“Whiplash” di Damien Chazelle: il tempo (di un ritorno)

di Marco Catenacci

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Prima della musica, prima del jazz, prima dello scontro con i propri desideri e le proprie ambizioni, il cinema di Damien Chazelle sembra essere prepotentemente incollato ad un decisivo e triplice concetto di Tempo; Tempo nell’azione, Tempo dell’azione, Tempo di uno sguardo (successivo ad un Ritorno).

Nonostante i due soli film all’attivo (Guy and Madeline on a Park Bench, 2009 e Whiplash, 2014) e un terzo in arrivo (La La Land, film d’apertura della 73esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia), Chazelle sembra avere già sviscerato apertamente la sua idea di cinema e le sue ossessioni, prendendole di petto e rivelandole senza fronzoli, giocando fin da subito una partita a carte scoperte. Eppure, al di là del fil rouge del jazz e dello spazio dedicato alla musica e alle esibizioni, Guy and Madeline e Whiplash, sono due film che ad una rapida occhiata non potrebbero essere più diversi: in un bianco e nero da 16mm il primo, giallognolo e colorato il secondo, (apparentemente) improvvisato come una jazz session il primo, meticolosamente e ritmicamente costruito il secondo, e ancora, costantemente attaccato ai volti dei protagonisti il primo, interessato più agli strumenti musicali/pròtesi dei personaggi e al progressivo inserimento del protagonista in un ambiente il secondo; incentrato su pacati e nostalgici movimenti (del caso) e sulle scelte dei personaggi il primo, teso, feroce e focalizzato su uno scontro sempre più acceso e nervoso il secondo. E nonostante queste evidenti (ma tutto sommato superficiali) differenze, entrambi soggiaciono, in modi diversi, alle incontrovertibili leggi del Tempo.

Si era detto Tempo nell’azione, Tempo dell’azione, Tempo di uno sguardo (successivo ad un Ritorno); ecco la triade che sembra costituire lo scheletro portante del modo in cui Chazelle decostruisce (Guy and Madeline) e costruisce (Whiplash) il suo cinema. Il Tempo interno all’azione, nel primo lavoro del regista statunitense, è fondamentalmente il tempo di un colpo di fulmine, il tempo silenzioso di un avvicinamento in un affollato vagone della metropolitana, il tempo di una scelta, il tempo di chiudere una relazione, iniziarne un’altra e dubitare nuovamente delle proprie decisioni. È il tempo che porta Guy da Madeline a Elena, e poi forse di nuovo a Madeline, è il tempo di una settimana, il tempo (e il peso) del passato che ci si porta alle spalle. E che ritorna, appunto. Anche in Whiplash c’è un passato dal quale è difficile liberarsi (la vicenda del suicidio dell’ex allievo di Fletcher) e che puntualmente ritorna, riemerge nei momenti cruciali della vicenda, come una bomba sopita sempre pronta ad esplodere; ma nel secondo film di Chazelle, il tempo decisivo sembra essere quello che separa il presente dal futuro desiderato, l’allenamento dall’esibizione, l’esercitazione privata dagli applausi, la frustrazione dalla soddisfazione: è il tempo (faticosissimo!) necessario alla realizzazione dei propri sogni e delle proprie ambizioni, un tempo all’interno del quale tanti soccombono e pochissimi ne escono vincitori.

Eccolo, il tempo nell’azione (o nella narrazione), che va di pari passo con il secondo degli estremi sviluppati da Chazelle: il Tempo dell’azione (non più della narrazione, ma della costruzione della narrazione), che è forse l’aspetto più interessante sviluppato dal Nostro fino a questo momento. È un tempo che, in modo prevedibile (ma non per questo banale o scontato), si modella sulla musica, sul jazz che vive al centro delle sue storie. Ma anche in questo senso, si esprime in due modi differenti. Come si accennava prima, in Guy and Madeline, un ruolo importante è svolto dal caso, da un incontro fortuito in metropolitana, da un eye contact imprevedibile, e infine, dall’improvvisazione di un comportamento, di due mani che si avvicinano e si cercano e che con un solo gesto cambiano completamente le dinamiche delle relazioni tra le persone, cancellando tre mesi in venti secondi. Per Chazelle la vita sembra essere un’improvvisazione continua, un continuo cambio di ritmo, un’esibizione free, le cui regole, pur presenti, sono ripetutamente infrante e ricostituite, e in cui perfino uno stile sporco da cinema vérité può essere utilizzato per raccontare un numero musicale, destrutturandolo così di tutto l’armamentario e l’immaginario luccicante e spettacolare tipico del musical. Il Tempo della messa in scena allora riecheggia il jazz più spontaneo e improvvisato, che a sua volta rispecchia le imprevedibili situazioni della vita.

Il centro di Whiplash invece non sta nelle casuali dinamiche relazionali-affettive: qui si parla della realizzazione dei propri sogni, del raggiungimento dei propri obiettivi, del sudore che bisogna versare sui piatti della batteria, del sangue che si deve far colare sulle bacchette, della dannatissima fatica che bisogna fare per arrivare ad un traguardo. No, in questo tempo sadico e autolesionista, non c’è alcuno spazio per l’improvvisazione. Tutto deve essere calcolato alla perfezione, ogni battuta (ogni immagine!) deve andare al posto giusto, ogni secondo di esibizione deve essere accuratamente preparato attraverso il duro lavoro svolto nel tempo privato dell’esercizio. Al pari del Whiplash che dà il titolo al film, Chazelle sembra costruire l’intero film come uno standard jazz, un tema base sul quale, una volta raggiunto il primo traguardo, ora sì, poter improvvisare. Ma Andrew (e Chazelle con lui) sta ancora lavorando sulla struttura, sull’esecuzione perfetta e maniacale di questo tema di partenza. Tutto nella partitura del regista sembra volto a dialogare con la musica, con il suo ritmo, con il suo perfetto svolgersi e rivelarsi. “Were you rushing or were you dragging?” chiede insistentemente Fletcher a Andrew, dopo avergli ripetuto che il modo in cui stava suonando era “not quite my Tempo”.

