I due volti dell’ “infamia”. Per una nuova cultura popolare contro il populismo

lavoro

di Andrea Muni

Guardo le notizie al telegiornale. Sto per andare al lavoro. Mi sforzo di non capire che il sedicente governo socialista francese del primo ministro Manuel Valls ha non solo promulgato per decreto una riforma del lavoro identica (se non peggiore) a quella varata in Italia con il Jobs act, ma manganella i manifestanti (che non sono i “soliti” no global, ma normali lavoratori), mentre le Figaro pubblica in prima pagina una “maligna” fotografia di Martinez, l’ombroso e baffuto segretario della principale confederazione sindacale francese responsabile dell’ondata di scioperi (la CGT). Le Figaro ci informa inoltre (26 maggio), con il consueto spirito critico, che il segretario confederale non è che lo scarto di una culura marxista francese ormai in decomposizone da molti decenni, ricordando a tutti che questo “mostro” di intransigenza avrebbe addritttura osato definirsi “comunista” fino al 2002… un vero folle, non c’è che dire…

Vorrei cogliere l’occasione di questa grande protesta dei lavoratori francesi per una riflessione molto più ampia sul rapporto tra l’odierno mondo del lavoro e la possibile creazione (e socializzazione) di una cultura popolare veramente “alternativa” rispetto a quella coltivata dagli establishment economici, politici e persino intellettuali – oltre che dai vari populismi – del nostro naufragante occidente.

Inizierei confessando che io sono il primo a ritenere che, troppo spesso, negli ultimi anni molti cosiddetti “scioperi” – specialmente nel pubblico impiego – sono serviti principalmente a integrare week end e ponti. Non di meno, credo che non sia così difficile cogliere la differenza tra uno sciopero (più o meno) generale e prolungato – in cui è palese che chi sciopera lo fa in pura perdita personale e al solo scopo di lottare per dei diritti che non può osservare inerte gli vengano sottratti – e uno sciopero, per così dire, con motivazioni più “leggere”. Il Jobs act francese è molto simile al pacchetto di leggi con cui Renzi è riuscito – senza scosse – a ottenere quello che Berlusconi, alcuni anni fa, non era riuscito a strappare. In poco più di un decennio lo stesso tentativo di minare le tutele sindacali e il diritto dei lavoratori al lavoro (perché questa è la sostanza morale ultima dell’articolo 18 e della questione “reintegro”) ha avuto un’accoglienza completamente differente: il Jobs act è passato praticamente in silenzio, neanche una vetrina spaccata, uno sciopero generale, niente. Lo abbiamo – semplicemente, ma scandolasamente – in massima parte percepito come inevitabile, quasi come un “atto di civilità” dovuto allo spirito del tempo in cui siamo gallaggiamo.
Come è noto gli incentivi offerti alle aziende per le assunzioni con i “nuovi” contratti a tempo indeterminato hanno una durata limitata, e le cosiddette “tutele” crescenti – previste da questo tipo di contratti – permetteranno ai datori di lavoro di scaricare i lavoratori non appena le loro prestazioni saranno divenute sconvenienti economicamente (cioè, per parlar chiaro, quando cesseranno gli incentivi per le assunzioni di questo tipo, o non appena si riprodurrà un minimo intoppo nella presunta mini ripresa dell’economia gliobale). Tutti sanno, in primo luogo i Valls e i Renzi, che nel lungo periodo l’unico vero risultato di queste “riforme” sarà il definitvo indebolimento – per non dire l’annullamento – delle quasi già completamente eutanizzate possibilità di azione comune a disposizione dei lavoratori. Un esempio banale: basterà liquidare (economicamente) tre o quattro “capi popolo”, per annullare rapidamente e senza scosse qualsiasi istanza comune portata avanti – con o senza il supporto dei sindacati – dai lavoratori di una grande o piccola azienda.

Non sono certamente io il primo a dirlo, ma ci tengo a riaffermare personalmente, e con forza, che tutto questo “processo” – che gli estblishment europei, per tacere di quelli americani, stanno imprimendo al mondo del lavoro – ha l’unico e preciso obiettivo politico di parcellizzare, spezzettere e individualizzare il più possibile i rapporti “umani” che sono la carne stessa, la “realtà”, di quell’enorme spazio di socialità che è il mondo del lavoro. È il panopticon realizzato nella sua forma più pura: ogni problema dei dipendenti, giorno dopo giorno, si trasforma in un problema “del” dipendente con l’azienda, con il capo o con il capitale; ogni coesione possibile tra lavoratori è scongiurata in anticipo da figure infami che – come angeli bui in una santa gerarchia dell’ipocrisia – si premurano di dividere, mettendoli gli uni contro gli altri, i gradini più bassi della piramide al solo scopo di per poter meglio servire quel “padrone”, così invisibile e così volatile, che – giorno dopo giorno – confondono col loro stesso ego. Divide et impera.

