di Andrea Muni
Non so se capita anche a voi, ma io quando sono felice sento sempre l’imminenza, l’intimità della morte. Lo so, non è una di quelle così che si raccontano così a cuor leggero, del tipo “quando sono eccitato mi parte sempre una scorreggia”. In realtà, se devo essere sincero, sento l’imminenza della morte, la sua intimità, anche quando sono triste… ma questo è più scontato. La cosa interessante forse è che la sua imminenza, la sua intimità, non mi rendono né triste né felice… è il fatto di essere triste o felice che mi fa sentire forte, più forte, l’imminenza e l’intimità della morte.
La morte è decisamente uno di quegli argomenti che il main stream tratta in maniera imbarazzante e imbarazzata, nonostante ci bombardi continuamente di immagini che ce la mostrano, di notizie su malattie che ce la presentificano, di reportage da guerre che – lo sappiamo – causano la morte di donne e bambini, ora, mentre scrivo. Siamo bombardati da discorsi sulla sicurezza, come se la sicurezza, in ultima istanza, potesse proteggerci dalla morte. Come se una vita più sicura potesse, davvero, rendere l’imminenza della morte un fatto più sopportabile, più lontano, più sfumato, meno angoscioso.
Un caro amico mi ha raccontato che quando suo figlia aveva cinque anni lui le ha detto che si muore: si muore e basta. Pare che la piccola ne abbia sofferto inizialmente, lui allora ha cercato di farle capire cosa c’è di bello se non proprio nella morte (è un po’ pirla, ma non fino a questo punto), almeno in ciò che il tragico fatto della morte “implica”. Un primo tentativo l’ha fatto raccontandole che la vita è come un gioco, che la morte è la fine del gioco, ma che – proprio per questo, finché si gioca non si sta li a pensare e a dispiacersi tutto il tempo che tra un po’ il gioco finirà (specialmente se il gioco è bello e ti prende dentro, se invece il gioco non ti piace tanto meglio, quando finirà non sarà così triste). La reazione disperata, e più che comprensibile, della figlia del mio amico però è stata: “ma io non voglio morire lo stesso, non voglio!”. Ora che la bambina è più grande ho saputo che è stata lei un giorno a sorprendere il mio amico, dicendogli i quale delle tante cazzate che si era inventato negli anni per renderle la pillola meno amara era riuscita effettivamente a resserenarla.
La figlia gli ha raccontato che una volta lui le ha detto che, in fondo, a pensarci bene, la vita è già un’eccezione, un’incredibile casualità, una botta di culo. I pianeti, le rocce, il mare, infatti, non vivono come noi, sono morti da sempre. È come se noi, solo noi, avessimo invece la possibilità – per un brevissimo periodo, di essere qualcosa di diverso da tutto ciò che pur essendo morto, o anzi, proprio perché morto, esisterà sempre. Anche noi infatti esisteremo per sempre, diventeremo altro, solo che non saremo più li a “saperlo”. Ma a differenza del mare, delle colline o della luna, per un po’ di tempo lo possiamo sapere: possiamo giocare con gli altri, ridere e piangere insieme del fatto che ci è capitato di condividere questo segreto. Ci è capitato di sapere insieme che siamo questo battito d’ali, questo sospiro che nuota – per pochi istanti, in un vuoto di senso eterno, in un universo nato morto da sempre.
Se la vita è una parentesi nell’eternità della morte, la morte allora – a pensarci bene – è la condizione di possibilità della vita stessa. L’acqua non è viva come noi, né è vivo il sole, eppure senza queste cose “morte” (qualcuno direbbe inorganiche) la vita non sarebbe possibile. Che brutta l’imminenza della morte… quando ti prende, quando la senti nell’intimità e nell’angoscia, come una lama, che penetra nei tuoi progetti, nei tuoi affetti. Eppure quanto è preziosa, quanto è amica; quanto è importante non chiudere gli occhi, sentire questa insicurezza, per vivere dignitosamente. Nel nostro mondo, apparentemente così libero, i tabù fondamentali dell’essere umano non sono mai stati così tanto schivati, nascosti, narcotizzati, privatizzati. Quello della morte sopra tutti vive di un’ambiguità che lo rende ancora più follemente spaventoso di quanto è già di per sé. Il problema è infatti che alla tristezza, alla nostalgia anticipata che si può provare nel sapere che arriverà il giorno in cui non potremo più giocare, ridere e piangere con gli altri, si aggiunge l’angoscia di credere che la morte sia la fine del mio essere pensante, il timor panico che presto non saremo più lì a pensare di esistere. Ecco un’angoscia tra tutte quelle che ci ispira la morte, che possiamo facilmente evitare, perché noi non siamo vita perché pensiamo. Il pensiero cosciente non è niente di vivo, né tanto meno è “anima” o “essenza” di alcunché. Noi siamo vita perché ci muoviamo, respiriamo, annusiamo, non perché pensiamo.
