradossalmente è a mio avviso una delle principali cause dei cosiddetti raptus di violenza (sessuale e non): la autosorveglianza dei pensieri, la paura di pensare il male, il fatto stesso che a volte “pensare il male” produca una sensazione di paura, di angoscia, di vertigine che sono notoriamente collegate con l’eccitazione sessuale.

I “virped” si immaginano di “desiderare” dei bambini perché li pensano, e magari perché nel pensarli si eccitano. Ma quante volte una persona può pensare al burro di arachidi, con golosità, farsi venire l’acquolina in bocca, e non mangiarlo mai per i più svariati motivi (o semplicemente perché ha un odore nauseabondo)?

Nelle parole del professor Blanchard possiamo leggere non tra le righe, ma esplicitamente formulata, la affermazione secondo cui il “pedofilo” è: colui che desidera un bambino. Mentre il “molestatore” è, lapalissianamente: colui che molesta un bambino. Quando Blanchard ci dice che non tutti coloro che hanno fantasticato sui bambini sono dei molestatori lo seguiamo bene, e non possiamo che essere d’accordo. Iniziamo però a seguirlo meno quando ci dice che “non ogni molestatore (di bambini) è un pedofilo”. Qui dobbiamo forse fermarci un attimo, perché iniziano ad esserci delle contraddizioni un po’ troppo evidenti. Il professore dice che “chi molesta un bambino” non è necessariamente un pedofilo, e che un pedofilo non è necessariamente “colui che molesta i bambini”, bensì qualcuno che “li desidera”. Da queste definizioni, precise e scientifiche, consegue logicamente – e un po’ comicamente – che per il professore “desiderare” (qualcosa o qualcuno) non significa altro che “pensare a …”. I “pedofili virtuosi” sarebbero dunque persone che hanno chiesto spontaneamente di essere medicalizzate, psichiatrizzate e “aiutate” a contenere i loro “istinti” perché turbate dall’aver pensato a bambini, o perché angosciate dall’aver provato “eccitazione sessuale” in situazioni di contatto – magari banale – con loro; un’eccitazione – che ci pare di capire qui significhi un’erezione – magari causata proprio dalla paura di pensare a loro in maniere non “etiche” (per citare il professore). Si sa che nel momento in cui penso “non devo pensare a…”, di fatto, ci sto pensando.

Avere un orgasmo nei momenti di paura o di angoscia è un’esperienza alquanto comune, anche se comprensibilmente poco socializzata – per evidenti ragioni. Il punto è che – nonostante il capitalismo ci abbia abituato a credere il contrario – “pensare a…” e “volere qualcosa” sono due azioni assolutamente non sovrapponibili. “Volere” significa aver già fatto, si declina solo al passato come aver voluto; mentre “desiderare” significa “pensare a…”.

Un altro punto riguarda il rapporto genitori-figli (come attesta il caso di un padre – in carcere da dieci anni – denunciato dalla figlia, oggi pentita, recentemente raccontato su Le iene). Esistono infatti atti o gesti identici che assumono un valore erotico/sessuale differente a seconda della loro dimensione “sociale”. Basti pensare a cosa significa allattare (ci sono madri che allattano fino a sei anni), o “mangiare” il piedino del proprio bimbo, dargli i bacini, dormire abbracciati. Sono tutte cose che, se fatte da un genitore, non hanno il minimo carattere sospetto, ma che evidentemente se fatte da un completo estraneo iniziano ben presto ad assumere, comprensibilmente, il carattere di vere e proprie molestie. Esistono inoltre, è inutile negarlo, situazioni in cui minorenni particolarmente disinibiti seducono degli adulti per i più svariati motivi. Qui in Friuli Venezia Giulia si ricorda il caso, di qualche anno fa, delle due quindicenni che hanno strangolato il “pedofilo” che, pare, si rifiutasse di pagarle per i loro servigi. Il mondo è sempre un po’ più complicato che nei manuali di diagnosi psichiatrica.

Quello che i “virped” sembrano aver oscuramente presentito – diversamente dal professore attraverso cui si autorizzano – è che tra “pensare a…” e “commettere un’atto o un gesto”, c’è uno scarto qualitativo: non è lo stesso soggetto. il punto è che, per qualche motivo, nella nostra cultura, siamo indotti a credere che un “desiderio” sia un pensiero accompagnato da un auspicio cosciente o da una reazione fisica.

