di Arturo Bandini
Il dolore dei ricchi (e delle piante)
Ricordo quando scendevo le scale, in un braccio la bambina e nell’altra il passeggino. Sabrina mi guardava giuliva, dall’alto dei suoi nove mesi di vita. Era già bella, come tutto ciò che non ha senso, né reale motivo di esistere. Con l’aria da drogato, capelli lunghi, arruffati, sguardo ascendente, vestiti casuali, scendevo in città con Sabrina in passeggino. Mentre sfilavo attraverso il grande viale sentivo gli sguardi delle persone addosso, dentro. Sguardi a metà tra disgusto e compatimento delle signore e dei giovani ricchi mi guardavano, mi tastavano, mi palpavano con gli occhi. Mi si aggrappavano alla pelle, si arrampicavano come zecche fin negli occhi, mi morivano dentro. Dicevano “ma come si permette questo drogato, questo tossico lavativo, di figliare?”.
Nel mondo di oggi, secondo i ricchi, noi poveri non dovremmo mai figliare, e così i drogati, e così tutti quelli che non sono ricchi. Solo i ricchi, i normali, dovrebbero riprodursi… cioè praticamente più nessuno.
Poi, a un certo punto, quando Sabrina aveva più o meno un anno, mi sono accorto che non tutti quegli sguardi dicevano davvero così. Diversamente da tre mesi prima avevo imparato a maneggiare perfettamente il vecchio passeggino di seconda mano, lo conducevo come il ridicolo e fiero capitano di un vecchio peschereccio. Ho cominciato istintivamente, senza motivo, a sorridere agli sguradi torvi delle vecchiette e dei giovani ricchi, a sciogliere i loro ghighi in un sorriso – ho imparato a farmi amare. Ma soprattutto, ho imparato fino a che punto sia facile, per tutti, ricchi e poveri, immaginare come provenienti dagli altri, e dal fuori, i giudizi e i rimproveri che in realtà ci risalgono da dentro come rutti o come un getto di vomito.
Lì per la prima volta ho pensato al dolore dei ricchi – mi racconta Svevo. Il dolore di tutti i ricchi che non hanno avuto figli perché hanno aspettato troppo per farne; il dolore dei ricchi che non possono crescere i propri figli dedicandogli il giusto tempo, perché strangolati da orari mutui e sogni impossibili. Il dolore dei ricchi che non possono crescere i propri figli trasmettendogli davvero qualcosa di loro stessi, perché hanno paura, di loro stessi. Ho pensato – continua Svevo – all’orrore dei ricchi quando sei povero e gli porti via una donna sotto il naso, perché sei più bello, più seducente, più vero. Perché i tuoi muscoli guizzano di vera fatica, e le tue parole sono sinuose, abituate a rabbonire, a raggirare, a invaghire capi, sbirri, mogli. Ho pensato – mi dice Svevo – alle donne, alle ragazze in tiro ma non troppo, alle ricche vere, quelle che non te lo sbattono in faccia; ho pensato a quella volta che Rasha (la mamma di Sabrina, l’ex compagna di Svevo) ha soffiato un ragazzo alla tipa ricca, perché anche lei era più divertente, più semplice, più vera. Ho pensato all’odio della ricca per la povera, l’ho visto brillare nei suoi occhi di fata; l’ho ascoltato, confessato, come in sacrestia, l’odio dell’invidia, l’odio per un mondo che non avrà mai il coraggio né la voglia di conoscere. Quando Svevo e Rasha si erano riuniti per la prima volta, Sabrina aveva appena un anno e mezzo, avevano mangiato una margherita per asporto da quattro euro su una panchina sotto la chiesa del quartiere. Si erano mancati, e lei – che aveva appena smesso di farsi – gli aveva detto: “è bellissimo essere poveri con te”, mentre le fette di pizza grondanti di olio scorrevano via veloci dal cartone, come il tempo quando ci si diverte. Ovviamente Rasha mentiva, odiava essere povera, e tanto più odiava esserlo con Svevo, … ma almeno – al momento giusto – sapeva essere romantica.
