di Stefano Tieri
Avreste il coraggio di affidare la vostra vita al lancio di un dado, lasciandogli il compito di decidere delle scelte che ritenete costitutive della vostra persona? E se, invece, la nostra vita fosse già in partenza determinata dal caso, e di conseguenza il “libero arbitrio” non fosse nient’altro che un’espressione linguistica?
Dire “io sono libero” è diventato, per noi, una tautologia: la nostra soggettività comporterebbe già, in quando individui occidentali del XXI secolo, la libertà di scegliere della nostra vita. Nel pronome “io” sarebbe già incluso, implicitamente, l’aggettivo “libero”. Questo l’aveva già compreso Nietzsche, che sul finire dell’Ottocento osservava come il soggetto “libero e responsabile” fosse il presupposto “sbagliato di ogni morale”.
Quasi percepisco, in chi sta iniziando la lettura, una forte contrarietà: cose che succedono, quando viene messo in discussione il presupposto stesso della propria soggettività. Se non siamo liberi, chi siamo?
Non ripercorrerò qui la storia della filosofia per determinare se, in ultimo, siamo o non siamo liberi. Cercherò invece di indagare gli effetti che la concezione dominante di “esseri liberi” ha sulla nostra percezione dell’io, e di come tali effetti si riflettono nella psiche degli individui negli anni della crisi economica. Per farlo, mi affiderò a La fatica di essere se stessi. Depressione e società di Alain Ehrenberg.
Cosa c’entra la depressione con il libero arbitrio? Come scrive Ehrenberg, la sindrome depressiva ci può suggerire qualcosa della nostra “attuale esperienza della persona, poiché è la patologia di una società in cui la norma non è più fondata sulla colpa e la disciplina, bensì sulla responsabilità e l’iniziativa”. Riguarderebbe da vicino, insomma, tanto il libero arbitrio quanto la responsabilità individuale (responsabilità nei confronti dei propri successi, ma anche dei propri fallimenti). Quali sono le ragioni e le implicazioni sociali di ciò? E in quale misura la depressione, che dal 1970 è divenuta il disturbo psichico più diffuso al mondo, è rivelatrice delle mutazioni dell’individuo nella nostra era?
Per Ehrenberg la depressione è una “malattia della responsabilità”, in cui il “malato” non si sente sufficientemente colmo d’identità. Questa diviene, infatti, preponderante quando il modello disciplinare di gestione dei comportamenti fa posto a norme che stimolano ciascuno all’iniziativa individuale.
Nelle nostre società sedicenti libere, osserva Ehrenberg:
Alla disciplina e all’obbedienza si sostituiscono l’indipendenza dalle convenzioni sociali e l’autogestione; al senso di finitezza e di destino ineluttabile l’idea che tutto è possibile; al vecchio senso di colpa borghese e alla lotta per liberarsene (Edipo), il timore di non essere all’altezza, col senso di vuoto e d’impotenza che ne risulta (Narciso). La figura del soggetto ne esce del tutto modificata. La depressione appare come l’immagine rovesciata del nuovo soggetto.
Mentre la società contemporanea, “a giudizio di molti psicoanalisti, è responsabile della svalutazione collettiva dell’Edipo, cioè del padre nella sua funzione simbolica di garante del distacco tra il bambino e la madre”, a prendere sempre più piede è il narcisismo, il quale
Non è quel liberatorio amore di sé che è uno degli incentivi alla gioia di vivere, ma è piuttosto il fatto di restare prigionieri di un’immagine talmente ideale di sé da sentirsene da ultimo paralizzati, col bisogno di essere rassicurati dagli altri circa la propria identità e con un effetto di dipendenza psicologica. Gli psicoanalisti danno un nome a quest’ideale paralizzante: «ideale dell’io».
Il sovra-investimento smisurato nei confronti dell’Io, qui tratteggiato con lungimiranza da Ehrenberg negli anni Novanta, rende in questo modo insopportabile qualsiasi frustrazione.
Nell’eclissi dell’Edipo, e nella parallela affermazione di Narciso, il contesto storico-culturale ha un’importanza capitale: la depressione diviene il disturbo psichico più diffuso al mondo poco dopo il Sessantotto, quando si afferma l’idea che ognuno sia il proprietario della propria vita e in cui si istituzionalizza, a livello sociologico, l’individuo sovrano di se stesso. Al tempo stesso si eclissa la nozione di interdetto: viene meno il concetto di limite, con tutte le conseguenze del caso, anche a livello psicologico. Chi pensa, a questo punto, che il problema risieda nella negazione del principio d’autorità, provi a focalizzare l’attenzione su quella particolare autorità (un certo modo di intendere l’io) che ha spodestato l’autorità paterna, prendendone il posto: la “funzione” è infatti rimasta la stessa, e dal dio-padrone si è semplicemente passati a un io-padrone, forse ancora più spietato del primo, perché maggiormente in grado di piegare quel dominato che è – in ultimo – il dominante stesso.
