di Selene Seliziato
A Guayaquil ci sono finita per caso. È stata la città a trovarmi e non io a trovare lei. Le vie di internet sono infinite. Da quanto ho capito bisogna incazzarsi con i ricchi, perché se il coronavirus è arrivato anche qui, di fatto la colpa è loro, essendo gli unici a potersi permettere di viaggiare. Ad ogni modo, l’assistenza sanitaria di base c’è per tutti: gratuita, un po’ lenta e non molto attrezzata. Diciamo che è malnutrita, come un quarto dei bambini ecuadoriani. Tempo un paio di settimane ed è andata in crisi. Allora se prendi il virus diventi un problema e, come se non bastasse, continui a essere un problema anche se muori. C’è un ragazzo che ha fatto un video: il soggetto è un corpo immobile, coperto da un lenzuolo bianco da cui sbuca un piede, rigido. È buttato su un marciapiede.
«Me dicen que no hay ambulancias disponibles en todo Guayaquil para que puedan retirar el cuerpo de aqui».
Che fai, vai all’Hospitalario Alejandro Mann, dove i morti sul marciapiede li trovi già alla guardiola di entrata, quella con la sbarra automatica? Chi chiami, la polizia? La stessa che ferma i pick-up che trasportano le bare per scaraventarle sull’asfalto e far ripartire i mezzi scarichi? In teoria, quindi, se ti muore qualcuno a casa, te lo tieni a casa, oppure… Oppure ti fai aiutare da alcuni volontari che, pagati, fanno accidentalmente cadere il morto lungo la strada mentre lo portano. Tipo un fazzoletto sporco che ti scivola dalla tasca. È l’alternativa economica a un altro servizio: se paghi di più lo possono bruciare. Tuo nonno o tuo cugino o tua madre. In mezzo alla strada, in pieno giorno.
«Y no se pronuncia nadie».