di Tommaso Di Dio
Diciamolo subito: in poesia non esiste una cosa come un “giovane poeta”. C’è semmai un’età della scrittura e un’età dello stile, ma non sono cose che si ritrovano sulla carta di identità. “Giovane Poeta” o “Anziano Maestro” sono categorie sociologiche, merceologiche, cose che si dicono così per dire: nulla di serio, insomma. La poesia è piuttosto sorpresa che contraddice l’età anagrafica e per i lettori di poesia non è strano imbattersi in anziani poeti che nei versi si innamorano come ragazzini e saltellano sulle parole come fanciulli inebetiti, oppure in giovani e giovanissimi che mettono su versi di una meditabonda saggezza. Gli esempi si sprecano, dalla bellissima e struggente poesia d’amore dell’anziano Carducci ad Annie (“Batto a la chiusa imposta con un ramicello di fiori/ glauchi ed azzurri, come i tuoi occhi, o Annie”, da Rime e ritmi, 1898) all’Ungaretti che in Dialogo del 1968, a 78 anni, scrive versi che farebbero venir rosse le gote al più timido adolescente: “Sei comparsa al portone/ in un vestito rosso/ per dirmi che sei fuoco/ che consuma e riaccende” (12 Settembre 1966).
Dall’altro capo del mondo, abbiamo i “giovani”, dunque e, al di là di episodi celebri del passato (su tutti, pensiamo ai versi dei miracolosamente maturi esordienti Arthur Rimbaud, Dylan Thomas e Clemente Rebora e, in tempi più recenti, Milo De Angelis, Maurizio Cucchi, Valerio Magrelli), penso a due recenti esordi che mostrano la saggezza della senilità e non si vergognano di averne anche alcuni vizi: Vangelo elementare (Raffaelli, 2015) di Gianluca Fùrnari e Progetto per S. (NEM, 2018) di Simone Burratti. Il primo è nato nel 1993, il secondo nel 1990: hanno scritto due opere diversissime, a riprova del fatto che si può essere contemporanei e nello stesso tempo completamente distanti. Le loro opere prime sembrano infatti venire da due mondi paralleli e incompossibili. La poesia del primo ha una rotondità davvero rara, sembra scritta da un uomo che ha patito, un Odisseo che ha attraversato terre sterminate per approdare a una poesia cosmica dove l’arcaico sembra riassumere tutta la grande tradizione lirica italiana, da Petrarca a Leopardi, passando per Tasso; il secondo, invece, quasi un accidioso Zeno Cosini fuoriuscito dalla pagina, ha un talento oscillometrico per la nostra condizione di pigri e vili uomini occidentali: con un passo radicalmente prosastico, ironico e antieroico, aggiornatissimo sulla più recente ricerca letteraria che va da strumenti di attenuazione retorica al googlism, è capace di inventare mille modi per tentare di uscire allo scoperto e provare ad essere: Burratti non dimentica la radice più profonda della lirica e la trova in un tentativo radicale di messa a nudo dei meccanismi esistenziali della persona, attraverso le molte maschere della poesia.
Sono potenti e decisi esordi, dunque, di una poesia contemporanea che non smette di essere plurale e polimorfa. Ma non voglio entrare nelle loro opere qui, di loro mi sono già occupato altrove: alla loro poesia, auguro il meglio possibile. Più interessante – in questa sede – mi sembra collegare la loro scrittura ad un aspetto poco indagato, eppure liminale: ovvero le prefazioni che precedono le loro poesie. La prefazione è un luogo decisivo, si sa: è l’anello di giunzione fra le generazioni, luogo dove quelle categorie di “Giovane Poeta” e “Anziano Maestro” possono ridiventare incrocio fra destini: incontri che impongono una svolta nella biografia. Ci sia o non ci sia, la prefazione non passa inosservata. Più è precoce l’esordio del poeta, più la prefazione è misurata dal lettore e, quando presente, non può non apparire un sigillo pesante; se invece assente, ci si domanda se sia stata un’esibizione coraggiosa di indipendenza o un segno di sprovveduta ingenuità. Comunque sia, disegna costellazioni, apre sfondi e denuncia l’ecosistema – magari soltanto immaginario – in cui l’opera è stata cresciuta.
Entrambe le opere a cui abbiamo accennato presentano prefatori noti: Vangelo Elementare è introdotto dal poeta Giuseppe Conte, Progetto per S. invece dal poeta e professore Stefano Dal Bianco. Le differenze fra i due autori (o meglio quattro) sono confermate dalle differenze fra i due testi: Conte si affida ad una lettera privata, che inizia così: “ricevere una lettera come la sua è uno dei più bei regali che uno che fa il mio mestiere possa aspettarsi”; e procede con le parole “ho letto subito il suo libro: ne esco ora grondante di luce e di ammirazione”, per poi concludere: “Grazie di avermi fatto leggere questo libro”. Al contrario, Dal Bianco decide di iniziare la sua con una petizione e un monito ai giovani poeti: “usate pure i vostri prefatori, se ancora servono, sfruttateli al bisogno, se ancora confidate sull’utilità di un patentino, ma non sperate mai che possano condividere fraternamente la vostra posizione. Essi mentono sapendo di mentire”. Da un lato, l’intimo colloquio e la paterna, vigilante, affettuosa premura; dall’altra, la lucida e per questo forse più fraterna e a tratti scontrosa indipendenza. Mancati fratelli o pseudo padri, i due prefatori suggeriscono in realtà due grandi vie per la poesia contemporanea, che continua un percorso iniziato molti secoli fa e che non sembra avere interruzioni: da un lato, Conte trova nella poesia di Fùrnari “una luce-energia che arriva alla fine a vedere la propria cosmica dissoluzione”; Dal Bianco, invece, esorta “all’inermità perduta di fronte al lettore”. Due posizioni opposte? A me sembra che insistano nella stessa direzione: in un compito che la poesia deve sempre avere di fronte e che ancora oggi, a discapito di quanto si crede, è capace di produrre grande poesia proprio quando non ha più paura di non apparire originale. Sì, perché uno degli aspetti centrali e forse paradossalmente più innovativi della poesia di oggi è proprio questa esibizione di continuità con la tradizione: sta forse finendo il diktat tutto moderno (e ormai pienamente assorbito dalla logica del mercato) del dover essere a tutti i costi nuovi? Vedremo; intanto, scansando il frastuono, ci godiamo questi preziosi frutti.