di Giovanni Isetta
Nel mese di maggio si è tenuta a Padova la VI edizione del Convegno Scientifico Internazionale di Neuroetica (coincisa con il primo Congresso della Società italiana di neuroetica e filosofia delle neuroscienze, SINE). Il convegno, dal titolo “Uno sguardo da quale mente? La prospettiva della neuroetica”, si è sviluppato nell’arco di tre giornate durante le quali sono intervenuti i principali esponenti del dibattito italiano – Michele Di Francesco, Mario De Caro, Diego Marconi, Roberto Mordacci, Pietro Pietrini, Laura Boella – ed internazionale – Michael Gazzaniga, Hilary Putnam, Pierre Jacob, per citarne alcuni. I principali temi affrontati hanno riguardato la questione della mente estesa, il rapporto tra neuroscienze, genetica e diritto, la questione dell’empatia e delle neuroscienze sociali. Ogni dibattito meriterebbe un approfondimento a se stante, che però non si addice alla brevità di questo articolo. Prenderò perciò in considerazione solo alcuni dei 29 interventi presentati da ricercatori e dottorandi (filosofi, psicologi, neuroscienziati,…) durante le sessioni pomeridiane parallele tenutesi nelle due aule Nievo e Vigini (ovviamente essendo in sezioni parallele ho potuto seguire solamente parte delle presentazioni). Attraverso un rapido riassunto delle questioni emerse durante il convegno cercherò di far emergere delle suggestioni sul tema della responsabilità e la sua problematizzazione da un punto di vista neuroscientifico.
L’uso di tecniche di visualizzazione cerebrale, che permettono di generare raffigurazioni del cervello mentre è attivo, hanno permesso di stabilire un forte legame tra il cervello e il nostro comportamento. Nozioni come quella di libero arbitrio, di responsabilità, di identità personale, di autonomia, hanno subito un radicale cambio di prospettiva dovuto alle ricerche neuroscientifiche, le quali tendono a ridurre in modo sempre più preciso il nostro modo di agire e di compiere delle scelte a meccanismi neuronali scientificamente misurabili. La conseguenza di ciò è la sempre più evidente portata politica e sociale delle neuroscienze: basti pensare al fatto che tali ricerche hanno aperto alla possibilità futura di stabilire scientificamente se una persona sta mentendo o meno, con ovvie ed importanti implicazioni giuridiche; oppure si pensi alla possibilità offerta dalle neuroscienze di individuare oggettivamente il grado di predisposizione di una persona a compiere atti criminali; o alla creazione di protesi cerebrali per la cura e il potenziamento delle attività cognitive.
L’aspetto politico su cui vorrei soffermarmi è l’imminente eventualità di un utilizzo di prove neuroscientifiche nella valutazione della responsabilità soggettiva nei processi penali. Se la possibilità di giudicare un uomo responsabile, o meno, d’aver commesso un certo crimine si fonda in parte sulla possibilità di stabilire il suo grado di consapevolezza al momento dell’atto, allora poter osservare i correlati neuronali attivi durante i processi decisionali e motivazionali di quest’uomo può fornire importanti indizi da collegare alle altre valutazioni psicologiche già in uso, al fine di stabilire la sua ‘reale’ responsabilità soggettiva.
Possibilità come queste, per quanto limitate ad una situazione processuale, possono essere viste come un sintomo di una migrazione del significato comune del concetto di responsabilità: quello secondo cui si è responsabili delle conseguenze di un determinata scelta, operata in un determinato stato di consapevolezza. Numerose prove sono state presentate a sostegno del fatto che esista un controllo inconscio dei processi decisionali, pensiamo ad esempio al famoso esperimento di Libet che constatò uno scarto temporale di circa 250 mms fra l’attivazione delle aree cerebrali del movimento e la successiva consapevolezza dell’agente di voler svolgere l’azione. Se allora, estremizzando, ogni nostra azione è preceduta da processi neuronali che non possiamo controllare nel loro compiersi, ciò significa che la responsabilità delle nostre azioni va ricercata non tanto nella possibilità cosciente di operare una scelta, ma piuttosto nelle modalità con cui noi abbiamo formato precedentemente quei processi che inconsciamente, ora, ci portano ad avere un determinato comportamento. Un tale spostamento del concetto di responsabilità non si produce in maniera soggettiva, come ad esempio nella psicanalisi, dove il soggetto è chiamato autonomamente a prendersi a posteriori la responsabilità di ciò che è stato, ma avviene invece ad un livello neurocognitivo, che si ritiene in un certo senso senso capace di “misurare” e valutare scientificamente la responsabilità “soggettiva” di un individuo attraverso l’analisi dei suoi correlati neuronali.
