di Ruben Salerno
Il pavimento comincia a vibrare. Forse è la volta che parte, penso. Una nuvola nerastra e l’odore di diesel sembrano darmi ragione. Il motore gracchia, surriscaldato dal caldo di luglio. Saranno dieci minuti che me ne sto qui, sul cemento rovente di Piazzale Roma, con un piede sulla pedana d’ingresso dell’autobus, a marcare il territorio. Non posso rischiare di perdere il posto vicino alle porte, ma neanche morire lessato.
Non appena entro, la temperatura raggiunge centoquattro gradi Farenheit. Aperte o chiuse che siano le porte, fa poca differenza. La bolgia di ascelle, scarpe e respiri assorbe ogni molecola di ossigeno, restituendo in cambio vapore acqueo e miasmi di deodorante. Alle mie spalle, in uno spazio che dovrebbe sì e no contenere tre persone, salgono altri cinque passeggeri, tra i quali un pakistano e una ventenne. Un paio di persone più in là, vicino alla finestra, oltre la paretina di plaxiglass che separa il sedile dalle porte di ingresso, c’è una piccola teca con dentro un martelletto rosso e, sopra, la scritta “Usare in caso di emergenza”.
Mi abbandono al sostegno meccanico della folla, i piedi ormai hanno perso la loro naturale proprietà stabilizzatrice. La ragazza, bionda e bella, da pubblicità di profumi, è assorta nel suo schermo luminoso, come se non ci fosse niente intorno. Ma l’estasi della vista lotta con il ribrezzo dell’olfatto, dev’essere il pakistano. Non ho neppure idea se sia davvero del Pakistan; dai lineamenti e dalla statura potrebbe anche essere indiano, bengalese o indonesiano, mille chilometri più, mille chilometri meno, che ne so, ma emana un odore ineludibile anche per i campioni del politicamente corretto. Mentre mi vergogno dei miei pensieri, tentando di divincolarmi dalla morsa dei corpi caldi e sudati, l’autobus parte. Finalmente.
Nell’autobus il tempo sembra non passare. Fuori invece, oltre le porte e la strada, scorre veloce, battuto con i remi dai vogatori in mezzo alla laguna. Quel ripetersi cadenzato ha un potere ipnotico. Li vedo tutti i giorni, passando sul Ponte della Libertà, sempre lì a faticare, incuranti di maree, sole, pioggia o caigo. Oggi li invidio, imprigionato come sono in questo carro bestiame a gasolio.
Mi mancano solo due fermate per scendere, ma il compressore dell’aria che aziona le porte va in avaria. Grazie Murphy. Era da qualche minuto che continuavano ad aprirsi e chiudersi senza sosta, come in preda a un raptus meccanico, poi, tutto a un tratto, si sono bloccate. Chiuse. Il pakistano vuole scendere e comincia ad inveire contro il conducente, interpretando la sua lentezza nel risolvere il problema come l’ennesima forma di discriminazione. In risposta alle accuse, non del tutto infondate, l’autista replica bestemmiando in veneziano. Dice che siamo bloccati dentro.
Una legge fondamentale della fisica, e qui Murphy non c’entra, postula che in un sistema isolato, all’interno del quale avvengano trasformazioni naturali, l’entropia tenda sempre ad aumentare. Con il caldo che fa qui dentro, di trasformazioni naturali c’è ampia scelta, e l’alone umido sulla mia maglietta è solo una delle prove. L’entropia non tarda a diffondersi: gli altri passeggeri, da un atteggiamento rassegnato e silenzioso di sopportazione dell’afa, scaturiscono in una rivolta. Si agitano, sbracciano e gridano in preda al panico, neanche servisse a qualcosa. La bionda carina intanto documenta la situazione, filmando con il telefono, vai a sapere che possa attirare qualche like. Prendo l’iniziativa. Mi apro la strada sbracciando tra borse, gomiti e ascelle sudate, verso una delle finestre. Poi faccio l’unica cosa da fare nelle situazioni di emergenza, prendo uno di quei martelletti rossi dalla teca e rompo il vetro. Lo colpisco tre volte, l’intera finestra si sgretola in pochi secondi.
Abbandonato il mezzo in panne, la folla stranita si accalca intorno alla fermata, in attesa del prossimo autobus. Io continuo a piedi.