di Francesca Ruina
La poesia di Chandra Livia Candiani è uno “strappo da cui colano le parole”, una ferita che sanguina bellezza, uno squarcio di tremenda e dolcissima umanità.
“Come una piuma che accoltella la mano”, le parole di Livia cadono sul foglio, pesanti come un urlo senza voce, leggere come un sogno appena immaginato. Sono partenze non partite, scali senza stazione, arrivi impossibili in destinazioni inesistenti. Sono crepe, sono pieghe, sono resti. Sono, semplicemente sono.
Leggere La bambina pugile ovvero La precisione dell’amore – raccolta uscita per Einaudi nel 2014 – è come ritrovarsi a un tratto piccoli piccoli, con i pugni serrati davanti a un altro sempre troppo grande. Guardarlo fisso per non crollare e con un filo di voce senza nome, con la forza della “briciolitudine”, chiedergli di restare: “se non ti tengo, avvolgiti le dita di luce, fai il pugno, tu resta”. Tu resta, anche se non so tenerti, sembra dire. Forse l’altro non può mai essere tenuto, può solo scegliere di restare, nonostante – che forse si può restare solo “nonostante” – medicando ferite e lasciandole aperte, come scrive in una poesia della sezione del libro intitolata, per l’appunto, “la precisione dell’amore”.
Non l’amore osannato e idealizzato dei poeti romantici, ma “lo sbriciolio della parola amore, il suo crepitare”, il suo essere piccolo e muto, il suo avere “braccia che sbucciano il buio per farmi tana”. Tana, cuccia, guscio, sono termini ricorrenti nelle poesie della Candiani. Aneliti di un riparo impossibile, di un tetto che subito vola via, di un cammino che non può arrestarsi – per “andare nella crepa”, per “segnare i bordi del giaciglio tra le mine”.
La precisione dell’amore come forma di resistenza, come presenza nell’assenza – nell’inevitabile assenza. Non vuoto da colmare, non tappo ideale che satura un’ineliminabile mancanza, ma “desiderio d’essere accanto”.
“Ti penso come si inciampa”, scrive, “e straripo nel mondo, lo annuncio e lo esigo perché ci faccia incontro”. Un incontro che si fa e ci fa, un nome proprio scovato negli interstizi del rapporto con l’altro. Un altro indefinito che popola le poesie della Candiani, sia quando c’è che quando manca. Un altro silenzioso, mai qui e mai altrove.
“Solo il corpo è patria e dimora di noi spiumati e senza casa”, viandanti-bambini, questuanti col pugno alzato, che chiedono e stringono un abbraccio in un universo senza centro. Aprirsi, con i gesti lenti e impacciati di chi non sa come si fa, per poi svanire “nello spazio di carità tra te e l’altro”.
Non una fusione, dunque, ma un lento avvicinarsi che rispetti e accarezzi quello spazio di carità, quell’essere due anche se insieme, per non “lasciar cadere la propria narrazione per la bronchite di qualcun altro”.
Quello di Chandra Livia Candiani è un linguaggio leggero, dolce, sospeso. Le parole sembrano scapparle dalla voce, ascendere verso luoghi lontani e impalpabili. Al tempo stesso, però, sono qui, vicino al lettore, attaccate agli oggetti quotidiani, uno sguardo delle cose sulle cose. Come quello con cui Antonia Pozzi guardava la natura, o Marina Cvetaeva cantava e scusava l’amore. Parole precise, materiche, ma anche immagini oniriche, opache e senza bordi, à la Alejandra Pizarnik. Parole che si fanno suono, ossimori vitali che squarciano il silenzio, crepe che si allargano.
“Dammi un ascolto che precipita – parola”, “ti consegno la mia balbuzie perché tu la dica”. Perché tu, parola, dica la mia fragilità, quella che non so dire, proprio perché mia, proprio perché mi incide e mi co-incide. La parola come “nuda guerra” e “notturna disciplina” che “veglia sulla mia mutezza”. La parola come un pezzo staccato cui consegnare il tremolìo del proprio nome.
