di Francesco Ruzzier
Nel suo viaggio intorno al mondo per raccontare persone e luoghi invisibili ai più, dopo l’India dei barcaioli (Boatman), il deserto americano dei drop-out (Below Sea Level), il Messico dei killer del narcotraffico (El Sicario – Room 164), la Roma del Grande Raccordo Anulare (Sacro GRA), Gianfranco Rosi è andato a Lampedusa, nell’epicentro del clamore mediatico, per cercare, laddove sembrerebbe non esserci più, l’invisibile e le sue storie. Seguendo il suo metodo di totale immersione, Rosi si è trasferito per più di un anno sull’isola facendo esperienza di cosa vuol dire vivere sul confine più simbolico d’Europa raccontando i diversi destini di chi sull’isola ci abita da sempre, i lampedusani, e chi ci arriva per andare altrove, i migranti.
Per raccontare la realtà di un posto – costantemente sotto i famelici riflettori dei telegiornali – dalla giusta angolazione, Rosi si è affidato a Samuele, un ragazzino di 12 anni che, come tutti i suoi coetanei del paese, gioca, va a scuola, ama tirare con la fionda e andare a caccia: uno sguardo puro e incontaminato, che riesce a raccontarci una realtà incredibilmente diversa rispetto a quella che risiede nel nostro immaginario collettivo.
Nel suo girovagare per l’isola di Lampedusa, Samuele non incontra nemmeno un migrante, così come non ne sente parlare nei discorsi con gli amici, col papà e con la nonna: una quotidianità che ci appare totalmente estranea a quella che siamo abituati ad accostare all’isola di Lampedusa. Ben presto però ci viene svelato come tutto questo non vedere quello che succede a poche centinaia di metri di distanza sia frutto della nostra incapacità di guardare con uno sguardo adeguato la realtà, abituati, come il piccolo protagonista del film, a usare un solo occhio.
Così Rosi cerca di far compiere allo spettatore un percorso di messa a fuoco e accettazione di quello che accade su quella sciagurata isola: un orrore inspiegabile a cui è impossibile abituarsi, ma che è necessario imparare ad osservare e conoscere. E come il piccolo Samuele si sforza per allenare il suo occhio pigro e per sconfiggere gli attacchi d’ansia, così il regista di Sacro GRA chiede allo spettatore di compiere uno sforzo emotivo non indifferente, e di lasciarsi accompagnare su quelle imbarcazioni colme di orrore, piene di corpi ammassati e morenti e di storie che nessuno vorrebbe mai ascoltare. Fuocoammare non vuole diventare un film politico, ma è sicuramente un film che ha una valenza politica, che ha il merito di portare alla luce una realtà attraverso uno sguardo ben preciso, che restituisce con una forza prorompente l’idea del suo regista.
Ma al di là dei suoi contenuti, della necessità di raccontare da dentro una situazione ormai fin troppo stereotipata, Fuocoammare dimostra ancora una volta quanto il cinema documentario sia anche cinema d’Autore, che riesce a restituire allo spettatore una particolare e spesso articolata idea di mondo con una forza e un’apparente sincerità altrimenti difficilmente raggiungibile. E purtroppo fa male pensare che sebbene dal 2004, l’anno in cui Tarantino assegnò la Palma d’Oro a Fahrenheit 9/11 di Michael Moore, l’attenzione del pubblico attorno al cinema documentario sia aumentata esponenzialmente, la maggior parte delle persone, non appena sente nominare questo genere cinematografico, vede ancora proiettata nella propria mente un antilope che cerca di scappare dalle grinfie di un leone in slow motion.