Anche le “eccellenze” hanno il respiro corto. E non è solo colpa dei tagli ministeriali
di Daniele Lettig
È datata metà dicembre la notizia dell’ennesimo ridimensionamento di quella che ci si ostina ancora a chiamare offerta “formativa” dell’Università di Trieste (1). Sarebbe tuttavia più opportuno parlare di una “non-notizia”, vista la pressoché totale assenza di qualsivoglia reazione, salvo qualche voce sporadica che già si era alzata negli anni passati: sempre troppo pochi e sempre i soliti.
Comunque, se si spulcia nei database ministeriali i dati che si riferiscono all’ultimo decennio (2), in tutto il sistema universitario italiano ciò che balza all’occhio immediatamente è una graduale crescita degli iscritti contrapposta a un progressivo calo del personale, segno di una costante opera di disinvestimento. Non è una situazione che riguarda solo Trieste, quindi, ed è frutto delle politiche perseguite con continuità da ministri e dirigenti di ogni colore (provenienti sia dalla politica sia dall’accademia, come gli ultimi due, Profumo e Carrozza) da almeno tre lustri. Si può scorgere in questo lasso di tempo un progressivo impoverimento sia delle risorse economiche che garantiscono il funzionamento dell’istituzione, che della funzione di didattica e ricerca che l’Università dovrebbe svolgere. Il depauperamento di soldi e di significato è stato scandito inoltre da un passaggio fondamentale: la legge di riforma cosiddetta del “3 + 2” (3), che recepiva le direttive del “Processo di Bologna” e le applicava al sistema universitario italiano (4).
Sia la fase di euforia seguita all’introduzione del nuovo regime (segnata da moltiplicazione di corsi, cattedre e sedi distaccate (5)), sia le violente contrazioni dovute alle successive modifiche legislative (6) non sono riuscite (non sta a noi stabilire se per dolo o per incompetenza) ad aggredire i veri problemi che affliggono da tempo immemorabile l’Università italiana e che ci limitiamo ad elencare sommariamente: organizzazione e gestione dei concorsi al fine di evitare favoritismi e opacità di vario genere; modifiche mirate agli ordinamenti per evitare di fornire una formazione troppo teorica; garanzie sul tema del diritto allo studio (borse per i migliori e i meritevoli, case dello studente); investimenti in ricerca con gli ovvi – rigorosi – controlli per evitare, anche qui, opacità; lotta ai “baronati” di ogni tipo (a cui gran parte delle anomalie sono per qualche verso legate). Gli unici atti concreti sono consistiti in continui tagli di fondi sepolti sotto la maschera della riorganizzazione degli organi di governo e di attività degli Atenei. Non si è invece neppure tentato di incidere sul modo in cui tali risorse vengono adoperate (7), per venire incontro alle esigenze degli studenti e porre qualche rimedio alle criticità di cui sopra. Il risultato sotto gli occhi di tutti è la svalutazione del ruolo dell’Università e più concretamente del servizio che essa svolge o dovrebbe svolgere nei confronti dei suoi utenti e della collettività nel suo insieme.