Zorba, celeberrimo personaggio del romanzo “Zorba il Greco” di Nicos Kazantzakis, all’inizio del libro racconta una storiella. Zorba incontra un vecchio di novant’anni che pianta un mandorlo e gli domanda teneramente “Ehi, nonnino, cosa lo pianti a fare quel mandorlo, non lo vedi che hai novant’anni?”, e il vecchio gli risponde “Io vivo come se dovessi non morire mai”. Zorba allora gli risponde “che strano, io vivo come se dovessi sempre morire oggi”. Finita la storia Zorba riflette per un istante sull’ironica vicenda e poi dice al suo amico “Sai padrone, mi è parso poi che vivere come se non si dovesse morire mai, e vivere come se si dovesse sempre morire oggi, in fondo, siano quasi la stessa cosa”.
Quanto siamo lontani da tutto questo? Quanto siamo lontani sia dal vivere come se fossimo immortali alla maniera del vecchio greco che pianta il mandorlo, sia dal vivere come se dovessimo morire oggi come il buon Zorba? Quanto siamo lontani dal vivere davvero nella consapevolezza, nell’umiltà, del nostro posto nel mondo e nella natura: una pedina del gioco dell’oca, una goccia nel mare che nasce e muore con le stagioni, un elemento della fauna che si confonde con il paesaggio e non ha bisogno di credere in divinità personali perché sa, sente di essere già parte di tutto ciò che vive e respira. L’agrodolce certezza di non poter essere altro che un ponte, un conduttore elettrico di parole, di affetti e valori che mi sopravviveranno, chissà per quanto, in tutti quelli che mi toccano, mi sfiorano; che passeranno da uomo a uomo, di generazione in generazione (almeno finché il cambiamento climatico non sopprimerà la vita umana sul pianeta). Ma appunto, occhio, perché la vita umana non è la vita in generale, non preoccupiamoci troppo per il mondo, lui soppravviverà al cambiamento climatico, lo farà anche la vita, probabilmente saremo noi umani a scomparire, e visto quello che gli abbiamo fatto, forse, la cosa non è poi un gran male.
Se l’opzione del vecchio che pianta il mandorlo ci è (quasi del tutto) preclusa, l’altra opzione della storiella, quella di Zorba, ci è forse ancora più estranea. Quasi nessuno vive come se dovesse morire oggi, non nel senso in cui l’intende Zorba almeno. Non si sono certo estinti con Zorba, né sono cominciati con lui, quelli che vivono come se dovessero morire oggi. Non c’è bisogno di chiamare in causa Rimbaud, Jim Morrison, o il povero Young Signorino. Ma siamo sicuri che fosse questo ciòche Zorba intendeva dicendo che lui vive sempre come se dovesse morire oggi? Quando l’eccesso permette davvero di gustare l’intimità, l’imminenza della morte, allora si che è una festa. Ma quante volte invece l’eccesso, nel nostro mondo, serve unicamente per rifuggire quest’angosciante intimità? Uno stordimento in cui diluiamo i pochi momenti “liberi” in cui rischieremmo di sentire più forte, troppo vicina, questa imminenza, questa intimità. Al contrario molti oggi vivono come se non dovessero morire mai, come se la vita potesse indefinitamente dispiegarsi in nuovi progetti e nuove sfide con se stessi da combattere e vincere. Come se la vita fosse eterna e si potesse rimandare senza sosta la domanda che pende dall’esofago, che stringe alla bocca dello stomaco. Quella domanda semplice, stupida, intima: “ma che cazzo ci sto a fare io qui, ora, nella vita?”. Ma questo non significa affatto vivere come il vecchio che pianta il mandorlo, significa piuttosto vivere prigionieri di un’eternità di plastica, modellata a immagine di quello che si dovrebbe diventare, mentre l’intimità della morte si affaccia alle nostre vite solo nelle forme – sempre meno “gloriose” e sempre più “difensive”, dell’ebbrezza, della perversione, dei più devastanti sintomi nevrotici.
