di Lilli Goriup
È cavità di donna che crea il mondo, veglia sul tempo lo protegge
Contiene membro d’uomo che s’alza e spinge, insoddisfatto poi distrugge
Consorzio Suonatori Indipendenti, Del mondo
Con il caldo spesso le cronache languono ma poi ci pensano i delitti estivi a rinverdirle. Sarebbe meglio dire ad annerirle. Le notizie di violenze contro le donne sono pressoché quotidiane e in questo periodo sembrano avere ancora più rilievo. Dietro il mero (o preteso tale) resoconto dei fatti si celano dinamiche strutturali alla società, che vale la pena di soffermarsi ad analizzare. Al ritorno del maschilismo L’Espresso non solo ha dedicato una recente copertina, ma quest’ultima ha scatenato diverse reazioni. Una coincidenza?
Prendiamo in considerazione due episodi in particolare, di cui uno fatale, avvenuti nel giro di una settimana in Friuli Venezia Giulia e divenuti rapidamente casi nazionali. Le analogie si fermano qui: se il primo ha scatenato da parte dell’opinione pubblica la condanna più netta, nel secondo caso il discorso mediatico sembra quasi voler attenuare le responsabilità del carnefice, insinuando una certa corresponsabilità da parte della vittima. E, guarda caso, la prima violenza è stata commessa da stranieri, la seconda da un italiano.
Ci riferiamo in primo luogo alla notizia, uscita il 27 luglio, che tre profughi ospiti delle strutture di accoglienza di Trieste sono stati arrestati per ripetute violenze sessuali ai danni di una minorenne (di 14 anni, si è detto inizialmente, che poi si sono rivelati 12). In secondo luogo trattiamo il femminicidio di Palmanova (avvenuto in realtà sul greto del fiume Tagliamento), commesso da Francesco Mazzega ai danni della propria fidanzata la notte tra il 31 luglio e il 1 agosto. Nessuna violenza è giustificabile, nessuna vittima deve essere strumentalizzata: questo il presupposto da cui iniziamo a pensare, ancora troppo spesso assodato solo a parole. Il discorso pubblico nasconde pregiudizi e motivi di propaganda che si consumano sulla pelle delle donne. Ragione in più per provare a smontarlo.
Due pesi, due retoriche. Ovvero: la retorica del “raptus” e quella dello scontro di civiltà, come avremo modo di vedere. Ma andiamo con ordine. È del 4 agosto [oggi per chi scrive] l’annuncio che i presidi della polizia, istituiti due giorni prima per controllare le zone di Trieste ritenute “sensibili”, saranno resi giornalieri. Dal 27 luglio le reazioni sono state le più disparate: “Oggi viviamo un’emergenza che si chiama immigrazione, terrorismo oltre alla criminalità”, ha fatto sapere il Sindacato autonomo di polizia (Sap) tramite un comunicato stampa. Il centrodestra triestino ha improvvisato una manifestazione di piazza e, per l’occasione, si è scomodata pure Giorgia Meloni: “Tre bastardi finti profughi, mantenuti con i soldi degli italiani – ha scritto su Facebook – hanno violentato a Trieste una ragazzina (…). Basta immigrazione incontrollata, basta con la presa in giro dei clandestini spacciati per profughi. Vediamo quanto tempo gli incompetenti del governo ci mettono a fare il benedetto blocco navale che chiediamo da anni”.
Non è compito di scrive, bensì di chi legge, commentare simili posizioni. Qui ci interessa invece metterle a confronto con la discorsività pubblica generata dall’assassinio di Nadia Orlando per mano del suo compagno. Passiamo in rassegna alcuni stralci del Messaggero Veneto, che da giorni sta dedicando ampio spazio non solo all’accaduto ma anche al suo commento. Titola: Tutto in una notte: così si è perduto il ragazzo-modello e sotto, in calce: Muzzana ricorda Francesco come una persona esemplare. I genitori distrutti: “Scusate, non vogliamo parlare”. In un altro articolo sono fatti parlare gli zii dell’assassino: “Una famiglia tanto credente, un gesto inspiegabile”. E ancora: “È un bravissimo ragazzo, tranquillissimo, laureato, non ha mai dato un problema (…) Avevo conosciuto anche la ragazza, ce l’aveva presentata, erano felici. Una coppia normale”. Sulla “coppia normale” ci troviamo macabramente d’accordo; su “erano felici” ci permettiamo di dubitare.
