di Livio Cerneca
I monologhi che costituiscono il copione di Tre Alberghi parlano dei bei tempi in cui le multinazionali dovevano almeno fare la fatica di corrompere i governi. Oggi, come tutti sanno, le multinazionali i governi li controllano direttamente, ne fanno parte, anche se occasionalmente qualche politico è costretto a corrompere un paio di amministratori delegati per far passare emendamenti che diano almeno la parvenza che esista ancora uno stato di diritto. In questo senso, il testo di Jon Robin Baitz – autore e produttore di Los Angeles che lavora per il teatro e per la televisione – è piuttosto superato.
Quando fu rappresentato per la prima volta, nel 1993 negli Stati Uniti, Tre Alberghi conteneva una potente carica polemica. Proporre però la pièce in questa Italia contemporanea – così all’avanguardia nel consentire ai privati di invadere con sprezzo la sfera pubblica – a distanza di ben ventitré anni, serve a malapena a ricordare che segnali evidenti della tendenza erano già ben visibili a quell’epoca, che li abbiamo ignorati e che ora siamo già abbondantemente oltre le aberrazioni descritte dalle voci dolenti dei due protagonisti, Barbara e Ken, interpretati da Maria Grazia Plos e Francesco Migliaccio per la regia di Serena Sinigaglia.
La critica americana, non troppo sorprendentemente, ha spesso finto di non accorgersi di quelle dure accuse, preferendo concentrarsi sull’altro livello di lettura intersecato al primo, più universale, forse eterno: il solito – e sempre diverso – rapporto tra coniugi, tra esseri umani che vivono insieme e che lungo il percorso in comune tendono a distanziarsi sempre più, dove sono proprio le cose in cui entrambi hanno creduto ad aprire fratture insanabili. Solo per un istante, infatti, i protagonisti si incroceranno sul palcoscenico, senza pronunciare una parola.
La vicenda è quella di due idealisti che militano nei Peace Corps (associazione americana di volontariato a favore dei paesi in via di sviluppo) e che, dopo essersi sposati, ad alcuni anni di distanza si ritrovano a stare dall’altra parte, dalla parte dei cattivi, degli sfruttatori, di quelle stesse corporation che creano le condizioni per cui le nazioni povere non riescono e mai riusciranno a risollevarsi. Ma mentre l’uomo entra fin troppo nel ruolo di cinico manager impegnato a far fuori il personale in esubero e a giustificare le spietate politiche aziendali, sua moglie ha una crisi di coscienza e, nel corso di una conferenza in cui si riuniscono le mogli dei dirigenti della multinazionale che spaccia latte in polvere in Africa, invita le donne ad essere caute, perché “la missione di vostro marito non è la vostra missione”. Poi prende un aereo e abbandona il coniuge, il quale dopo tre ore fa la stessa fine che lui era solito riservare ad altri dipendenti: viene rimosso dal suo incarico e messo in prepensionamento.
L’interpretazione di Maria Grazia Plos è talmente convincente da renderla intollerabile: la lacerazione di Barbara, causata dalla contraddizione tra le proprie convinzioni e la realtà alla quale deve tenore di vita e status sociale, scatena crisi isteriche che ci indurrebbero a raggiungerla sul palcoscenico per tenerla ferma, per farla smettere di rovesciare per terra un numero infinito di barattoli di latte in polvere il cui contenuto, alla fine, rappresenterà la sabbia della spiaggia messicana sulla quale Ken si spegnerà in un disperato bagno di alcool. Una fine prevedibile, perché Francesco Migliaccio ci fa capire sin dal primo momento che razza di personaggio tragico sia quello a cui presta il corpo.
Nel corso dei monologhi scopriamo però che la disperazione di Barbara nasce anche dal ricordo del figlio sedicenne, assassinato perché aveva avuto la colpa di indossare l’orologio nuovo che i genitori gli avevano appena regalato; e che il padre di Ken era un ebreo comunista dalla cui ideologia il figlio aveva preso le distanze senza però riuscire a risolvere il conflitto che lo avrebbe trascinato in quella debolezza di riferimenti ideali di cui sarebbe diventato allo stesso tempo vittima e difensore.
L’allestimento scenico semplice e originale, la scelta musicale orientata su alcuni classici pop e la buona prestazione degli attori non è sufficiente: Tre Alberghi arriva fuori tempo massimo, decisamente troppo tardi. La realtà è stata più veloce e ha bruciato lo spirito di denuncia e di attualità che sembra aver ispirato la realizzazione di questa nuova produzione del Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia.
Tre Alberghi ha debuttato in prima nazionale al Politeama Rossetti di Trieste il 22 marzo. Repliche fino al 3 aprile, e inizio della tournée italiana per la stagione 2016-2017.