Bastava essere un greco che scriveva durante la seconda mondiale, bastava essere un intellettuale che viveva davvero a contatto con le persone “infami”, per avere ancora un’idea della morte che non sapremmo più raccontarci. “Vivere come se non si dovesse morire mai”, “Vivere come se si dovesse morire oggi”. In che senso, precisamente, sarebbero la stessa cosa? La pseudo-eternità e l’autodistruttività nevrotica dell’uomo neoliberale si toccano, come si toccano l’eternità del vecchio che pianta il mandorlo e l’istante di Zorba. Si toccano, sì, ma in maniere profondamente differenti.
La pseuso-eternità della progettualità neoliberale è un diversivo, un trasferimento della vita a un’entità pensante che si immagina di essere eterna (quanto è sintomatico, in questo senso, che la maggior parte delle persone creda ancora all’anima e all’al di là?). C’è un vero e proprio rifiuto del fatto che la morte, la mia, arriverà e renderà vano, vanità, tutto quello che – seguendo i valori di una società votata all’infelicità, ho costruito nella vita. Allo stesso modo, il calarsi nell’istante in maniera coatta e difensiva, tipico della nostra cultura, è un modo per dimenticare non la morte biologica quanto piuttosto la devastante mortificazione sociale, relazionale, soggettiva, “umana” cui ci condanna uno stile di vita in cui la soddisfazione si produce solo nella forma, parossistica, di un'(auto)aggressione e di un (auto)sfruttamento portati ben oltre il limite dell’alienazione.
Mentre nel caso di Zorba e del vecchietto col suo mandrolo l’eternità e l’istante si toccano in tutt’altro senso. L’eternità del vecchio e del mandorlo non ha percorsi “liberi”, è riconciliata con l’idea che la morte è condizione della vita, che la vita non è altro che una parentesi particolarmente intesa nell’eternità della morte. L’istante di Zorba ci ricorda ciò che davvero è “sovrano”. Ci ricorda che il progetto, l’utile, il calcolo, hanno meno vita – sono più morti, di questa bocca che mangia, di questo stomaco che si riempie, di questa pelle che si scalda al sole, di questa carezza che scende lungo il corpo. L’istante di Zorba non è quello in cui ci si dimentica di sé perché si prova disgusto per ciò che si è (e non si riesce a smettere di essere), è piuttosto l’istante “sovrano” in cui ciò che è vita, ciò che ci distingue dalla morte, torna ad essere la stella che ci guida. Il mangiare, il bere, lo stare insieme, le carezze sono gli “istanti” sovrani a cui nulla dovrebbe essere subordinato; “istanti” a cui possiamo dare il giusto valore solo vivendo, come Zorba, come se dovessimo morire oggi, come se non avessimo tempo per tutto ciò che è vano. E badate, Zorba non è un esteta né un intellettuale: è un operaio (ed è esistito realmente, non solo nelle stupende pagine di Kazantzakis).
La morte, il suo pensiero – poiché noi non sapremo mai altro che il pensiero della nostra morte – può essere “amica”. Ci può insegnare a rompere la falsa eternità e il falso vivere l’istante a cui la nostra società ci educa fin dalla più tenera infanzia, per evitare che socializziamo e condividiamo la vera intimità, la vera amicizia. Quel senso di “familiarità” che ci proviene dal guardare – ognuno per sé – la morte in faccia (la nostra e non quella degli altri che, diversamente, chiama in causa il discorso del lutto e tutta un’altra serie di riflessioni).
Non è la morte, la sua idea, a causare tristezza o felicità, sono la tristezza e la felicità che, facendo rimbombare, rintoccare la vita in se stessa, come una campana che chiama alla festa, ci obbligano a sentire l’intimità della morte, il suo silenzio, come il loro opposto. Nel rintocco della vita, nella sua eco di morte, si apre lo spazio dell’amicizia, quella vera. Quando la vita rimbomba in se stessa, come felicità o dolore, come “pace”o come ebbrezza, noi conosciamo la morte come la sospensione, la messa tra parentesi, di tutto quello che, davvero, non aveva importanza.
SIAMO
Siamo su una collina
parole
morte verde
vera vita
inspirato ed espirato dalla natura.
Importante è tutto,
tutto ciò che non dovrebbe esserlo.
Ma io sono libero e immerso
quindi vuoto
quindi morto
quindi finalmente
vivo&vero.