Un bel tipo Svevo, sono passati un bel po’ di anni e siamo ancora insieme, amici. Stasera vado a trovarlo, ma non usciamo, stiamo a casa a bere e a suonare, domani si lavora… lui il furgone del pane, io al supermercato. Dopo un po’ che suoniamo e beviamo Svevo tira fuori un quaderno e mi legge una vecchia pagina di diario, così, per ricordare i vecchi tempi.
Due vasi, rossi. La casa odora di muschio, e di vecchio. Su un cd di canti dei nativi americani giacciono due righe non consumate di roba. Con occhi ciechi ti cerco nel fumo di una sigaretta, tu stai correndo nella notte, qui, di fronte a me. Ladri di sogni, nel caldo tepore della roba, ti mordo un braccio. Latrati di cani, i denti entrano nella carne, cercando un tuo sussulto. Stupore. Mordevo il mio braccio, mentre il tuo seno mi guardava attonito, un cane muto incapace di avvertirmi dell’errore.
Un’ora dopo il corpo è un gelido tizzone di formiche tiepide. Non so se mi sento, ho paura di non sentirmi. Mai mischiare acidi e eroina. Ti prego, mordimi finché non mi accorgo di esistere; finché non sentirò, finché non crederò di nuovo, di essere qui. Ti guardo affondare i denti nella carne, li vedo entrare, ma ancora non sento. Poi una scarica mi arriva al cervello, non è dolore, è di nuovo stupore, questa volta però è un cane al risveglio, una confusa nuvola bianca inculata dall’aurora malata di gennaio
Cazzo Svevo, ti prego, se questo è l’inizio, non scrivere mai un’autobiografia. Svevo ci scherza su, non c’è pericolo, dice. La bottiglia di whiskey al miele è ormai è metà. Io e Svevo ci conosciamo da sempre, da quando siamo diventati quello che siamo. Un’altra bella sorsata, è dolce. Ridiamo. Svevo suona un suo pezzo alla chitarra, io lo canticchio, improvvisando una melodia, pessima come al solito. Siamo ubriachi, come mille volte siamo stati insieme. Svevo si fa semi-serio, guarda fuori dalla finestra e mi dice “Chissà cosa provano le piante quando le tagli, quando soffrono, quando sanguinano verde”. “Chissà cosa prova il ricco quando mi vede, felice, nella mia merda?”. Non è il dolore delle piante NORMALE, non è il dolore delle piante quando vivono, no. Il dolore delle piante NORMALE è il dolore agrodolce di noi poveri, il tintinnio tiepido di catene abbastanza lente da poter ballare… la sua immagine perfetta è nei volti di alcuni popoli latino-americani, o in quelli di alcuni rimasti stronzi con l’Lsd… quei volti incredibili, che al colmo della gioia si contorcono in strane geometrie di tristezza. Non è il dolore della cassiera del supermercato, con le chiappe fuse alla sedia, che si consola facendo un giretto tra gli scaffali a sistemare i nuovi arrivi. No, il dolore dei ricchi è un altra cosa, un’altra pianta, un’altra tragica normalità.