Altrove il Messaggero scrive che “Francesco voleva chiarire” come prima frase dell’articolo: qualunque giornalista dovrebbe sapere che è quella a determinarne il senso agli occhi del lettore. Poi mette, come chiusura, una citazione attribuita alle forze dell’ordine:
“Probabilmente – ha riferito Ortolan – quell’incompatibilità dovuta a una differenza d’età così importante potrebbe aver portato a un’accesa discussione. Lui potrebbe avere subìto questa situazione, mal digerita e aver accumulato nel tempo la rabbia. Se poi ci mettiamo vicino la gelosia e magari la possessività da una parte, e la voglia di essere liberi dall’altra, possiamo capire come si sia arrivati al diverbio”. E, quindi, alla molla del folle gesto.
A tutto ciò si aggiunge la scelta di dare grande visibilità all’ipotesi di un tradimento da parte della vittima, smentita dai legali di lei. L’assassino intanto si dispera pentito. Ecco spiegato il malinteso: lui l’ha fatto perché pensava di avere le corna, povero. Ricorda vagamente quel “Signora, ha goduto?” che un poliziotto avrebbe chiesto a Franca Rame durante l’interrogatorio per lo stupro da lei subito. Quel sospetto di tradimento unito a quella “voglia di essere liberi” che la vittima avrebbe avuto, stando al testo, assomiglia inoltre all’insinuazione che lei fosse una poco di buono. Se l’è cercata, insomma…
“È stato un raptus”. Oppure “una tragedia” o, ancora, “il gesto di un folle” che dir si voglia. No: si è trattato, nel caso di Nadia Orlando come in tanti altri, di una violenza ai danni di una donna in quanto donna. Il raptus in questo senso non esiste. E il motivo è semplice: “Ha mai sentito dire di qualcuno colto da raptus che ha assalito un uomo grande e grosso?”. A porre retoricamente la questione al Corriere della sera e poi ad Adkronos non è una radicale femminista bensì Paolo Mencacci, medico psichiatra ed ex presidente della Società italiana di psichiatria. Stando al Dizionario online del Corriere il raptus sarebbe un “impulso improvviso e incontrollabile perlopiù violento”. Una definizione che secondo Mencacci non trova spazio nella psicologia di chi agisce violenza. A smentire la tesi dell’improvviso episodio di follia contribuiscono altri due fattori: i numeri e la teoria del ciclo della violenza.
Mencacci ha detto al Corriere che
Sotto il cappello del raptus, o alcune volte della follia, si mette la violenza inaudita, quella imprevista, impulsiva. E non si considera mai che, guarda caso, quella violenza ha come oggetto i più fragili, i deboli, le persone indifese e quindi le più esposte.
L’idea del raptus dunque
Serve molto a chi fa le perizie per giustificare le azioni di grande violenza e attenuare la gravità del fatto e la colpa di chi le commette. Servirebbe invece un impegno culturale e civile perché questo non succedesse.
Al parere dell’esperto aggiungiamo due dati. Il primo è numerico: in Italia i femminicidi costituiscono un fenomeno costante. A essi si sommano le violenze di genere che non hanno esito letale: sono circa 120 le donne uccise ogni anno dai propri partner; 7 milioni quelle che hanno subito almeno una forma di abuso nella vita. Qui l’indagine dell’Espresso e qui quella dell’Ansa. Tanti “raptus” vanno a formare un fenomeno endemico e pertanto cessano di essere episodi isolati.
Il secondo argomento contro il raptus è apportato dalla teoria del ciclo o spirale della violenza. Secondo quest’ultima, la violenza che l’uomo agisce contro la “propria” donna è sempre graduale e mai improvvisa. Essa procede per fasi: si inizia con un banale diverbio. L’uomo, percependo che la donna non è disposta a cedere, perde il controllo sulla situazione e quindi su se stesso. Può partire con un insulto pesante, con uno schiaffo o rompendo degli oggetti. Dopo aver sopraffatto la situazione con la violenza si scusa e si sente in colpa. Si passa così allo stadio della “luna di miele” in cui si comporta da principe azzurro. Ma anche il pentimento e il conseguente cambiamento fanno parte del cliché: dureranno fino all’alterco successivo, quando il ciclo ricomincerà. E a ogni ripetizione la violenza aumenterà fino ad arrivare, come avviene in molti casi, all’omicidio. Ecco il link allo schema, chiaro e sintetico, realizzato dalla Casa delle donne di Jesi. Ma la letteratura a riguardo è sterminata: basti una ricerca online a dimostrarlo.
“Difendiamo le nostre donne”. Difendetele in primis da voi stessi, se proprio ci tenete. E comunque non sono vostre: che ciò valga ovunque. È quello che verrebbe da rispondere a un certo tipo di retorica, dopo aver constatato che la maggior parte delle violenze contro le donne avviene tra le mura domestiche. Su scala globale: lo dimostra un recente studio dell’Organizzazione mondiale della sanità. Il discorso pubblico che traccia in questo senso una linea di demarcazione netta tra “noi” e “loro”, tra cittadini e stranieri, si lava la coscienza collettiva con una mano, e tende l’altra alla xenofobia e al razzismo. Il tutto sulla pelle delle donne.