E oggi? Gli ultimi dati pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sono sconcertanti: sono 322 milioni le persone al mondo a soffrire di depressione, cresciute di quasi il 20% nell’ultimo decennio, in un problema che ormai riguarda tutte le latitudini del pianeta. Rispetto al 1970 la nostra situazione è, in parte, differente: se da una parte la spinta a diventare “imprenditori di se stessi” è più forte che mai, ed è fortemente produttrice di soggettività; dall’altra le possibilità effettive di realizzazione individuale – specie per le giovani generazioni – sono molto più ridotte, complice la particolare congiuntura economica. Per essere vincenti bisogna affermare il proprio sé a discapito degli altri, ma lo spazio è sempre più limitato e sempre meno persone riescono ad “affermarsi”. Ecco spiegata la depressione, ecco l’individuo “in panne”, stanco e affaticato dalla vita. Ecco l’ansia da prestazione, effetto diretto del culto della performance.
Cosa significa essere “imprenditori di se stessi”? Non solo che si è padroni della propria vita, ma anche che l’azione del singolo, decisiva per l’amministrazione e potenziamento di quel sé, viene “individualizzata”: “fa capo a un soggetto, che la effettua e ne è l’unico responsabile. Oggi è l’iniziativa individuale il primo parametro di valutazione del valore di una persona”.
Mentre dovremmo interrogarci, nietzscheanamente, sul valore di questi “valori”, il parametro per valutare una persona diventa il suo successo lavorativo: questo è l’effetto dell’ideologia imprenditoriale che soggiace alle nostre esistenze e che contribuisce a formare l’immagine “ideale” del nostro io. Alla pressante domanda sulla propria identità, si finisce così col rispondere nel modo socialmente più consono e abituale – io sono il mio lavoro.
Immedesimiamoci in un ventenne appena uscito dal liceo o dall’università, costretto per mesi a mendicare un’occupazione, sempre più spesso precaria. Siamo dinanzi a una identità a tempo? O piuttosto alla fissazione dell’identità sul precariato? L’effetto si può facilmente immaginare: una sensazione di colpevolezza tende a gravare sul “fallito”, responsabile della propria (s)fortuna. Il soggetto, in questi casi, viene infatti descritto come incapace di essere sufficientemente “imprenditore di sé”, non all’altezza delle sterminate potenzialità dell’individuo neo-liberale, cui tutto – dopo la liberazione dagli stretti lacci della morale – sarebbe potenzialmente concesso.
L’uomo dei dadi
L’articolo è iniziato con una domanda: “avreste il coraggio di affidare la vostra vita al lancio di un dado?” È ciò che fa il protagonista del romanzo L’uomo dei dadi di Luke Rhinehart, uno psicoanalista trentenne, che conduce una vita tranquilla e monotona, nella quale è possibile ritrovare alcuni dei caratteri dell’uomo “in panne” a causa della depressione: non riesce a scrivere, a fare ricerca, ed è continuamente gravato dal confronto col brillante collega Jack. Tutto questo cambierà non appena Luke affiderà al dado il compito di decidere della propria esistenza. Ma perché prendersela tanto con l’ego? Lo si può intendere andando a leggersi un dialogo tra Luke e il dottor Mann, un eminente psichiatra:
«Se io non fossi un io coerente, un goloso a tavola, un trasandato nel vestire, un mite nel parlare e non fossi rigidamente devoto alla psicoanalisi, al successo, alla pubblicazione – sempre in assoluta coerenza – non avrei mai concluso niente e cosa sarei?»
Non risposi.
«Se qualche volta fumassi in un modo» continuò «qualche volta in un altro, qualche volta per niente, se avessi variato il modo di vestirmi e se fossi stato nervoso, sereno, ambizioso, pigro, avido, lussurioso, ascetico… dove sarebbe il mio io? Cosa avrei concluso? È il modo che un uomo sceglie per limitarsi che determina il suo carattere. Un uomo senza abitudini, coerenza, ridondanza – e quindi noia – non è umano. È pazzo»
«E accettare queste limitazioni auto-distruttive sarebbe sanità mentale?», dissi.
