In fuga dalle semplificazioni, sul ciglio del baratro. L’intellettuale “riluttante” di Rovatti

di Andrea Muni

Un intellettuale “riluttante”… Devo ammettere che mi ci è voluto un po’ per capire il senso di questa espressione. Rovatti la prende a prestito da Piero Cipriano, psichiatra romano che ha fatto della “riluttanza” il proprio modo di stare, e combattere, all’interno di quel sistema coercitivo-istituzionale che sono i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura. La “riluttanza” di Rovatti, al di là dell’omonimia, mi sembra però alquanto diversa. Non si tratta di dire “faccio l’intellettuale, anche se non vorrei, perché altri lo farebbero peggio”, ma piuttosto “nel fare l’intellettuale non devo cessare di esercitare – proprio su me stesso e sulla mia figura – una critica e un’autocritica che mi obblighino a soffermarmi, a esitare, sull’orlo di un baratro”. Già, niente di meno: un baratro, una vertigine.

Rovatti svolge nel suo libro, con lo stile corsaro che gli è divenuto familiare nell’ultimo decennio, esattamente questo preciso (e ingrato) tipo di lavoro. Bordeggiare, costeggiare il baratro. Esagerato? Non credo. La crisi culturale della sinistra italiana – che non data da ieri, ma che dal 4 marzo è divenuta irreversibile – sta infatti tutta nel non aver avuto il coraggio di affrontare le molte problematiche (etiche, politiche, sociali) che ne hanno fatto implodere l’identità, cedendo piuttosto alla tentazione – e alle facili scappatoie – di quel pensiero binario che, cito Rovatti, “è un clamoroso trucco nel quale ci rifugiamo difensivamente, immaginando che tra il vero e il falso passi una netta linea divisoria, mentre questo confine è fragile, vi avvengono continui movimenti di entrata e uscita, e noi siamo proprio lì, completamente esposti”.

La pratica di scrittura e di pensiero di Rovatti continua ostinatamente, e in maniera del tutto inattuale per i tempi che corrono, a prendere posizione sul bordo di questo baratro. Si tratta di una postura totalmente opposta al dilagante manicheismo di buona parte degli intellettuali (di destra e di sinistra) che affollano librerie e giornali. Una pratica che non finge ideologicamente e timorosamente di non vedere quello che c’è di scomodo e imbarazzante nell’odierno ruolo politico dell’intellettuale e nella tragica deriva umana e culturale in cui sta naufragando il Paese. Dal libro emerge il desiderio, potremmo dire “masochistico”, di ingaggiare col presente che ci spaventa e non ci piace una lotta, un confronto, un gioco il cui esito è incerto, non previsto “a tavolino”. Un gioco la cui posta decisiva è – prima ancora della sanzione di una qualche “verità” – il rifiuto categorico di consolanti scappatoie dall’angoscia che tutti proviamo all’alba di una nuova era dalle tinte a dir poco fosche. Il dilagante fascismo e razzismo infatti potrebbero non essere solo colpa di chi li persegue propagandisticamente, ma anche di tutti coloro che – negli ultimi decenni – non hanno saputo, o non hanno voluto, incarnare modelli etici e culturali che potessero risultare altrettanto seducenti. È in questo solco che, ad esempio, si inserisce la tempistica riflessione di Rovatti sulle fake news e sulla post-verità, che importanti intellettuali (come Cacciari e Ferraris) hanno di primo acchito bollato come un fastidioso rigurgito della ormai vetusta temperie post-moderna. Mentre all’inizio del 2017 si scatena la “crociata” contro la post-verità, Rovatti si limita a notare acutamente che “la post-verità ci indica che siamo, tutti quanti, all’interno di un regime di verità (per dirla con Foucault) molto più complicato di quanto supponiamo, nel quale la contrapposizione tra vero e falso è un’arma quasi preistorica e comunque spuntata e inefficace. Anzi, che si rivolge spesso contro chi la usa”.

Il problema della figura intellettuale, e del suo ormai nullo impatto politico, andrebbe forse riaffrontato a partire dal fatto che troppo spesso, lui, l’intellettuale, crede di fare politica con le proprie idee, senza rendersi conto che – come diceva Althusser – le sue idee non sono esattamente quelle che crede di “spiegare” alla gente quando parla o scrive. Le sue idee, le idee dell’intellettuale, piuttosto, sono iscritte nei suoi “atti” (cioè in come scrive e in come insegna) e nei “riti” a cui partecipa. È proprio qui che si gioca – se capisco bene Rovatti – l’odierna sfida dell’intellettuale e della sua “riluttanza”. Per insegnare agli altri l’importanza di un atteggiamento (auto)critico è necessario incarnare questo atteggiamento nei propri atti e nella propria scrittura. Si tratta della differenza, decisiva, tra dire che bisogna essere (auto)critici ed esserlo realmente. Ma gli intellettuali – i principali, i più in vista, quelli che spesso compaiono in Tv o che scrivono gli editoriali dei quotidiani – danno mai davvero prova di compiere, su se stessi e sulle proprie prese di posizione, quell’esercizio critico e autocritico che vorrebbero la gente facesse su se stessa? Sappiamo tutti che la risposta è no.

