di David Watkins
(Illustrazioni di Silvia Mengoni)
Da grande vorrei essere un bidello. E non soltanto per vanità, per avere una cattedra tutta mia, fuori dalla classe, dove d’altronde accadono le sole lezioni che si possano ricordare. E neppure per eroismo, l’eroismo necessario a starsene in disparte, a rimanere seduti. Non sarebbe un’ironia, nulla di romantico, non un altro modo di non coincidere con ciò che faccio, di far risplendere, come in controluce, ciò che avrei potuto essere e non sono. Quella triste libertà che sa di essere e nulla, quel pensarsi sempre al di là di questa mano che si muove.
E nemmeno una polemica, foss’anche la più silenziosa. Il mio tacito corpo di bidello non se ne starebbe lì a dire “ecco, vedete, vi tocca persino pagare qualcuno per pulire tutto lo sporco che viene dalla scuola”. Dell’igiene resa alle aule dal mio lavoro, della logica entro cui farei vacillare sedie e banchi, io non farei vanto. E se una qualche ostinata adolescenza prendesse a chiamarmi “l’angelo dei corridoi e delle scale”, farei finta di non sentire, non cederei alla sua dispotica lusinga.
Aprirei spesso le finestre, questo sì, farei girare un po’ l’aria.
***
Io da grande vorrei essere uno spacciatore,
cifrare le andature nella scala che va
dal desiderio spicciolo al bisogno.
Senza nessuna ostentazione,
come un’elemosina in un vangelo
offrire finalmente
un servizio al buio di questa città,
vagare per le vie, un’ambulanza
messa all’angolo più pronto
alle tue voglie, misurare qualcosina
insieme a te, toglierti ogni dubbio.
***
Nel condominio dove sono nato viveva, e forse vive ancora, un collezionista di piogge. Non era un tipo strano. Si potrebbe anzi dire che ciò che rendeva peculiare il collezionista di piogge fosse proprio la sua normalità. Amava parlare del tempo, delle variazioni atmosferiche, del più e del meno. Quando in ascensore
incontrava qualcuno che fosse capace di reagire al suo silenzio con frasi del tipo: “che vento, oggi, eh?”, il collezionista di piogge cominciava a fantasticare la trama di una possibile amicizia. Quando era solo, diceva cose così normali che nessuno le ricorda.
Talvolta lo si sentiva scendere le scale con una foga carica di futuro. Allora noi del palazzo sapevamo che di lì a breve avrebbe piovuto. Era come un tuono con due gambe secche, il collezionista di piogge, annunciava il temporale col solo correre nel mondo del suo secchiello in mano, e se ti affacciavi dal terrazzo, adesso lui era lì, lo sguardo sbieco verso il cielo di chi non sai se stia aspettando o ricordando ancora. Poi, prima, molto prima che la pioggia smettesse di cadere, riprendeva il suo secchiello, che aveva quasi dimenticato ai suoi piedi, come un ombrello al rovescio, e se ne tornava in casa, fradicio ma non troppo, a classificare il piovasco.
L’ultima volta che lo vidi non fu poi così diversa dalle altre: il solito parlar del tempo, il solito fantasticare un’amicizia dentro un ascensore, il solito presagio di benedizione e pioggia che quel corpo si portava dietro, persino adesso che mi stava salutando con una specie di pensiero nella voce, che gli s’addiceva solo fino a un certo punto. Ed io, che quel giorno avrò avuto sì e no trent’anni, proprio mentre l’ascensore si richiudeva alle mie spalle e se lo riportava su, nel cielo domestico della sua collezione, allora io pensavo che certo, io da grande avrei voluto essere così, normalmente, come lui.
***
Penso agli anni 90, ai suoi colori.
Allo zaino dell’Invicta che invidiavo
a mio fratello.
Qualcuno dovrà pur dire
che cosa sia stato compiere un primo respiro
dentro a un fucsia poco credibile,
che faceva presto a svelare il suo lato sbiadito.
Tutto l’opaco che ritrovi
nella fosforescenza, una penultima parola presa
dal pennarello che evidenzia appena,
un vento indietro.
E quella vaga sentenza con cui anch’io
son nato, appiccicata sulla schiena:
è troppo tardi, non è più neanche notte, è già
stato.
Quasi non si trattasse di essere nostalgici di questa o quella
piega del suono o della luce, ma di essere nostalgici e basta.
Una nostalgia senza oggetto, una nostalgia in sé,
un vento indietro.
Parlo dell’aria che parla nelle fodere o nei muri,
di un umore che ti ammala, anche se cammini,
dentro le parole, nel vizio estremo
della confessione, questo ritornello che non ha
mai stretta una mano senza stringere
in gola un addio.
Lo zaino dell’Invicta se ne stava lì,
a sua insaputa, appoggiato a tutte le epoche
che non erano la sua.
E questa patina di morte
che dolce ti risveglia nelle cose
tu vorresti uccidere anche lei,
essere più dolce, più grande.