Non importa quante volte penso al fatto che mi piacerebbe uccidere George Bush o mia suocera; non dipende dal fremito involontario di piacere che provo nel pensare di aver il privilegio di essere proprio io a causare la loro morte: non dipende da niente di tutto questo il fatto che io possa farlo (né che voglia farlo davvero). Il punto è che volevo farlo solo se l’ho già fatto. Tutto qui. Fine della questione. Troppo semplice?

“Pensare a qualcosa…”, specialmente pensare a cose “malvagie” è una delle forme più sane e immediate di sublimazione dell’aggressività che sono rimaste a disposizione dei soggetti che appartengono alla nostra società (e a quel “disagio” che ne rappresenta il prezzo inevitabile). Un pensiero “malvagio” sublima un’azione censurata, proibita: se ci mettiamo a censurare, medicalizzare e psichiatrizzare i “pensieri” non facciamo che togliere ulteriore respiro agli inevitabili impulsi (auto)aggressivi che fanno parte di noi. E così facendo, mentre ci immaginiamo di guadagnare in “eticità”, in realtà non facciamo altro che aumentare involontariamente il rischio che questi prendano vie non mediate e “inconsapevoli” per scaricarsi.

L’idea che i desideri siano dei pensieri accompagnati da una particolare tinta emotiva non è che il frutto della millenaria pratica della confessione cristiana, ibridatasi nell’ottocento con la pratica dell’interrogatorio diagnostico medico-psichiatrico. Non c’è bisogno di ricordare a questo proposito il lavoro di Michel Foucault ne La volontà di sapere e nei corsi sul Potere psichiatrico e gli Anormali. L’idea stessa che possiamo “sapere” quello che desideriamo prima di esserlo stati è un puro miraggio, e non c’è nessuna forma di autocensura che possa assicurarci dal male: né dal pensarlo né dal farlo. Ma la vera iperbole è che l’unica certezza che abbiamo a questo proposito è che forme eccessive di autosorveglianza e autocensura producono – e non proteggono da – situazioni di “passaggio all’atto” che si rivelano spesso molto più gravi, violente e dolorose delle presunte “perversioni” da cui vorrebbero difendersi.

Da qui cogliamo meglio quel che Foucault cerca di spiegare nel suo corso sugli anormali, cioè la nascita teorica del celebre complesso di Edipo, il quale sarebbe divenuto storicamente concepibile grazie al rovesciamento sul bambino dell’involontaria eccitazione causata nei genitori da un potere medico-psichiatrico che ordinava loro di spiare la “sessualità” dei propri figli: un emblematico caso di eccesso di (auto)sorveglianza rovesciato in perversione. Ancora una volta il sonno della ragione forse genera mostri, ma non di meno, a volte, la Ragione – a sua volta – si rivela non essere altro che il sogno di un mostro.

Che cosa si era detto ai genitori a partire dalla metà del XVIII secolo? “Applicate il vostro corpo a quello dei vostri figli, osservateli, accostatevi loro, insinuatevi eventualmente nei loro letti, scivolate tra le loro lenzuola, guardate, spiate, sorprendete tutti i segni di desiderio dei vostri bambini. Accostatevi a passi felpati, di notte, al loro capezzale, sollevate le lenzuola, guardate che cosa fanno, infilate la mano almeno per impedirlo”. Ed ecco che, dopo aver detto questo almeno per un centinaio d’anni, si dice loro: “Il desiderio temibile che scoprite, nel senso letterale del termine, è rivolto a voi. Ciò che vi è di più temibile in questo desiderio è proprio il fatto che vi riguarda”. Ne derivano alcune conseguenze:
1) Si inverte la relazione di indiscrezione organizzata per più di un secolo, quando si chiedeva ai genitori d’accostarsi ai propri figli con un comportamento di indiscrezione incestuosa. Nel giro di un secolo si giunge a scagionarli proprio della colpevolezza che, al limite, essi avrebbero forse provato per il fatto di essere andati a scoprire il corpo desiderante dei propri bambini. E si dice loro: “Non preoccupatevi, non siete voi a essere incestuosi, non proviene dall’indiscrezione e dalla curiosità che provate per il corpo che avete messo a nudo. È proprio il contrario. L’incesto non va da voi a loro, visto che sono i bambini che, fin dall’inizio, cominciano a desiderarvi”.

Michel Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975)

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