A Trieste
Per quanto concerne l’ateneo triestino, il numero di iscritti è passato dai 14.170 del 2004/05 ai 17.010 del 2012/13; il personale docente, invece, è passato dalle 954 unità del 31/12/2003 alle 694 del 31/12/2012. Il dato indica chiaramente la perdita di qualità dell’offerta formativa: se gli studenti aumentano, i docenti e i corsi calano (e chiudono). La diminuzione degli insegnanti va imputata senza dubbio al continuo calo della dotazione economica, che consente di coprire solo in parte i vuoti di organico che si creano con i pensionamenti. Il tutto è stato ulteriormente complicato dal famigerato “tetto del 90%” imposto dalla riforma Gelmini. Esso prescrive che un’Università che spende più del 90 per cento del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) per pagare il personale venga definita “non virtuosa”, e le vengano ulteriormente decurtati i finanziamenti: un serpente che si morde la coda. E guardando ai bilanci (8), negli ultimi anni la nostra Università è sempre stata a cavallo di questa percentuale, con lievi oscillazioni al di sopra e al di sotto (e relative polemiche da parte dell’ex Rettore Peroni sulle modalità di conteggio del Ministero). In generale dunque la possibilità di nuove assunzioni per riparare almeno in parte alle uscite dei docenti è estremamente limitata e difficoltosa. Nel riflettere su questa situazione occorre evitare un errore: non bisogna infatti pensare che tutta la colpa sia dei tagli dei vari governi e che ci si debba rassegnare e basta. A mio modesto avviso c’è un altro aspetto che bisogna tenere in considerazione, ovvero le scelte che sono state compiute dagli organi direttivi dell’Università negli ultimi anni. Chiaramente, i vincoli imposti dal centro sono stati fortissimi e tali da mettere in difficoltà l’intero sistema. Tuttavia, dato che le scelte sul modo in cui gestire l’istituzione con meno soldi vengono prese in loco, occorre purtroppo constatare che a tutti i livelli (Consigli di Facoltà, di Dipartimento, Senato Accademico, Consiglio d’Amministrazione) si è sempre proceduto navigando a vista e preoccupandosi ben poco del futuro. Provvedimenti presi per tappare falle momentanee e far apparire la situazione migliore di quanto fosse, senza alcuna preoccupazione per l’ultima ruota del carro – gli studenti – ci hanno condotto a questo punto.
Impoverimento dell’offerta formativa
Dal punto di vista degli studenti, l’evidenza più immediata di questo stato di cose è l’impoverimento delle possibilità di scelta dei percorsi di studio, nonché delle altre agevolazioni (9). Abbiamo assistito a continue rimodulazioni e accorpamenti di strutture – il più delle volte decisi con occhio attento soltanto alla parte economica e mai a quella didattica (il caso dell’unione di Giurisprudenza e Scuola Interpreti ci pare emblematico) – , di corsi di laurea, di differenti ambiti di insegnamento, o ancora alla costruzione di corsi interateneo con criteri discutibili, come avvenuto con le magistrali dell’ex Facoltà di Lettere. Tutto ciò implica, come è ovvio, un calo dell’attrattiva dell’Università: viene a mancare la possibilità di scelta, i percorsi sono sempre più irregimentati, molti corsi non si sa fino all’ultimo (e talvolta anche oltre) se partiranno, affidati come sono con contratti ridicoli a persone senza alcuna certezza sul proprio futuro (e che però contribuiscono a tutti gli effetti a far campare l’istituzione). In definitiva, si instaura un circolo vizioso: meno fondi, riorganizzazioni dovute al calo degli insegnamenti, perdita di qualità della formazione.
Prendendo l’esempio dell’ex Facoltà di Lettere e Filosofia (per pura comodità, dal momento che è quella che conosco meglio avendoci studiato), se i numeri degli studenti nel complesso sono rimasti stabili (si passa dai 1.289 del 2004/05 – di cui 301 al corso di laurea in Lingue – ai 1.299 del 2012/13 – 411 a Lingue), il pensionamento e il complessivo calo dei docenti ha favorito la chiusura di corsi di studio (prima Interculturalità, poi Beni Culturali, ora Storia e Filosofia) e più recentemente la fusione di quel poco che resta con gli analoghi corsi dell’Università di Udine. A livello didattico gli effetti principali di questa operazione sono due: da un lato, secondo quanto riporta «Il Piccolo», a Trieste rimarrà un unico corso-monstre di “Lettere” al cui interno confluirà tutto quanto rimane delle altre discipline, e il corso di Lingue (quello che da sempre registra il numero maggiore di iscritti che però fa i conti con un cronica mancanza di docenti strutturati, risolta con contratti annuali). Filosofia, Storia e Lettere, la cui tradizione è molto più radicata a Trieste, sono destinate all’estinzione. D’altra parte, il mantenimento dei soli corsi magistrali – per di più in un quadro di Interateneo fallimentare sotto vari punti di vista (10) – costituisce soltanto il prodromo alla chiusura tout-court: quale studente costretto ad andare a studiare le materie umanistiche fuori regione (visto che le triennali vengono chiuse) ritornerà per iscriversi alle magistrali? Il traguardo che raggiungeremo tra pochi anni sarà perciò quello di diventare una regione humanities free.