Questi infami designati esistono, ci sono in ogni luogo di lavoro (o quasi). Simili al guardiano che custodisce l’entrata al palazzo della legge nella celebre parabola dell’”uomo di campagna” raccontata da Kafka nel suo Processo, i guardiani – gli infami – si preoccupano della creazione ad hoc di capri espiatori tra i colleghi, seducendo gli altri a convogliare tutta la rabbia repressa – provata nei confronti di un “padrone” che si fa ogni giorno più invisibile, più volatile, quasi “spirituale” – contro i propri compagni (ovviamente sempre contro i più deboli, i più stupidi, i più polemici). Mi spiace molto dirlo, ma uno dei principali motivi per cui non esiste più qualcosa come una “coscienza di classe” è che quasi tutti, tristemente, troviamo comunque più attraente essere degli infami, nel senso che ho appena descritto, piuttosto che degli “infami” nel senso di “una persona qualunque uguale a tutte le altre che lotta, senza prospettive personali di scalata sociale, all’interno di un gruppo coeso”.

Quando è successo che essere come gli altri è divenuto, nella nostra percezione quotidiana, qualcosa di “umiliante”? Quando abbiamo iniziato a provare gratitudine per il fatto di essere sfruttati. se solo ci viene permesso di sfruttare qualcuno per interposta persona?

La ferita più profonda che l’epoca neoliberale ha inferto alle nostre vite, prima ancora che ai nostri portafogli, è quella della socialità, delle forme di socialità. Ci sono solo io e il capitale, il mio migliore amico, il mio alter ego, che pensa in me. Non posso farci niente, non c’è amicizia, non c’è rapporto di collaborazione e di rispetto che tenga: farò di tutto pur di non essere “infame”, sono persino disposoto ad essere un’infame.

Credo che chi ha l’abitudine a lavorare davvero in gruppo – magari in gruppi di lavoro talmente sottoproletarizzati da non essere stati ancora colonizzati completamente, o solo recentemente, dalle logiche grottesche dell’amicalità e della simpatia forzate a scopo di lucro – debba sentirsi fortunato della propria “infamia”, perché l’“infamia” è uno spazio della fierezza, forse l’unico luogo d’orgoglio in cui possiamo ancora essere più forti degli infami. Questo scarto è a mio avviso – anche se mi rendo conto che la cosa potrà apparire, di primo acchito, forse un po’ delirante – il nuovo noi e loro, la nuova polarizzazzione politica, seppur così intima e privata, che ci riserva il futuro della nostra società.

Oggi forse sono davvero maturi i tempi di un operaismo culturale. Viviamo in un tempo in cui la cultura – quella che non porta soldi e non serve interessi di marcato – è talmente sottovalutata e disprezzata, che i cosiddetti intellettuali sono (finalmente) costretti ad essere dei proletari e sottoproletari veri. Non è detto che tutto ciò sia un male, anzi, dovremmo accogliere tuto questo con entusiasmo. Queste trasformazioni epocali del tessuto sociale potrebbero permettere infatti di accorciare quella disanza – e quello stigma borghese – che hanno contraddisinto non solo i precedenti “operaismi” (anche se forse meno quello ispirato da Della Volpe e Tronti che quello ispirato da Negri), ma addirittura tutta la storia della cultura occidentale.

Per essere “operaisti”, anche se la cosa potrà sembrare un’ovvietà, bisogna lavorare: bisogna esserci dentro, bisogna avere compagni e padroni. E soprattutto bisogna costruire insieme un nuovo senso per queste parola. I compagni infatti non sono sempre i “buoni” e i padroni non sono sempre i “cattivi”: la nuova lotta politica è intra- , prima ancora che inter-, soggettiva. Se esiste oggi una nuova lotta politico-culturale non può che essere quella contro le tentazioni e le seduzioni politiche di cui noi stessi, in primo luogo, siamo il bersaglio. Non c’è altra via.