Sai – mi dice Svevo – io credo che se non fossimo così occupati a odiarli, se non fossimo così segretamente impegnati a passare le giornate a immaginarli godere, col culo bello al caldo, nei loro tristi lussi da ricchi, magari qualche volta ce ne accorgeremmo del loro muto dolore. Il dolore della pianta recisa, che si dibatte appena, in una convulsa immobilità, che non emette grida. Se solo smettessimo di pensarli come dei tiranni, se guardassimo bene nelle loro facce, nei loro occhi, nei loro ani, nelle loro vite, … se gli frugassimo bene le ascelle come quando cerchi l’odore forte della persona con cui fai l’amore, forse finalmente li vedremmo davvero…
Che sciocchezze Svevo, sei ubriaco. Svevo però prosegue la sua grottesca arringa “Ma no, niente, l’egoismo della nostra autocommiserazione ci impedisce di scorgere il loro dolore. Poveri ricchi, non appena ti sottrai a questo strano gioco, finalmente li vedi, sono tristi. Ci pensi mai, vecchio mio, a quanto soffre un ricco di non potersi buttare per strada, sul marciapiede, a dormire? Fai che stai tornando dalla discoteca, o che sei ubriaco fradicio, o semplicemente che sei stanco.. tu che fai, non ti butti a dormire dove ti capita? Ecco, lui no. Non può. Non può perché ha paura che gli freghino qualcosa, ha paura che lo uccidano per fregargli qualcosa. Avere di più lo obbliga a vivere di meno. Lo obbliga a barricarsi nelle case, lo obbliga a pagare le tasse per la polizia… quando le paga…
Ieri ho accompagnato Seba, musicista folk e operaio stagionale che non si rifà gli incisivi per tenere meglio in bocca il sigaro, in una casa di ricchi. Seba aveva comprato dai ricchi una poltrona di seconda mano, dell’Ikea, a novanta euro. Ma i maledetti figli di troia gli avevano venduto proprio quella col cuscino in pelle con un difetto di fabbrica. Seba allora era tornato in città, un viaggio di più di un ora, per farsi dare un cuscino che fosse integro (i ricchi avevano più poltrone uguali!!!). Lo sguardo da topo della ricca. La figlia, un topolino, ci apre la porta, mamma non c’è, è in ritardo. Ci tiene sull’uscio di casa come se fossimo due ladri. Ha paura. Seba sta ancora controllando che questa volta il cuscino sia integro, ma la ricca – un’avvocatessa “progressista” – ci ha già aperto la porta, attende sull’uscio con lo sguardo vuoto, freme, ci vuole fuori dalla sua proprietà.
Solo il genio di Baudealire, nello Spleen di Parigi, ha avuto il coraggio di dire, da ricco decaduto, “ammazziamo i poveri”, e per delle ottime ragioni: gli facevano pena, e senso di colpa. Peccato che noi poveri oggi non siamo più capaci di avere la stessa “compassione” per i ricchi. Non so perché sembriamo aver misteriosamente rimosso con composto ritegno l’odio, schietto e allegro, che dalla notte dei tempi proviamo per i ricchi. Una silenziosa assurda vergogna si è impossessata di noi. La vergogna di non essere loro.
Svevo delira, come al solito, ma forse in fondo ha anche un po’ ragione. In effetti – gli dico, tirandolmela un po’ e dando fondo a qualche reminiscienza universitaria – l’odio del povero per il ricco ha due facce: da un lato la grande millenaria tradizione comica, dalla commedia greca alla commedia dell’arte, fino ai film di Monicelli, in cui il povero in un modo o nell’altro vive e gode a spese del ricco. Il povero felice. Dall’altra l’odio del povero che con il ricco si identifica, che vuole prendere il suo posto: un odio recente, che in fondo non è altro che nera invidia. L’invidia del povero borghesizzato, o in procinto di borghesizzarsi. Dalla rivoluzione francese alla strage di Bronte, dall’operaio fordista al coatto che si fa il leasing per comprarsi l’auto figa, il desiderio morboso dei poveri (e dei meno ricchi) di competere coi privilegiati per il pesante e fastidioso governo del mondo, delle città e delle persone è una cosa recente, … non ha neanche duecentocinquant’anni.
Fai sempre l’intellettuale tu, anche da sbronzo, mi dice Svevo ridendo. Poi prosegue: oggi molti poveri se la prendono con gli stranieri, o coi gay, altre volte invece odiano gli artigiani, i piccoli imprenditori o gli sbirri. I poveri non sono più fratelli, il che forse sarebbe anche positivo – fratelli coltelli – ma il problema è che non sono nemmeno più amici. Non si sentono più amici nella povertà, nella sventura, nella certezza che non saranno loro (che non saremo noi!) a scrivere la storia. Non siamo più amici, noi poveri, non sappiamo più riconoscere negli occhi del ricco l’invidia (quell’altra, la sua) che ci renderebbe fieri e compagni.
