di Francesco Bercic
A distanza di settant’anni, Le braci (Adelphi, 2000) e la vita del loro autore rimangono vie contigue verso quella che, sempre più, sembra essere una pace impossibile.
Chissà se nel lontano 1950 Eugene Görcz, primo traduttore dell’opera più ammirata di Sándor Márai, si rese conto di avere tra le mani un autentico gioiello, nella concezione più semplice del termine, un romanzo capace di brillare nella freddezza e nella solitudine del contesto in cui si sviluppa. Molto probabilmente no. Le braci (la cui prima pubblicazione, ovviamente in ungherese, è del 1942) rimasero nell’ombra almeno per altri cinquant’anni, più o meno fino all’inizio del nuovo millennio. Si dovrà attendere la prima traduzione in francese (Albin Michel), perché qualcuno si accorga della sua rarissima evanescenza.
Cosa abbia portato a ignorare quello che oggi è uno dei più grandi romanzi del Novecento mitteleuropeo non è chiaro. Possiamo ipotizzare, comprendendo l’opera nella sua profondità storica, che il messaggio delle braci fosse ancora lontano dai desideri di una società che, stremata dalla Seconda Guerra Mondiale, aveva in fondo solo bisogno di distrarsi. Le vere protagoniste del libro, le braci – o meglio, le candele che bruciano fino in fondo, nella traduzione letterale – sono viceversa portatrici e rappresentanti di uno sguardo nuovo fin troppo rivoluzionario e calato nella realtà. Quasi ci si stupisce che Márai, apertamente ostile alle dittature eppure mai realmente rivoluzionario, né sopra le righe in pubblico, abbia modellato e plasmato un protagonista che, nel fuoco rivoluzionario, pone l’essenza stessa dei suoi discorsi.
La struttura del capolavoro di Márai non è particolarmente complessa ma, fin dalle sue prime descrizioni, è finemente articolata, volta a far percepire sempre di più il senso di attesa che tormenta il protagonista: un’attesa angosciante e oppressiva che coinvolge e alimenta l’ansia del lettore. La sommaria visione che si ha della giovinezza felice, unita alle ossessioni maniacali della sua acida vecchiaia, è densa di un’attesa che non si estingue. Tutte le azioni del generale (così viene chiamato sistematicamente nel corso del libro) non vengono mai compiute di per sé stesse, ma sempre nell’ottica di un evento futuro che di fatto rimane celato fino alle ultime tre pagine. Il generale, tuttavia, non appare mai solo. Da giovane tutto ruota (o almeno sembra ruotare) attorno all’amico quasi perfetto, Konrad, emblema della giovinezza ormai lontana e limitata ai melanconici ricordi, mentre nella vecchiaia il ricordo di quest’ultimo è talmente vivido e ricorrente che, di fatto, la solitudine diventa solo uno schermo. Quando infine il preannunciato arrivo di Konrad si concretizza, tutto sembra precipitare (e questo non fa che aumentare la frenesia del lettore): quarantun anni dopo, l’amico ritorna ma lo fa solo fisicamente, in quanto il suo contributo successivo si riduce a risposte sillabiche o a sguardi enigmatici.
Dice queste cose a voce molto bassa, in tono esitante e di profondo sconforto. Si capisce che quella domanda, che lo ha tormentato per quarantun anni e alla quale non ha mai ottenuto risposta, l’ha pronunciata ad alta voce per la prima volta.
La seconda parte del romanzo si sviluppa nell’arco di una serata, di gran lunga più estesa rispetto a quelle che possono essere le consuetudini dell’età senile. Konrad raggiunge il generale a cena e il tanto atteso ricongiungimento fra i due vecchi amici si completa nel salotto, ove i due siedono a dialogare per più di sei ore. Il dialogo tuttavia si rivela un monologo del protagonista. Il mondo che era stato finora trasmesso al lettore crolla inesorabilmente, disvelando accuse reciproche clamorose e impensabili. Konrad, che fino a quel momento appariva come un artista per antonomasia, solitario eppure mai rancoroso, mite ed incapace di avventurarsi oltre un semplice spartito musicale, ammette senza indugio di aver tradito il suo amico, andando a letto con sua moglie e di aver persino provato ad ucciderlo. La lentezza geniale con cui Márai conduce il lettore a queste scoperte, colmando l’attesa con analisi filosofiche del genere umano, è talmente azzeccata che non ci si stupisce neppure troppo della rivelazione.