Non solo Lettere
Non si pensi, tuttavia, a un grido d’allarme fuori tempo massimo da parte delle “solite” discipline umanistiche, inutili (“con la cultura non si mangia”, sentenziò qualche anno fa un noto Ministro dalla “r” moscia) e sempre pronte a lamentarsi. La situazione risulta critica anche volgendo l’occhio agli altri corsi di Laurea. Riprendendo «Il Piccolo» e scorrendo i dati del Ministero, anche le “punte di diamante” dell’Università triestina (Scuola Interpreti, Ingegneria, Fisica e il Dipartimento di Scienze in generale) non se la passano così bene, con prospettive nere sul futuro. La Scuola Interpreti è passata negli ultimi anni da 50 a 30 docenti, Ingegneria da 150 a 104. L’anno prossimo, secondo quanto emerge, chiuderà la triennale di Ingegneria Navale, e anche questa notizia non suscita alcuna reazione in una città (e in un territorio più largo) che si affaccia sul mare in cui si dibatte continuamente sul rilancio del porto. Anche Fisica, altra supposta eccellenza parte della filiera Università-SISSA-Sincrotrone, denuncia forti problemi a tirare avanti.
Visto tutto questo, con le “eccellenze” tanto sbandierate ridotte in tale stato, il programma del nuovo Rettore Fermeglia di far restare Trieste «una Research University, in contrapposizione ad una Teaching University», di costruire un Ateneo in cui «la ricerca di eccellenza sia coniugata ad un ottima didattica, in cui il valore ed il merito siano elementi fondamentali per progredire. Un’Università che guardi ai giovani, alla loro voglia di fare e al loro entusiasmo» (11) risulta come minimo velato da una forte vena di ottimismo mal riposto. La speranza è che almeno una parte dei suoi intenti vadano a buon fine, ma il nostro sospetto, parafrasando Antonio Gramsci, è che questa volta neppure l’ottimismo della volontà (sempre che essa sia sincera) possa far uscire l’Università di Trieste dal buco scavato in lunghi anni di miopia e disinteresse.
Per una nuova Università
Ampliando l’orizzonte, credo che l’Università italiana che si sta profilando è un’istituzione che da un lato accentua invece di correggere i propri problemi strutturali, e dall’altro è sempre meno al servizio degli utenti-studenti, specialmente quelli meritevoli ma con scarse possibilità economiche (e dunque, in questo senso, è un’istituzione classista). Per questo, proprio ora che il dibattito è assente, mi pare sia arrivato il momento di mettere in campo un pensiero alternativo sulla costruzione e la gestione del modello universitario. L’idea da mettere al centro è quella per cui l’Università debba svolgere un ruolo di formazione (e, magari, di emancipazione) per chi la frequenta, e non essere solamente un iper-Liceo (nel caso migliore) o un parcheggio per chi non sa che fare. In ogni caso, essa deve cessare di essere il luogo dello scambio di favori tra fazioni e conventicole a cui tutto interessa fuorché la formazione di persone con abilità non solo pratiche ma anche (almeno un minimo) critiche. Questa sarà la battaglia più difficile, ma occorre almeno provare ad affrontarla.
Note:
(1) “Università, pochi docenti. Arrivano i tagli di cattedra” e “Spariscono Comunicazione, Storia e Filosofia”, in «Il Piccolo», 18 dicembre 2013.
(2) I dati riguardanti le immatricolazioni, iscrizioni e il numero dei laureati negli Atenei italiani a partire dal 2004/05 sono reperibili all’indirizzo <http://anagrafe.miur.it/index.php>. Per quanto riguarda il personale (docente e amministrativo), si veda il sito http://cercauniversita.cineca.it/php5/docenti/cerca.php>.
