di Stefano Tieri
La prima delle 221 tesi raccolte nel celebre La società dello spettacolo di Guy Debord recita: “L’intera vita delle società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”. Rispetto al 1967, anno di pubblicazione del libro, le condizioni di produzione in Europa sono profondamente mutate, e lo spazio di “produzione” virtuale di dati sta assumendo, nell’era post-industriale, una posizione sempre più centrale. Basti pensare alla capitalizzazione dei big data da parte di multinazionali come Google, le quali hanno ormai capito come le informazioni che gli utenti di internet (i quali nel 2014 hanno superato i 3 miliardi) disseminano ogni giorno in quello che è sì un mare magnum, ma sempre più sorvegliato, costituiscono una forma di ricchezza inestimabile per tracciare il profilo di ogni potenziale consumatore, prevedendone e anticipandone i comportamenti.
In questo quadro si colloca un fenomeno che non si ritiene (ancora) toccato da simili dinamiche: il selfie, vocabolo inglese entrato di forza anche nella lingua italiana, si presenta all’apparenza come una pratica “innocente”. Per chi avesse passato in eremitaggio gli ultimi anni di vita, riporto la definizione del termine data dall’Oxford English Dictionary, che nel 2013 l’ha “eletto” a parola dell’anno: “una fotografia che si scatta a se stessi, in genere tramite uno smartphone o webcam, solitamente condivisa sui social network”.
Il fenomeno negli ultimi anni ha assunto, in seguito alla diffusione dei cellulari con fotocamera incorporata, una dimensione inimmaginabile fino a poco tempo prima: sarebbero 93 milioni i selfie scattati ogni giorno, secondo una recente stima dall’agenzia di comunicazione internazionale Coney. Data la portata e diffusione del fenomeno, nonché le conseguenze sulla soggettività di chi si dedica a tale pratica, possiamo considerarlo a tutti gli effetti – rubando l’espressione a Roland Barthes – un “mito d’oggi”: un simbolo della cultura di massa, il cui significato viene “purificato” e, così facendo, naturalizzato all’interno dei discorsi che vi ruotano attorno, circostanziandolo e definendolo.
Per Roland Barthes “il mito ha il compito di istituire un’intenzione storica come natura, una contingenza come eternità”, un processo che è il medesimo di quello a cui mira “l’ideologia borghese” (l’espressione, oggi un po’ datata, potrebbe essere qui efficacemente sostituita con “ideologia imprenditoriale”). La più recente volgarizzazione del genere artistico dell’autoritratto si è afferma in un contesto sociale pervaso dal culto verso l'(auto)affermazione e fabbricazione della propria vita. Tramontata ogni provvidenza divina, l’essere umano viene gravato da una responsabilità nei riguardi del successo (o insuccesso) raggiunto nel corso della propria esistenza. L’uomo che “si è fatto da solo” (ecco un altro mito d’oggi), auto-generatosi dal nulla, diventa allora sinonimo di vincente: non dovendo niente agli altri, impostosi unicamente con le proprie forze, detiene un Sé verso il quale l’unico atteggiamento consono, da parte della collettività, è quello della riverenza. Un Sé che però, al tempo stesso, crea forte dipendenza, e che ha a che fare con un altro mito – quello di Narciso: come scrive il sociologo Alain Ehrenberg nel suo La fatica di essere se stessi. Depressione e società, “Il narcisismo non è quel liberatorio amore di sé che è uno degli incentivi alla gioia di vivere, ma è piuttosto il fatto di restare prigionieri di un’immagine talmente ideale di sé da sentirsene da ultimo paralizzati, col bisogno di essere rassicurati dagli altri circa la propria identità e con un effetto di dipendenza psicologica”.
Cos’è che si vuole ritrarre nel selfie? Secondo il report prima citato, l’82% degli intervistati sostiene di voler mostrare, tramite questa pratica, “qualcosa di nuovo”. Il cappello appena acquistato, il paio di orecchini ricevuto in dono, o ancora il nuovo taglio di capelli, per non parlare di chi si ritrae con il proprio leader politico. L’importante, in tutto ciò, è che la foto sia scattata dall’ego ritratto: l’auto-produzione costante della propria immagine non può essere affidata all’altro, ed è in questo punto che si incrocia l’altro mito del self-made man. La testimonianza continua di questa produzione di Sé fa del soggetto ritratto (esattamente come le “novità” con cui ci si ritrae) un bene di consumo, che riceve il suo significato (e il suo senso) dalla “novità” che si voleva documentare – e che, in fondo, si ritiene d’essere. È chiaro allora che il selfie, in quanto mito d’oggi, è forse la più chiara espressione dell’ideologia borghese: con questa pratica si documenta di sé in quanto soggetto consumatore, un soggetto che al tempo stesso è però oggetto fra gli oggetti, sebbene detentore di un’immagine del Sé che richiede di essere costantemente plasmata e ingigantita. Un processo che, vista la dipendenza creata nel soggetto auto-ritratto, si richiude in una spirale infinita.
Con un selfie mi produco come immagine e come consumatore. O meglio: come immagine di consumatore. Dissimulando l’operazione dietro a una pratica che, nella narrazione dominante, ha assunto toni e sfumature “innocenti”, in grado di distogliere dall’ideologia di fondo, tanto pervasiva e diffusa quanto (quasi) invisibile. Dopotutto, come osserva ancora Barthes, “il mito non nasconde nulla: la sua funzione è di deformare, non di far sparire”.