Oltre al tema centrale del testo, ovvero la degenerazione lenta ma inevitabile di un’amicizia prettamente maschile, la grande opera di Márai può essere letta non solo alla luce del rapporto che lega il generale e Konrad, ma anche e soprattutto nella fisionomia del generale stesso. Ed è proprio il generale ad aiutarci a comprendere una personalità, la propria, tanto ermetica quanto sfaccettata. Nel corso del lunghissimo monologo, di fatto lo sfogo di una vita, egli parla spesso di sé in terza persona, definendosi come un ingenuo fortunato in gioventù, consapevole della fortuna che aveva (piaceva a tutti e a tutte) ma anche illuso di poter sopportare il grave peso che la fortuna porta con sé. Piacere a tutti infatti vuole anche dire non piacere a nessuno.
Probabilmente pensavi – certo in maniera non esplicita, ma vaga e saltuaria – che un beniamino del mondo, uno che godeva delle simpatie di tutti, avesse in sé qualcosa della prostituta.
Se da giovane era la sua più grande virtù, è altrettanto facile per il generale accorgersi che è la stessa prostituta che vive in lui a essere diventata una delle ragioni per le quali la «donna migliore che avesse mai incontrato» non lo ama più, anzi, non lo ha mai amato. Come già detto, l’introspezione nei quarantun anni di attesa, è maniacalmente profonda. Il generale conosce tutto del suo animo, conosce i suoi errori, forse conosce già anche le risposte alle domande che pone a Konrad nel finale del suo monologo, che in fin dei conti sono le ragioni di questa infinita attesa.
È evidente a questo punto l’immedesimazione tra il protagonista delle braci e il suo autore. Il lungo monologo che percorre gran parte del libro è di fatto una seduta psicanalitica, nella quale Márai sembra stuzzicare il suo stesso Io, mettendolo alla prova, creando la nemesi perfetta e personificandola nell’amico Konrad. Lo scrittore ungherese pubblica il romanzo prima del suo ultimo grande esilio, dovuto a ragioni politiche, ma si può certamente considerare il generale come uno specchio in cui scorgere il riflesso malinconico di Márai.
Non sono poi così diverse, infatti, le ragioni che spingono il generale e l’autore a due fughe, distinte nella forma ma non nella sostanza: una in giro per il mondo, quella di Márai, una nella clausura della propria abitazione, quella del suo alter ego. Sono entrambe inevitabili conseguenze di un’incapacità di abitare il mondo esterno che li circonda. Apparentemente, entrambi “superano” questo problema, per quanto con soluzioni diverse, riuscendo a superare quella insostenibilità: il generale vendicandosi sull’amico/nemico, Márai sfogandola nell’attività letteraria.
Sia Konrad che il generale, così come il loro autore, vivono, prima di divenire braci, ponendo i propri dilemmi esistenziali in relazione agli altri. Nella postfazione al libro, Marinella d’Alessandro ne ricorda un elemento essenziale, ovvero che quella di Márai è una «peregrinazione», anzi, un’eterna peregrinazione, in cui continua a ricercare la meta fuori di sé e nella quale vaga, conscio di dover persistere nel farlo, perché «lo statico mondo di fuori non ci appartiene». È proprio così che la candela si è consumata, diventando brace; ha resistito fin tanto che ha avuto ragion d’essere quell’esterno in cui vagabondava e nel quale si sentiva perennemente estraneo.
Non sapendo resistere realmente da solo, il protagonista/scrittore individua sempre lo sconforto fuori da sé, estraneo a sé. La sua vita è talmente indirizzata verso un unico fine che, al suo raggiungimento, il peso della libertà – che scopriamo proprio in questi giorni, si misura anche nel saper vivere con sé stessi – è troppo per essere sopportato. L’epilogo sembra segnato. Dopo aver varcato le soglie di una illusoria pace con il mondo, tutti e due sono ben consapevoli che, a quel punto, non li attenda altro che la morte: Sándor Márai si ucciderà con un colpo di pistola alla tempia nel 1989.
Ormai non ci resta più molto da vivere, dice di punto in bianco il generale, come se tirasse le somme di una discussione svoltasi in silenzio. […] Ci hai riflettuto bene, non è vero? Ma poi sei tornato, perché non potevi fare diversamente. E sapevamo entrambi che ci saremmo incontrati ancora una volta, e che poi sarebbe stata la fine.
Gentile, non trovi l’opera cupa e dominata da un onanismo intellettuale vuoto e potenzialmente contagioso, per un lettore non maturo? Romanzi come questo, a mio modesto avviso, non andrebbero pubblicizzati, tanto più se passati già sufficientemente alla graticola di generazioni solipsistiche e prigioniere, esse stesse, del loro vuoto agnostico condiviso. Con affetto