di Francesco Ruzzier
Di fronte a un’idea di cinema così estrema come quella di Terrence Malick è impossibile rimanere indifferenti. Il percorso intrapreso dal regista texano a partire da The Tree of Life, che gli è valso la Palma d’oro a Cannes, ha fissato le “regole” su cui si sono basate entrambe le sue opere successive e dalle quali gli è ormai impossibile tornare indietro: la macchina da presa che fluttua quasi fosse priva di gravità, i personaggi che si muovono nello spazio come fantasmi, la musica classica e le voci fuori campo appena sussurrate, ma soprattutto il far procedere la narrazione abbandonando una concezione lineare di spazio e tempo, veicolando il messaggio quasi esclusivamente attraverso il potere evocativo delle immagini.
Knight of Cups, presentato in concorso alla 65ª Berlinale, arriva come terzo tassello di un discorso iniziato con il già citato The Tree of Life e proseguito con To the Wonder, grazie al quale Malick compie un ulteriore passo verso l’abbandono di uno stile di narrazione classico in favore di una struttura che assume le fattezze di un percorso mentale del regista: girato senza una sceneggiatura, il nuovo film del misterioso regista segna quindi una nuova sperimentazione verso un modo di concepire il cinema come una materia informe e rarefatta, in cui lo spettatore deve abbandonarsi, lasciandosi travolgere dalle emozioni che le immagini riescono a suscitare in lui.
Il protagonista del film è Rick (Christian Bale), un attore hollywoodiano sull’onda del successo che vive ogni relazione e ogni situazione senza riuscire mai a trovare una propria dimensione, e che si ritrova a vagare, quasi fosse un fantasma, per una Los Angeles che gli si manifesta come un ambiente alieno ed indecifrabile nel quale è imprigionato. La continua ricerca di un luogo (sia esso fisico, mentale o rappresentato da un’altra persona) in cui sentirsi a casa viene ricreata da Malick attraverso una frammentarietà visiva e concettuale che non vuole dare punti di riferimento a cui lo spettatore può appigliarsi, quasi a voler obbligare il pubblico a entrare in sintonia totale con lo smarrimento del protagonista. Ecco che però, adottando questo andamento non lineare, Knight of Cups pretende dallo spettatore lo sforzo di ragionare su ciò che vede, riempiendo di significato ogni inquadratura ed effettuando un ragionamento stimolato dal potere delle immagini che gli scorrono davanti.
Se rapportata a The Tree of Life e To the Wonder, la nuova opera malickiana rischia di apparire una semplice reiterazione di situazioni e tematiche già presenti, e abbondantemente affrontate, nei precedenti due film, facendo ipotizzare che il regista texano non abbia più nulla da dire. L’ossessiva ripetizione di immagini, incontri e luoghi – già viste negli altri film, ma riproposte più volte anche all’interno di Knight of Cups stesso – sembrerebbero in effetti confermare la mancanza di argomenti e temi nuovi da trattare. Concentrandosi però su ciò che il film aspira a trasmettere – lo spaesamento e la ricerca di se stessi – ci si rende conto che la ripetizione maniacale di ogni gesto e ogni elemento è strettamente correlata al tema trattato dal film, sia da un punto di vista ideologico che da un punto di vista formale. Ecco quindi che in questo caso lo stile esagerato ed estremo di Malick sembra adattarsi perfettamente a ciò che vuole trasmettere, puntando all’astrazione più totale della struttura del film per veicolare un senso di inadeguatezza e di smarrimento mai apparso più concreto. In quest’ottica, parallelamente allo spaesamento di Rick, possiamo trovare il disagio di Malick stesso, imprigionato in un’idea di cinema sperimentale che non sa più effettivamente cosa poter comunicare: così ogni ossessiva ripetizione ci appare l’ennesimo tentativo del regista di trovare lo stimolo giusto per poterci regalare qualcosa di nuovo, percorrendo nuove vie da cui noi, ancora una volta, non potremo fare altro che lasciarci trasportare.