Rispetto a questo punto è interessante la questione posta durante la presentazione di una ricerca riguardante lo studio delle azioni compiute durante la fase REM. In questa fase l’attività del cervello è situata in zone cerebrali molto simili allo stato di veglia, con la differenza che i contenuti generati non sono soggetti a restrizioni di tipo morale (possiamo sognare di violentare o uccidere qualcuno ad esempio) con la conseguenza paradossale di considerare il possessore di tale cervello maggiormente responsabile di tali contenuti in quanto non filtrati da vincoli morali estranei alla sua ‘vera natura’. Tali contenuti possono causare delle azioni fisiche che generalmente sono soppresse tramite una paralisi del corpo, ma ci sono casi di persone che non sono soggette a questa inibizione e che durante questa fase si muovono violentemente e, in alcuni casi, sognando di uccidere o compiere violenza (durante la presentazione ne sono stati mostrati alcuni video). Sorge così una domanda: nel caso in cui, durante un tale stato neurocognititvo, i movimenti di un determinato soggetto causino violenti danni, o al limite la morte, di una persona, tale soggetto è moralmente responsabile di tale lesione, considerando che le zone attive del cervello nella fase REM sono quasi sovrapponibili a quelle attive durante la veglia, con l’unica differenza che non soggette alle stesse restrizioni?
Questo problema ha destato non poche perplessità durante l’esposizione al convegno, in particolare a causa dell’impiego poco chiaro di concetti come quello di conscio e di inconscio che, nella prospettiva appena accennata, rischia di eliminare completamente una tale distinzione, in favore di un inconscio studiabile oggettivamente e scientificamente.
Molte sono le critiche che si possono muovere a prospettive così legate a sperimentazioni che limitatamente tengono conto della complessità della realtà quotidiana, quella in cui ognuno di noi si trova a compiere scelte e ad agire. Non per questo è però da sottovalutare l’importanza che le scoperte sul cervello hanno acquisito in questi decenni grazie alle cruciali scoperte sulla sua formazione, sul suo funzionamento e sulle implicazioni che queste hanno avuto sul modo di intendere l’individuo. Come osserva Alberto Oliverio in Prima lezione di neuroscienze, “nel giro di pochi anni, l’impatto delle neuroscienze sulle scienze umane ha assunto dimensioni crescenti, quasi invasive”. Ci si trova di fronte alla necessità di acquisire un linguaggio e delle conoscenze che permettano di poter interagire con queste scienze, acquisendo così la capacità di gettare uno sguardo critico sull’attuale situazione politica, economica e socio-sanitaria. Ho tentato, in modo limitato e solamente abbozzato, di darne un esempio con lo spostamento in atto del concetto di responsabilità che un certo discorso neuroscientifico sta portando alla luce nella nostra società.
Sicuramente andrebbe anche precisato che, allo stato attuale delle conoscenze, la capacita’ di stabilire un legame di casualita’ tra quello che avviene nel nostro cervello e quello che effettivamente facciamo, è molto limitata. E’ come decidere se sia nato prima l’uovo o la gallina. Il piu’ delle volte si riesce a concludere che, quando facciamo qualcosa, succede qualcosa all’interno del nostro cervello (I cosidetti studi correlazionali). I temi etici indubbiamente ci sono, ma sarebbe grave non considere che gran parte di quello che facciamo e’ poi incapsulato in un contesto socio culturale che spesso ha un contatto molto pu’ immediato con le decisioni che prendiamo. La rivoluzione create dalle neuroscienze ha un valore importante ma posso garantire che comportamenti largamente complessi come la coscienza di sé e la responsabilita’ sono ancora anni luce lontani da una chiara definizione e predizione.
La ringrazio per la precisazione che condivido interamente. Credo comunque che la ricerca neuroscientifica e le possibilità aperte da essa stiano avendo degli effetti che vanno ben oltre la loro sfera disciplinare e che il sapere legato a questo tipo di conoscenze stia già influenzando parte dei discorsi inerenti a contesti socio-culturali, politici, filosofici, economici, sanitari ecc. al di là della loro possibile, definitiva dimostrazione scientifica.
Vi consiglio, sull’argomento, la serie Tv “Dollhouse” di Joss Whedon.