Documentare l’atto di uccidere
di Giovanni Isetta
Lo sguardo ha una sua complessità. Non è solamente il vedere attraverso degli occhi. Uno sguardo si espande nello spazio e nel tempo. Avvolge ogni cosa, dalla più vicina a noi alla più distante e si nutre di ciò che era e di ciò che è. Uno sguardo ha già in se stesso un voler comprendere, non osserva solamente, egli partecipa. Vive della realtà e dell’immaginazione e quando viene gettato, quasi esplodesse, genera un mondo. Ma non esiste uno sguardo, ne esistono molti. Prospettive si intersecano come un gomitolo che continuamente gira su se stesso e ingloba nuove storie, nuove immagini, nuovi volti. I loro sono movimenti dinamici, aperti alla novità, liberi.
Ogni sguardo ha delle conseguenze. Avvolge un mondo e in quel mondo vivono uomini, donne, bambini e anziani. Un’intera umanità abita in esso. Un immenso potere, quindi, è insito in ogni sguardo. In esso deve generarsi un discorso di responsabilità. Ogni sguardo deve essere critico. Come dentro ad un labirinto di specchi esso deve continuamente riflettersi, deformarsi, mascherarsi e svelarsi. Il rischio di perdersi è alto, la fatica di orientarsi ad ogni passo è tanta. Dietro ogni sguardo c’è una ricerca. A volte possono passare anni prima che uno sguardo giunga a compimento e quando accade può avere la capacità di generare altri sguardi: prima uno, poi due, cento, mille, un milione…
In un documentario come The Act of Killing [1] accade tutto questo. Prima di tutto c’è lo sguardo di Joshua Oppenheimer che agli inizi del 2000 va in Indonesia per produrre The Globalization Tapes, un documentario sullo sviluppo della globalizzazione. A questo sguardo si uniscono quelli dei lavoratori poveri delle piantagioni che svelano il ruolo devastante dell’esercito e il potere repressivo delle istituzioni economiche. Altri sguardi, quelli dei militari che vengono ad impedire le interviste e allontanano Joshua e i suoi collaboratori. Ma in tre anni di ricerche, interviste, costruzione di rapporti di fiducia, comincia a venire alla luce un qualcosa, una traccia, una memoria…
La storia: Nel 1965 un colpo di stato depone il governo indonesiano. Si instaura una dittatura militare che immediatamente esclude il partito comunista (il più numeroso al mondo al di fuori degli stati comunisti) ed inizia una feroce propaganda contro i suoi sostenitori. In meno di un anno chiunque si opponga alla dittatura militare viene accusato di comunismo e trucidato con l’appoggio del fronte paramilitare chiamato Gioventù di Pancasila. Appartenenti ai sindacati e alla minoranza etnica cinese, contadini privati della propria terra e intellettuali sono giustiziati dai paramilitari e da piccoli fuorilegge. Questi ultimi erano gangsters dediti al bagarinaggio fuori dai cinema e che, con il comunismo che vietava i film americani, avevano visto le loro entrate diminuite di molto. Ciò genererò un odio violento che, dopo la caduta comunista e con l’istigazione del nuovo governo militare, sfocerà nella trasformazione dei piccoli criminali in killer senza scrupoli.
Nel 2005 lo sguardo di Joshua devia ed inizia ad interessarsi a questa storia, così cerca e incontra i sopravvissuti. Il continuo ostacolo dato dai continui interventi dei militari e la paura di possibili ripercussioni portano l’impresa vicino al fallimento. Ma il venir prelevato dalla milizia e il contatto con loro dischiude una possibilità. Joshua scrive: “Not only did we feel unsafe filming the survivors, we worried for their safety. And the survivors couldn’t answer the question of how the killings were perpetrated. But the killers were more than willing to help and, when we filmed them boastfully describing their crimes against humanity, we met no resistance whatsoever. All doors were open. Local police would offer to escort us to sites of mass killing, saluting or engaging the killers in jocular banter, depending on their relationship and the killer’s rank. Military officers would even task soldiers with keeping curious onlookers at a distance, so that our sound recording wouldn’t be disturbed” [2].
Data la sorprendente disponibilità degli assassini (i gangsters appassionati di cinema) di raccontare le loro gesta come se fossero stati degli eroi (ed effettivamente sono considerati tali dal governo e da gran parte della popolazione), il lavoro documentaristico di Joshua diviene quello di svelare lo sguardo di coloro che quarant’anni prima avevano causato la morte di migliaia di persone così da portare alla luce le conseguenze devastanti dell’atto di uccidere. Preso contatto con i vecchi componenti di una delle più efferate squadre della morte di Medan e colpito dal loro amore per le pellicole americane, Joshua propone di fare un film dove essi stessi siano gli attori, sceneggiatori e registi che mettano in scena le loro gesta. L’effetto finale è sconvolgente per vari motivi. In particolare c’è un gioco di sguardi all’interno del film dove il protagonista (Anwar Congo, il quale causò la morte di più di mille persone) vedendosi recitare si rende lentamente conto della brutalità dei gesti compiuti (tanto che ad un certo punto guardando una scena del film alla televisione chiederà perplesso “ma ero così cattivo?”) fino al punto che, interpretando la parte di una vittima, raggiungerà una drammatica consapevolezza del male commesso. Il complesso sguardo di Joshua riesce così a mettere in scena tutta la devastante fragilità, banalità e vuota crudeltà di tali uomini tanto acclamati dalla propaganda del regime. Uno sguardo gettato nel passato attraverso gli occhi del presente e che sta già avendo importanti conseguenze sul cambiamento dello sguardo di un popolo sulla propria storia.
NOTE
[1] Un film di Joshua Oppenheimer. Con Haji Anif, Syamsul Arifin, Sakhyan Asmara, Anwar Congo. Documentario, durata 115 min. – Danimarca, Norvegia, Gran Bretagna, Svezia, Finlandia 2012.
[2] http://theactofkilling.com/statements/