Eccola, l’ambizione di Chazelle (che qui si sposa con quella di Andrew): fare un cinema perfettamente “a tempo”, senza nessun anticipo, senza nessun ritardo nella tessitura e nel ritmo delle immagini. E non si parla (solo) di ritmo del montaggio: si tratta di saper collocare ogni immagine nel posto giusto (dopo averlo trovato questo “posto giusto”) e di tenerla, di farla avvenire esattamente per il tempo necessario ad eseguire il proprio standard nel miglior modo possibile. In definitiva, Chazelle è allo stesso tempo Andrew e Fletcher, il musicista e il direttore d’orchestra: ha l’ambizione di riuscire ad eseguire perfettamente una partitura secondo il tempo che egli stesso ha pensato per essa.

Infine, il momento in cui i due film sembrano essere più vicini risiede nei finali, ovvero nel Tempo di uno sguardo (successivo ad un Ritorno). In entrambi i casi, Chazelle sembra risolvere le tensioni tra i personaggi attraverso un’esibizione (privata la prima, pubblica la seconda) e uno sguardo, privo di parole, attraverso cui poter cogliere un pensiero. Un’esibizione e uno sguardo, che arrivano sempre dopo un riavvicinamento (un Ritorno, appunto), di uno dei due personaggi verso l’altro. In Guy and Madeline, è Guy a tornare da Madeline (nome, tra l’altro, dal neanche troppo velato sapore proustiano…), a cercarla e infine a (ri)trovarla in procinto di prendere un treno per New York, che la porterà definitivamente a cambiare vita. È Guy, sommerso dai dubbi sulle scelte fatte e sulla sua nuova vita con Elena, ad attivare questo processo di riavvicinamento, mentre la direzione di Madeline sembra essere decisamente opposta, di allontanamento da Guy, di allontanamento da Boston. Il ragazzo la intercetta proprio venti minuti prima della partenza del treno, Madeline è di fretta; ma nonostante questo, Guy riesce, attraverso un’esibizione e uno sguardo, a rubarle del tempo (e prevedibilmente a farle posticipare il viaggio).

E ancora, è un tempo che Chazelle sottolinea, in modo evidente e marcato, con i due dettagli dell’orologio posti all’inizio del loro incontro (segna le 5:51) e alla fine (le 6:04), dopo il suo assolo e lo sguardo disteso e malinconico tra i due (in un finto campo/controcampo vicinissimo ai volti, soluzione adottata per la prima volta in questa sequenza). L’esibizione di Guy inoltre, arriva proprio per sopperire ad un’evidente mancanza di comunicazione e per chiudere un dialogo teso e costruito su inutili frasi di circostanza, quasi a sciogliere l’atmosfera pesante che si era frapposta nella loro relazione. È un momento di distensione, per i due protagonisti e per lo spettatore, finalmente partecipe emotivamente di un numero musicale e non più imbarazzato terzo incomodo in una relazione in fase terminale.

Anche in Whiplash, e qui forse in modo ancora più evidente e diretto, l’esibizione di Andrew nel finale riesce a distendere la tensione tra i due personaggi e soprattutto a disegnare una perfetta catarsi per lo spettatore. E anche in questo caso, la situazione si rilassa attraverso l’esecuzione musicale proprio quando le parole si dimostrano, ancora una volta, menzognere (all’inizio dell’esibizione, dopo che tra Andrew e Fletcher tutto sembra essersi risolto, il maestro escogita l’ennesimo colpo basso ad Andrew cambiando un brano della scaletta). Qui il Ritorno è di Andrew, che dopo aver scelto di abbandonare la musica, incontra per caso Fletcher in un locale e si fa convincere a tornare a suonare ad un concerto con lui: ed è un ritorno che in qualche modo serve ad introdurre la natura catartica del bellissimo finale orchestrato da Chazelle, che si (pre)conclude, guarda caso, con una serie di sguardi silenziosi in campo/controcampo molto ravvicinati, quasi in particolare sugli occhi, simili a quelli di Guy and Madeline.

L’esibizione finale di Whiplash risolve la situazione attraverso una duplice vendetta, in cui a spuntarla sono sia Andrew (che è riuscito a prendersi la sua rivincita su tutte le angherie subite, tramite un assolo improvvisato e memorabile) che Fletcher (felice finalmente di aver trovato quello che potrà diventare “un nuovo Charlie Parker”). Due vittorie dunque, che si esprimono ancora nel Tempo di uno sguardo. Ora sì che Chazelle può finalmente terminare la composizione, ma non prima di aver ribadito ancora un’ultima volta la sua duplice natura di musicista e direttore d’orchestra attraverso una rapida carrellata in avanti che passa dal gesto di chiusura di Fletcher alle battute finali di Andrew. Ed è proprio in questo movimento che Chazelle sembra quasi volersi sostituire in ultima istanza ai suoi personaggi: non a caso, concede agli spettatori del suo film (e solo a loro, non a quelli presenti al concerto di Andrew e Fletcher) l’onore degli applausi sui titoli di coda.

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