Rovatti e la sua “riluttantza” ci provano. Lo fanno senza la speranza di trovare soluzioni teoriche o grandi intuizioni politiche che, con un colpo di spugna, possano riportarci a un’età dell’oro che ormai non è più lecito nemmeno sognare. Il punto politico odierno sta infatti, piuttosto, nell’urgenza di ricreare e socializzare una cultura (e perfino un amore) della complessità, dando in prima persona l’esempio di un vero atteggiamento (auto)critico che sia capace di sedurre, di interessare, o per lo meno di ispirare rispetto (invece che ripulsa o risentimento) in tutti coloro che (sacrosantamente!) intellettuali non sono. Perché l’intellettuale “riluttante” è innanzitutto chiamato a prendere atto del fatto che, cito Rovatti, “non c’è più un’onda collettiva che lo autorizza e nella quale può contare”. È un intellettuale che sta realizzando coraggiosamente che, “dunque, in ogni caso, egli si ritrova da solo con se stesso e con il compito di costruire, quasi ogni giorno, una fragile trama di gesti e di relazioni”.

Dalla critica alle “facili” nozioni di normalità ed empatia, passando per la trasversale denuncia politica dell’asfissia culturale prodotta da regole e regolamenti sempre più restrittivi (come nel caso dello sgombero del centro sociale Labas di Bologna, o nel caso dei Daspo urbani introdotti dal decreto Minniti), e fino alla critica della ormai dilagante nozione di “individuo pericoloso”, Rovatti puntella attraverso brevi incursioni la propria via al “pensiero debole”. Una via che si traduce (già da qualche tempo) nel tentativo di praticare un’ “etica minima”. Un’etica che ha poco a che vedere con la pietas di Vattimo, e che anzi, se possibile, ne rappresenta per certi versi il rovescio. Nell’“etica minima” di Rovatti possiamo ritrovare infatti uno sguardo – da rivolgere sempre in primo luogo verso se stessi – che è “senza pietà”, o in ogni caso il meno consolatorio possibile. Un’etica che osa, acrobaticamente, rimettere in questione, in gioco, quei consolatori binomi a cui, tutti, tendiamo istintivamente ad aggrapparci quando il mondo che ci circonda ci fa più orrore (il “vero” che deve essere anche “buono”, per non farci disperare; il “bene” che deve essere anche “giusto”, per orientarci nella vita; il “giusto” che deve avere un’aura di bellezza, per illuderci della sua, e della nostra, “bontà”).

Troppo spesso in questi anni gli intellettuali italiani “di sinistra” hanno manifestato uno sgradevole agio, una nauseante serenità, nel rifiutarsi categoricamente di fare i conti con i propri presupposti ideologi e identitari. Così come troppo spesso è accaduto che il mondo della sinistra si sia affannato (seppur giustamente) a tessere le lodi degli ultimi dimenticando drammaticamente i penultimi; quei penultimi che pure votano, e che – secondo la migliore tradizione pedagogica – desiderano essere sedotti e ispirati attraverso l’esempio e non insultati o, peggio, rieducati a colpi di sapere. È questa moda, questo trend politico-culturale di un pensiero di sinistra “pedagogico” nel senso peggiorativo del termine (moderato o massimalista che sia), ad aver prodotto negli ultimi decenni un totale disamore della gente nei confronti di molte istanze “culturali” di area. Certo il potere e gli avversari ci hanno messo del loro negli ultimi vent’anni (dalle violenze del G8 di Genova, passando per Berlusconi, i Diktat dell’UE, il renzismo e arrivando infine alla becera e recente propaganda fascio-leghista) ma la verità è che il nemico è prima di tutto interno.

Il nemico è – prima di tutto – nell’imbarazzante discrepanza tra i discorsi e le pratiche di un’intera classe dirigente e intellettuale. Una discrepanza che Rovatti non si immagina mai di poter, di colpo, cancellare o redimere, limitandosi piuttosto a mostrare “in atto” quanto sia costoso ogni piccolo passo compiuto nella direzione di un non chiudere gli occhi di fronte alla voragine che si è aperta tra il mondo degli intellettuali (e del sapere) e la cosiddetta “gente”. Si tratta di uno sforzo (auto)critico importante per rilanciare un vero dibattito pubblico su come provare a ricostruire quell’immenso capitale simbolico-culturale che – negli ultimi decenni – è stato letteralmente dilapidato da una classe intellettuale a cui è mancata la voglia, o forse il coraggio, di stazionare “masochisticamente”, fosse anche per un solo istante, sull’orlo di questo baratro.

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