O la pluralità dei propri nomi. Come “Chandra”, la lunare traccia indiana che Livia si porta dietro, che la scrive, che scrive di e con lei. L’incontro col buddhismo – dall’India degli anni Ottanta ai ritiri spirituali in Europa e America – è l’incontro con il proprio altro, un’accoglienza di se stessi, non un dogma, non una fede. È una perdita della rigidità dei propri confini affinché sia possibile una scrittura del sé, una ricerca quasi infantile di quella “briciolitudine” che caratterizza, sopra ogni altra cosa, le opere della Candiani.
“Vivo un mondo di millimetri”, scrive. Un mondo la cui enormità sembra vista con gli occhi di un bambino che mette un piede dopo l’altro e parte, nell’arco di un isolato, ad esplorare il globo. Ogni sassolino è una montagna, ogni pozzanghera il mare. Anche “sempre è un fatto di secondi. Moltissimi. Tanti da non contare”. L’eternità del qui e ora, del sempiterno presente dell’infanzia, in cui semplicemente si sta, senza chiedersi dove si è, da dove si arriva, dove si va. Indifesi.
Indifesi come i bambini che Livia incontra nelle scuole periferiche di Milano. Bambini-scarto, spesso figli di migranti, per i quali la poesia diventa un’occasione di avere una voce, di scrivere un pezzetto della propria storia. Una pagina di libertà, un inciampo, uno scarabocchio titubante che diventa speranza, sorriso, possibilità. Tentativo di essere e di esser-ci, di esistere e di resistere. L’abbraccio tra la poesia e l’infanzia, tra il pugno e la carezza, tra la bambina pugile e la precisione dell’amore.
Certe mattine
al risveglio
c’è una bambina pugile
nello specchio,
i segni della lotta
sotto gli occhi
e agli angoli della bocca,
la ferocia della ferita
nello sguardo.
Ha lottato tutta la notte
con la notte,
un peso piuma
e un trasparente gigante
un macigno scagliato
verso l’alto
e un filo d’erba impassibile
che lo aspetta
a pugni alzati:
come sono soli gli adulti.
Come se ne stanno eretti nei loro egotismi individuali, brandendo verità assolute al posto delle spade di cartone con cui infilzare draghi invisibili. Come se ne stanno tristi a fissare sassolini che sono soltanto sassolini, pozzanghere in cui non sanno scorgere che acqua sporca.
A questo serve la poesia. A non capirci niente, a non avere paura di essere fatti di frammenti, ad andarsene, a restare. A inciampare, a piangere, a sorridere. A stare sui bordi. A seminare “il grazie più piccolo che c’è”.
Amo il bianco tra le parole,
il loro margine ardente,
amo quando taci
e quando riprendi a parlare,
amo la parola che spunta
solitaria
sullo specchio buio del vocabolario,
e quando sborda, va alla deriva
con deciso smarrimento,
quando si oscura
e quando si spezza,
si fa ombra.
Quando veste il mondo,
quando lo rivela,
quando fa mappa,
quando fa destino.
Amo quando è imminente
e quando si schianta,
quando è straniera,
quando straniera sono io
nella sua ipotetica terra,
amo quello che resta,
dopo la parola detta,
non detta. E quando è proibita
e pronunciata lo stesso,
quando si cerca e si vela,
quando si sposa
e quando è realtà di muri
limite che incaglia al suolo,
quando scorre candida
e corre per prima a bere,
e quando preme alla gola,
spinge all’aperto,
quando è presa a prestito,
quando mi impresta al discorso
dell’altro, quando mi abbandona.
Non voglio una parola di troppo,
voglio un silenzio a dirotto,
non un commercio tra mutezza e voce,
ma una breccia,
una spaccatura che allarga luce,
una pista delle scosse.
Dammi un ascolto che precipita –
parola.
Che nasce.