Abbiamo davvero bisogno di una cultura capace di dire le cose – persino quelle più importanti e complesse – in maniera semplice, popolare. L’ascesa dei populismi lo dimostra, le persone esigono che gli si parli da pari a pari, chiedono di capire e di confonfrontarsi. Riuscire a fare questo permetterebbe a ognuno di noi di riscoprire rapidamente che non solo i contenuti non risentono affatto di una sana semplificazione linguistica, ma che addirittura questa ritrovata “semplicità” è l’unica forma di comunicazione capace di unire, di creare socialità, amicizia, con-fusioni.

Un concetto, anche complicatissimo, che non possa essere spiegato con un linguaggio “da bar”, è un concetto inservibile alla vita. Uscire dal linguaggio “alto” è un’urgenza. Piaccia o no, infatti, questo linguaggio è il fiore più prezioso di una millenaria tradizione padronale. Tutta la cultura “alta”, per fortuna o purtroppo, è stata infatti prodotta da persone che non hanno mai dovuto timbrare cartellini, chiedere al capo il permesso di andare in bagno, lavorato otto ore al giorno sei giorni su sette. Questo non significa ovviamente che costoro non abbiano detto cose giuste, belle e importanti, ma significa piuttosto che le persone reali – che oggi lavorano occupandosi anche di cultura – hanno il compito, per non dire l’urgenza, di adattare le “verità” che hanno appreso alla vita vera, alla vita “infame” di una persona qualunque – che si stressa (o si ammala) a causa del lavoro, che percepisce in maniera netta che il suo corpo e la sua vita sono letteralmente “venduti” per otto ore al giorno in cambio di denaro, e che proprio per questo, nel poco tempo libero che gli rimane, non vuole sentirsi “scolarizzata”, ma trattata da pari a pari.

Lo stesso Marx, piaccia o meno, ha un suo posto preciso in questa storia “padronale” della cultura occidentale. Marx era infatti un intellettuale, non ricco, ma non di meno certamente non un operaio. Quando si legge nei suoi Manoscritti economico-filosofici la rapita ammirazione – per non dire il velo di invidia (che forse tormenta sempre ogni ammirazione) – per quei lavoratori che si riuniscono, che chiacchierano, che bevono e fumano “al solo scopo di stare insieme” e che trovano nella socialità in pura perdita un fine e non un mezzo, quel che si può cogliere in filigrana è una sorta di sottile ma profondissimo scollamento “originario”: uno stigma, una macchia nel tuorlo della filosofia comunista. Marx, nella vignetta che lui stesso descrive, è colui che nota, rileva, vede da fuori: è il “teoreta” di qualcosa che gli altri “stanno essendo”. Marx, nel quadro, è colui che – da una posizione ambigua – descrive un’evento di cui non è – e non potrebbe mai essere – completamente parte. Certamente il marxismo, come teoria, è stato il più alto che la filosofia dei padroni abbia mai raggiunto. Molte cose però sono cambiate negli ultimi due secoli: le classi sono esplose, gli intellettuali si sono proletarizzati e internet permette a chiunque abbia davvero qualcosa da dire di essere ascoltato.

Vorrei concludere riflettendo sul fatto che non è un caso che i principali canali principali utilizzati per esprimere la vitalità e la vera filosofia dei ceti popolari e operai, siano ancora ancora oggi – come sessant’anni fa – il cinema e la musica leggera. Queste pratiche hanno infatti, notoriamente, un rapporto più diretto con la vita vera, col lavoro, con la socialità, un rapporto che la filosofia non deve assolutamente scimmiottare, ma da cui dovrebbe piuttosto trarre ispirazione per il proprio particolare e faticosissimo percorso verso la quotidianità (percorso che certamente non è quello della cosiddetta popsofia, la cui critica meriterebbe un intervento a parte).

Possiamo ricominciare da qui, senza negarci nulla – da Sant’Agostino ad Althusser, dalla storia medievale ai movimenti per i diritti civili negli Stati Uniti degli anni Sessanta – ma dobbiamo sapere perché, dobbiamo sapere cosa stiamo facendo, dobbiamo avere un’idea precisa della contro-utilità che tutto ciò può avere nelle nostre vite. Per lo svago ci sono cose molto più divertenti della cultura… la cultura, alla fine della fiera, non è altro che il campo di battaglia stesso della politica – e non molto di più.

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