Dopo la conversazione, Luke volta le spalle al suo vecchio “io” con un gesto simbolico: prende il ritratto di Freud e lo gira con la faccia rivolta verso la parete. Il giorno seguente, quando la moglie gli chiederà cosa fosse successo al quadro, le risponderà che dev’essere stata lei la sera prima, quand’era ubriaca: “un rifiuto simbolico di me e dei miei colleghi”, dirà. In realtà è lui che, con quel gesto, ha rifiutato al tempo stesso il suo vecchio “io” e la “vecchia” psicoanalisi. Ne proporrà una nuova incentrata sulla “terapia del dado”, che sperimenterà – oltre che su di sé – direttamente sui pazienti. A segnare il punto di non ritorno nella vita di Luke è la decisione di violentare la propria vicina di casa nel caso in cui il dado, rimasto nascosto sotto a una carta, avesse segnato l’uno.
Lo stupro era stato alla mia portata per anni, decenni addirittura, ma era stato realizzabile solo quando avevo smesso di chiedermi se fosse possibile, o prudente, o persino desiderabile e, senza premeditazione, lo avevo fatto, sentendomi un fantoccio in balia di una forza esterna a me, una creatura degli dèi – i dadi – piuttosto che un agente responsabile. La probabilità che sul dado ci fosse un uno era solo di uno a sei. La probabilità che il dado fosse lì sotto la carta, forse di uno su un milione. Il mio stupro era stato ovviamente dettato dal fato. Innocente.
Ecco l’effetto più evidente del farsi determinare dal caso: la de-responsabilizzazione, l’uscita dalla dimensione gregaria e morale, la fine del senso di colpa. La questione non è però così semplice come potrebbe sembrare a una prima occhiata: se da una parte è infatti Luke a chinarsi alla volontà del dado, dall’altra è lui stesso a dettare le opzioni possibili, ed è sempre Luke ad aver deciso – a monte – di seguire la strada che il dado gli avrebbe indicato. Si tratta, piuttosto, di una dissimulazione nei confronti di se stessi, dove quel che si nasconde è la propria volontà, le cui tracce però permangono. Quel che scompare (quel che in fondo è importante scompaia), stando alla finzione romanzesca di Rhinehart, sono gli effetti che una simile volontà hanno sui fallimenti dell’individuo, ovvero la depressione: quando Luke inizia la “vita dei dadi” si sente come rinato e, anche nei momenti di difficoltà, l’entusiasmo per la vita non lo abbandona. Eppure – mi dirà il lettore del romanzo – la vita sperimentata da Luke è tutta incentrata sul fallimento, sulla sconfitta. Un paradosso?
Come il guscio della tartaruga, il senso dell’“io” serve da scudo contro gli stimoli e da fardello che limita la mobilità in zone potenzialmente pericolose. […] gli adulti insistono sul guscio di un io coerente per sé e per i loro bambini e considerano le tartarughe delle amiche […]. Se un uomo può contare sulla coerenza, può permettersi di non notare più la gente dopo le prime volte. Ma immaginate un mondo dove ogni individuo può in un dato momento recitare la parte dell’amante, del benefattore, del parassita, dell’aggressivo, dell’amico; una volta conosciuto sotto una di queste vesti, il giorno dopo potrebbe essere qualunque altra cosa. Presteremmo attenzione a questa persona? Sarebbe noiosa la vita? Sarebbe vivibile la vita?
Vidi allora chiaramente, per la prima volta, che la paura del fallimento ci fa rimanere rannicchiati nella grotta dell’io – un gruppo di comportamenti che siamo riusciti a padroneggiare e che non abbiamo intenzione di abbandonare rischiando il fallimento.
La vita di Luke è incentrata sulla sconfitta – la quale però è ricercata e “voluta”: in tal senso, non possiamo parlare di una sconfitta ma di una vittoria. Il gioco dei dadi assume l’aspetto di un “gioco a perdere”, dove la “vittoria” si raggiunge totalizzando meno punti possibili. Luke, insomma, sottrae punti a una soggettività primariamente intesa come incremento della propria potenza, incanalata in un’unica direzione il cui unico senso percorribile è l’avanzamento – pena la depressione. Una soggettività in cui nessuno stallo è tollerato, né tantomeno la sconfitta.
Il protagonista del romanzo ci suggerisce di sottrarre punti a questa soggettività, per scoprire cosa? Che c’è un guadagno nella perdita? E che la perdita è sempre perdita di un certo modo di concepire il sé? O forse che per essere radicalmente indisciplinati bisogna passare attraverso la più ferrea disciplina (quella dei dadi)? Lascerò queste domande aperte, come aperto rimane d’altra parte il romanzo, che si conclude con la frase “«Sono”, senza alcun segno di punteggiatura finale.