Il povero non sa più odiare il ricco con il beffardo riguardo, e l’affettazione levantina, con cui un tempo lo imboniva, lo irrideva, lo derubava, gli scopava la moglie (o il marito). Il ricco, il borghese, ci ha rubato persino l’odio, lo ha convertito. Il nuovo odio dei poveri è un odio borghese, per se stessi. Un odio confuso con l’amore, un’invidia di classe che si fonda sull’idea surreale e ultra-violenta che gli uomini siano uguali, che non ci siano infinite e parallele culture e sottoculture diverse, non solo nel mondo ma in ogni singolo quartiere e persino in ogni singola famiglia. Il nuovo odio dei poveri è l’odio dei borghesi mancati in cui il mondo vorrebbe che ci riconoscessimo. Pensaci vecchio mio… fino al secolo scorso a nessuno era mai venuto in mente di fare una storia dei poveri… non è incredibile? I poveri, per millenni, sono rimasti letteralmente senza storia.
Molti giovani poveri oggi soffrono di non avere abbastanza soldi per mettere su famiglia. Ma è poi così vero tutto questo? È poi così vero che servono tutti questi soldi per mettere su famiglia? Non è forse tutto un grande inganno? Non è forse piuttosto che pensiamo di dover fare tutto alla stregua dei ricchi? Non è forse, piuttosto, che molti poveri, molti giovani, quando pensano di mettere su famiglia, non riescono a immaginarla diversa da quella famiglia piccolo o medio borghese in cui sono cresciuti, proprio loro che oggi – diversamente da quella famiglia – sono poveri?
Il dolore del ricco è come il dolore delle piante. Muto. Al ricco viene insegnato a non mostrare il suo dolore, a non lasciarselo sfuggire dagli occhi, dal timbro della voce. I ricchi sono ancora amici, perché sanno bene di dover recitare (in primo luogo con se stessi) la parte dei felici. Sanno che se non lo facessero l’intero sistema che garantisce la loro ricchezza (e con essa la frustrazione di cui si nutrono), andrebbe in frantumi. Al contadin non far sapere… che il ricco soffre, altrimenti tutta la macchina, che gira e funziona perché crediamo che le nostre sofferenze cesseranno quando saremo ricchi o più ricchi, si romperebbe.
Svevo si rotola sul tappeto, ride forte, ha quasi le lacrime. Ma sul serio, vecchio mio, mi dice, fammi capire cosa c’è di così bello nell’essere ricchi, fammelo capire, fammi sentire cosa mi manca, cosa mi perdo a non essere ricco. È andato, ubriaco. Mentre ride e si rotola a me invece viene in mente quella volta, al bar sulla spiaggia, che un ricco aveva cercato di portarselo a letto, dopo aver sfiorato la rissa con lui e Andrej, un nostro amico russo che diventava violento quando beveva. Ricordo il dialogo tra Svevo e il Ricco. Mi tocchi un ginocchio, mi carezzi. Vuoi scoparmi. Ma io no, non è che non mi piacciono gli uomini, il punto è che non mi piacciono i ricchi.
Le parole di Svevo, di nuovo semiserie, mi risvegliano dal sogno a occhi aperti. “Gioia invece sì che era una ricca vera. Una ricca che non aveva paura di perdere tutto, tutto quello che aveva guadagnato con una importante carriera. Lo ha sputtanato per un uomo, violento e stupido, è fuggita all’estero, ha lavorato ancora. E un giorno, se lo vorrà, riperderà tutto. Gioia è una ricca che conosce il muto dolore delle piante e della normalità, è una che se lo è goduto fino in fondo. E infatti, per gli altri ricchi, è una pazza, una malata, una nemica. Gioia, la serpe in seno dei ricchi, Gioia, il loro cancro. La loro, Gioia”.
È tardi, domani Svevo comincia a lavorare alle cinque e mezzo, porta il pane col furgone, e io pure inizio presto al supermercato. Va bene Svevo, va bene, per questa volta mi hai convinto. Facciamo un ultimo brindisi e poi nanna: “alla Gioia dei ricchi, il loro dolore”. Ride. Ridiamo. Buonanotte.