(3) La legge di riforma che riordinava il sistema universitario italiano seguendo le indicazioni del “Processo di Bologna” fu varata dal governo Prodi su impulso del Ministro Luigi Berlinguer nel 1997, e attuata con un decreto del 1999. Con tale legge sono stati introdotti in Italia i corsi di laurea spezzati in un primo ciclo triennale e un secondo biennale (da cui l’indicazione “3+2”). Cfr. la Legge 127/1997 (artt. 17 commi 95-138), attuata dal Decreto Ministeriale 509 del 3 novembre 1999 (reperibile al sito <http://www.miur.it/0006Menu_C/0012Docume/0098Normat/2088Regola.htm>).
(4) Il cosiddetto “Processo di Bologna” (dal nome della città in cui i Ministri dell’istruzione europei firmarono la dichiarazione ufficiale del suo avvio) è l’insieme di riforme dei sistemi di istruzione superiore – in particolare universitari – iniziato nel 1999 e che mira alla creazione dello “Spazio europeo dell’istruzione superiore” (quest’ultimo è anche il nome ufficiale della dichiarazione di Bologna). Il Processo nacque dalla volontà dei governi di rendere il sistema dell’istruzione europeo più competitivo con quelli del resto del mondo. Nel concreto, per ciò che concerne l’Università l’azione più rilevante è consistita in un progressivo tentativo di armonizzazione dei sistemi dei vari Paesi, introducendo dove non c’era (come in Italia) il sistema dei cicli (triennale + magistrale) e, soprattutto, quello dei crediti formativi. Per maggiori dettagli rimando a Wikipedia, dove si trova una spiegazione esaustiva dell’intero processo e dei suoi vari aspetti (<http://it.wikipedia.org/wiki/Processo_di_Bologna#Bologna_.281999.29>), e al sito http://www.bolognaprocess.it>. In questi anni il processo e le riforme che ne sono discese e che hanno modificato l’impianto dell’Università italiana ed europea sono stati oggetto di ampio dibattito critico.
(5) Già iniziate, peraltro, con le leggi che attribuirono alle Università l’autonomia statutaria (1989), didattica (1990) e finanziaria (1993).
(6) L’ultima modifica, in ordine di tempo, dell’ordinamento universitario è quella messa in opera ai sensi della Legge 240/2010 (la cosiddetta “riforma Gelmini”), che segue da vicino il drastico taglio dei fondi e del turn over del personale imposto dalla Legge Finanziaria per il 2009 (Legge 133/2008).
(7) Se si esclude la gigantesca e anche un po’ ridicola, sotto certi aspetti, operazione-monstre di “valutazione della ricerca” (e della produttività) del personale e degli Atenei messa in campo negli ultimi anni come panacea che finalmente in modo “obiettivo” (!) potrà stabilire delle gerarchie di “merito” (parolina magica che ritorna sempre da qualche anno in qua, a mo’ di password che apre ogni porta) grazie alle quali ripartire i – pochi – soldi a disposizione. Tale opera di valutazione è stata avviata richiamandosi con enfasi ai modelli di altri Paesi (specialmente di area anglosassone) che proprio recentemente ne stanno ridiscutendo risultati e significato. Per un punto di vista critico sul tema della valutazione, rimando all’ultimo fascicolo di «aut aut» (n. 260/2013).
(8) I bilanci degli ultimi anni dell’Ateneo triestino sono reperibili alla pagina <http://www.units.it/ateneo/bilanci>.
(9) Lo scorso dicembre all’Università La Sapienza di Roma gli studenti hanno protestato, oltre che contro le politiche opache del Rettore, per l’apertura della nuova Casa dello studente, pronta da mesi e le cui stanze ancora non sono state assegnate (venendo manganellati dalle medesime forze dell’ordine che si preoccupavano, negli stessi giorni, di portare solidarietà al “movimento dei forconi”).
