Charlie Hebdo e i terremotati: l’agenda setting ai tempi dei social network

di Lilli Goriup
charlie terremotoLa vignetta di Charlie Hebdo che raffigura i feriti e i morti del terremoto secondo lo stereotipo dell’italiano mangiatore di pasta è brutta e non è satirica. I motivi sono semplici: è razzista e non prende in giro il potere ma le vittime. La satira, secondo la locuzione proverbiale, corregge ridendo i costumi; non c’è tuttavia nesso tra il costume tutto italiano di mangiare pasta e il terremoto che pochi giorni fa ha colpito il centro Italia. A meno che non si voglia arrivare all’equazione italiani – pasta – mafia, e vedere in quest’ultima l’obiettivo polemico della supposta satira, secondo la rettifica del giornale francese, almeno. Ma qui a maggior ragione si ricade nel razzismo. Da questa considerazione preliminare ne discendono altre, altrettanto banali: dire che la vignetta è brutta non significa automaticamente smettere di essere solidali con le vittime dell’attentato terroristico che ha colpito la redazione parigina nel gennaio 2015; sentirsi offesi dalla vignetta in questione non implica il doversi ergere all’improvvisa difesa di un’italianità dai contorni indefiniti. Il razzismo e lo sfottò nei confronti di vittime inermi devono dare fastidio universalmente. Con la speranza che non sarà necessario aggiungere altro a un dibattito il cui spessore – ad avviso di chi scrive – è nullo, qui si vuole invece cogliere l’occasione per spostare l’attenzione su alcuni dei meccanismi che sono alla base di tanti fenomeni d’indignazione da social network. Con l’auspicio, stavolta sì, di fornire uno spunto per una riflessione di più ampio respiro.

In sociologia e in teoria della comunicazione, è arcinoto il concetto di agenda setting. Secondo tale teoria, i media sono in grado non solo di influenzare le opinioni del pubblico attorno a un determinato argomento, ma di dettare l’agenda stessa degli argomenti che devono essere discussi, mettendone in luce alcuni a discapito di altri, che possono essere in alcuni casi anche del tutto taciuti. La teoria dell’agenda setting prese corpo e struttura nel 1972 grazie a Maxwell McCombs e Donald Shaw. Già negli anni Venti dello scorso secolo, ben prima di Citizen Kane, ha tuttavia i suoi precursori. Come spiega la voce “agenda setting” de La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche,

nel 1922 Walter Lippmann, nell’ormai famoso Public Opinion, sottolineava come il pubblico dei media di fatto non si trovi dinanzi agli eventi reali, ma a pseudo-eventi, in pratica “alle immagini che ci facciamo nella nostra mente”. Sin dalla selezione e rappresentazione quotidiana delle notizie, i media modellano la realtà sociale. Essi sono in grado di strutturare i nostri pensieri e di portarci a un mutamento cognitivo.

A quasi un secolo di distanza, il quarto potere è stato soppiantato e anche il quinto: non è più nemmeno la televisione a dettare l’agenda, e la scomparsa dai riflettori della ribalta di Silvio Berlusconi, fenomeno questo sì italianissimo, ne è l’emblema. A scandire il ritmo dell’indignazione sono i social network. Più giovani, più renziani, nonostante la recente gaffe del ministro della sanità dell’attuale governo, cui non sono bastati hashtag e anglicismi per non diventare un fenomeno d’indignazione virale a sua volta – e a ragione. Il fatto è che questo flusso ininterrotto di slogan, opinioni preconfezionate nella formula standard del tweet o del post da condividere, senza spazio di articolazione, impone la scaletta degli argomenti da dibattere non solo all’interno dei media che li ospitano (facebook e twitter principalmente), ma anche alle tradizionali testate giornalistiche, che arrancano, inattuali, a rincorrere la pseudonotizia ingenerata dalla rete per pubblicarne una photogallery sul proprio sito web o, nei casi più clamorosi, farne un articoletto in uscita il giorno successivo, già troppo tardi per il ritmo sfrenato di internet. Ecco un ulteriore livello, inedito per gli autori del Novecento, della strutturazione della realtà operata dall’agenda setting. È un circolo vizioso, un cane – e non un serpente – che si morde la coda. Si pensi all’esempio iniziale: Charlie Hebdo pubblica una brutta vignetta sui terremotati italiani – questa è, se ce ne deve essere una, la notizia. Invece negli ultimi giorni la stampa italiana è impegnata in un tam tam di opinionism i pro o contro l’essere Charlie. Non potrebbe, probabilmente, fare altrimenti, se questa è la notizia: milioni di italiani sono impegnati ad arrovellarsi se essere o meno Charlie. E degli immigrati negli hotel mentre gli italiani sono nelle tende ce ne siamo già dimenticati? Forse perché è brutto quando si è a propria volta vittime del luogo comune? Chi scrive si scusa con il lettore per non aver resistito alla tentazione postmoderna di inserire uno slogan indignato e qualunquista.

Non si entra volutamente qui nel merito del dibattito della nocività o, al contrario, dell’utilità dei social e di internet in generale. È un’altra questione, non liquidabile con “dipende dall’uso che se ne fa”. Per affrontarla, bisognerebbe riprendere in mano la riflessione novecentesca sulla questione della tecnica e dedicarle un luogo a sé. Più umilmente, si ribadisce l’invito di Nietzsche a farsi più simili alle vacche che agli uomini moderni, imparando da loro l’arte del ruminare – un’arte che si pratica in silenzio.

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