Stando al report dell’Oms, il 35% delle donne nel mondo ha subito almeno un episodio di violenza fisica o sessuale. Di queste violenze, la maggior parte è stata inflitta dal partner. Il 30% delle donne che hanno avuto nella vita almeno una relazione sentimentale ha subito violenza da parte del proprio compagno o marito (in alcune regioni del mondo si arriva a picchi del 38%). Ancora, il 38% degli omicidi ai danni di donne sono stati commessi dal partner. Il 7% delle denunce per violenza sessuale sono rivolte contro individui diversi dal partner della donna in questione.
Le differenze regionali, per quanto riguarda la distribuzione geografica delle violenze, esistono. E non sono tali da esentare alcuna zona del mondo dal fenomeno. Secondo i dati, per le donne il posto più pericoloso dove vivere è l’Africa. Seguono il Sud est asiatico, le Americhe e il Mediterraneo orientale. L’Europa sarebbe invece l’area più sicura. Per modo di dire: qui il 27% delle donne ha subito almeno una violenza di genere, contro il 46% delle donne in Africa. Nello scarto, che pure secondo l’Oms esiste, non sembra esserci tuttavia lo spazio per uno scontro tra civiltà.
Quello dell’Oms è il primo studio su scala globale inerente la violenza sulle donne. È stato pubblicato nel 2013 e si riferisce agli anni immediatamente precedenti. È riassunto, in italiano, qui e qui. L’originale, in inglese, si scarica invece dal sito dell’Oms. Tante sarebbero le considerazioni da fare e altrettante le critiche: con che criterio sono state raggruppate le macro aree? Perché le statistiche considerano solo le ragazze dai 15 anni in su? Cos’è cambiato dal 2013 a oggi? Eccetera. Ad ogni modo i dati non sono stati diffusi da alcuni pericolosi estremisti ma proprio dall’Oms: difficilmente si potrà accusarla di un certo tipo di faziosità. Se le statistiche non sono attendibili al 100% è altrettanto improbabile che, per sommi capi, non rispecchino la realtà.
Conclusioni. Come inserire il dato geografico all’interno di un discorso che non scada nella retorica razzista dello scontro tra civiltà? Passando alla prima persona, io mi sono risposta così: esistono posti dove le donne (e non solo) hanno fatto più lotte e altri in cui ne sono state fatte di meno. La differenza è imputabile alla cultura – in senso lato, alla storia – e non a una supposta naturalità di certi caratteri. La storia, a sua volta, non è lineare ma procede per balzi e tentoni: ecco perché quello che in genere si definisce “patriarcato” in alcuni luoghi è più forte che altrove, senza che sia necessariamente sempre stato così. Questa posizione mi pare valida per due ragioni.
La prima è che demistifica la pretesa superiorità della civiltà europea e occidentale: se siamo libere è perché ci siamo liberate. Basti ricordare, en passant, alcune date simbolo della liberazione femminile in Italia: nel 1956 la Corte di cassazione ha abolito lo ius corrigendi ovvero il diritto, da parte dell’uomo, di esercitare violenza su donne e bambini a scopo “rieducativo”. Fino al 1968 la legge puniva unicamente l’adulterio femminile. Nel 1975 la riforma del diritto di famiglia ha sancito il principio della parità tra i coniugi all’interno del nucleo familiare. Bisogna aspettare il 1981 per vedere aboliti, da un lato, la possibilità del “matrimonio riparatore” per gli stupratori e, dall’altro, quella di considerare la “causa d’onore” come attenuante nei processi penali.
La seconda ragione di validità è che una prospettiva complessa permette di porsi i seguenti quesiti. Esistono delle differenze tra le culture? Sì. Le differenze sono inconciliabili? Al contrario, sono maggiori le analogie: l’oppressione ai danni delle donne, anche se con intensità diverse, accomuna l’umanità. Le differenze sono naturali e immutabili? No. Sono sempre storicizzabili. L’unico irriducibile, quando si parla di violenza sulle donne, rimane il singolo, che può scegliere di agire violenza o meno, al di là delle sue connotazioni sociologiche. Assumendo queste premesse si porrebbero le basi per costruire un discorso di sinistra in grado di levare il terreno da sotto i piedi a quel tipo di retorica populista che punta il dito contro un supposto “buonismo di sinistra”. Bisognerebbe allora ripartire dalla (ri)educazione, di tutti.