(10) Ne cito uno soltanto: varie persone che rientravano nei parametri ISEE dell’Università di Trieste e che quindi potevano beneficiare di Borsa di studio, e iscrittesi a Udine per i corsi interateneo, hanno scoperto a cose fatte di non godere più di questa possibilità in quanto i parametri dei due atenei non sono stati armonizzati.
(11) Il programma del Rettore Maurizio Fermeglia si trova all’indirizzo http://www.fermeglia.it>; cfr. anche il blog <http://candidatura-fermeglia.blogspot.it>.
Rettifica
Un lettore che ringrazio mi ha recentemente contattato per indicarmi delle correzioni da apportare al mio articolo Lettere addio (quasi). Il resto seguirà («Chartasporca» n. 16, Febbraio-Marzo 2014), indicandomi alcuni dati di cui non ero a conoscenza, e mi ha inoltre suggerito alcune inesattezze in cui sono incorso. Le imprecisioni che mi sono state fatte notare non stravolgono la tesi di fondo del pezzo, tuttavia è giusto renderle note ai lettori, con i quali mi scuso pubblicamente.
Riporto di seguito, per punti, le precisazioni.
1. Il numero di iscritti all’Università di Trieste riportato nel mio articolo è tratto, come indicato in nota, dall’Anagrafe Nazionale degli studenti cui si arriva di rimando dal sito internet del Ministero dell’Istruzione. Su questo database gli iscritti all’Ateneo nell’Anno Accademico 2004/2005 risultano 14.170. Se invece si va sul portale dell’Università di Trieste (alla pagina del Data Warehouse di Ateneo, accessibile solo da pc connessi alla rete intranet universitaria: l’indirizzo è http://mstrsrv1.units.it/login/dw.htm) si trovano dei numeri diversi. Secondo questi dati, il numero di iscritti nel 2004/05 risultava di circa 22.470. Lo stesso discorso vale per l’A. A. 2012/13: secondo l’Anagrafe nazionale gli iscritti erano 17.010, secondo l’Università di Trieste 18.962. Anche per il dettaglio della Facoltà di Lettere e Filosofia vi è una discrepanza: il sito del Ministero riporta 1.289 iscritti nel 2004/05 e 1.299 nel 2012/13; quello dell’Università triestina, rispettivamente 2.366 e 1.410. Dopo aver verificato tali differenze, credo sia più corretto prestare fede ai dati pubblicati dall’Università che ha materialmente iscritto gli studenti. Non so quale sia l’origine della diversità dei dati riportati dall’Anagrafe nazionale: ciò va imputato probabilmente al fatto che, come ho potuto constatare nel corso delle mie ricerche, un dato “definitivo” è assai difficile da avere in quanto spesso i singoli atenei non comunicano all’anagrafe nazionale i dati completi, oppure talvolta i calcoli non tengono conto di alcune categorie di studenti iscritti. I dati dell’Università di Trieste, comunque, seppure correggano quanto ho scritto, corroborano la tesi di fondo dell’articolo. La caduta verticale degli iscritti è infatti una conferma della progressiva perdita di appeal dei corsi e dell’istituzione universitaria nel suo complesso.
2. Il vincolo del 90% nel rapporto tra Fondo di Finanziamento ordinario (FFO) e spese per il personale è stato sostituito nel marzo 2012 da un altro parametro che viene calcolato in base alle indicazioni contenute nel Decreto Legislativo 49 del 29 marzo 2012, art. 5. L’Ateneo triestino, per ora, rispetta questo nuovo limite, il quale tuttavia continua a limitare la possibilità di nuove assunzioni.
3. Infine, alle anticipazioni del «Piccolo» che ho citato all’inizio del mio pezzo sono seguiti i fatti: due delibere, rispettivamente del Consiglio del Dipartimento di Scienze Umanistiche del 16/12/2013 e del Consiglio d’Amministrazione dell’Università di Trieste del 22/12/2013, con le quali si decreta la fusione dei corsi di Filosofia, Storia e Lettere.