di Silvia D’Autilia
Sia nel mondo reale che nel mondo social giudico costruttivo un confronto, quando è in grado di mettere in discussione i miei punti di vista e farmi notare prospettive che non avevo considerato. Con l’entrata in vigore – il 4 dicembre – dell’ultimo Dpcm, fatta eccezione per i rientri alla propria residenza o al proprio domicilio, sono stati vietati per le festività natalizie gli spostamenti tra Regioni, finanche per la necessità di raggiungere la propria famiglia e gli spostamenti da un comune all’altro nei giorni 25, 26 dicembre e 1 gennaio. Ebbene, leggendo e scambiando pareri con altre persone a questo riguardo sono rimasta scoraggiata dall’esilità di buona parte dei confronti e dalla magrezza dei principali contenuti. In pratica, in quasi ogni spazio di discussione (tra quelli cui solitamente partecipo), a chiunque faccia notare il disagiante decisionismo del Dpcm viene replicato che “con 993 morti pensare al Natale è da stupidi” (Sic!).
Ora, io non so se pensare al Natale sia da stupidi o da saggi. So però che, senza ipocrisie, è da uomini e donne, bambini e bambine, che appartengono al genere umano. Con delle emozioni e delle affettività. È da persone che chiedono un briciolo di normalità dopo un annus horribilis che le ha catapultate in una dimensione di esilio e confinamento. È da esseri viventi che, oltre a contrastare il virus, hanno ancora un residuo di vivacità da esprimere e credevano forse di trarre dalle festività una boccata di ossigeno e serenità. È di questo che bisogna vergognarsi? E che penitenza merita una simile colpa?
È sottointeso, la colpa consisterebbe, per i rigoristi, nel non vedere che senza queste limitazioni la situazione sanitaria ritornerebbe rapidamente fuori controllo. Eppure se, come diceva Montesquieu, la vera causa della tirannia sta nell’apatia del singolo cittadino prima ancora che nelle azioni scellerate dei governanti, credo sia doveroso – in questo momento più che mai – dare voce alle perplessità che testimoniano ancora di un voler vivere; dare un po’ di respiro al desiderio, non ancora del tutto estinto, di vita e rapporti umani che trascenda il mero sopravvivere cui la pandemia ci costringe.
Se nelle prossime righe commenterò concretamente quel che giudico irragionevole delle misure, tengo tuttavia a premettere che, ben più che le misure nel loro specifico, a preoccuparmi sono soprattutto i soloni dell’integrità, i patrocinatori del bene comune. Quelli che lanciano accuse d’insensibilità e biasimo verso chi “non ha a cuore gli altri”. Come se tutti gli anni precedenti a questo, invece, loro avessero trascorso un Natale più sobrio e raccolto, nel rispetto di chi ad esempio moriva in mare o di chi, come si sente nel ritornello ormai roboante, “sta peggio di noi”.
Ora, entrando nel cuore della questione, la primissima domanda che viene spontaneo porsi è se le misure previste per “la tutela della salute degli italiani” facciano rientrare in quello stesso concetto di tutela della salute anche i malesseri psicologici che derivano dai provvedimenti stessi. Fa sempre sorridere, nei vari telegiornali e testate giornalistiche, trovarsi, dopo fiumi di notizie al limite del terrorismo psicologico su contagi e morti da Covid-19, l’articoletto sul boom di depressioni connesse alla condizione di esilio che da ormai un anno stiamo vivendo. A livello mediatico si è consumata in questi mesi una vera e propria gara a chi riesce ad accaparrarsi prima la notizia che fa più scalpore, o meglio, a chi riesce a trasmetterla e comunicarla con più allarmismo. Come volevasi dimostrare, anche le disposizioni di questo ultimissimo Dpcm rientrano negli identici schemi di allerta precauzionale, ovvero scongiurare una terza ondata del contagio, e poi una quarta con Carnevale, e poi una quinta con Pasqua e così via, sino ad arrivare nuovamente a Ferragosto in cui, toh, le persone vanno un po’ al mare, che sconsiderate!
Ma procediamo nel dettaglio con la seconda questione. Se alle famiglie costituite da componenti che vivono in comuni diversi è fatto divieto di ritrovarsi il giorno di Natale, mentre ciò è permesso a quelle che per pura casualità vivono nello stesso comune, questo implica una evidente disparità della norma, un’incongruenza per cui le seconde risultano oggettivamente privilegiate e le prime mortificate. Tutto ciò malgrado il fatto tragicomico che, in certi casi, a dividerle ci siano soltanto 200 metri. Insomma, le famiglie potranno sedersi a tavola insieme “a macchia di leopardo”, semplicemente in base alla fortuna di aver preso casa (o meno) nello stesso raggio comunale dei propri genitori o dei propri figli.
Terzo. Vietare che nei giorni 25, 26 dicembre e 1 gennaio possano avvenire spostamenti tra un comune e l’altro significa fomentare che questo avvenga nei giorni immediatamente precedenti, allungando così – invece di abbreviare – la durata di assembramenti e convivenze festivi (e con essi le occasioni di gioiose tombolate e banchettate prima e dopo il mero pranzo di Natale).
Quarto. Le disposizioni prevedono l’ormai fatuo “salvo eccezioni” per salute, lavoro e comprovata necessità. Una clausola che ci portiamo dietro dal primo lockdown e che non smette di destare stupore, considerato che esistono un’infinità di casi che possono essere fatti valere come valide eccezioni.
Quinto. Non essendoci evidenza che il solo uscire di casa basti a contagiare e diffondere il virus, si cerca di definire a tavolino quali “uscire di casa” siano tollerabili e quali no. Ne risulta, in modo del tutto arbitrario, che è intollerabile recarsi dai propri cari per le feste, mentre è da considerarsi tollerabile spostarsi quotidianamente per “salvare il salvabile dell’economia”. Prendiamone atto. Personalmente ho sempre sostenuto le ragioni delle categorie lavorative che in questi mesi si sono ribellate al soffocamento della domanda, eppure in questo caso non riesco proprio a comprendere come si possa plaudere a misure che antepongono le “necessità” degli acquisti natalizi al bisogno – considerato evidentemente secondario o accessorio – di ritrovarsi a Natale con le proprie famiglie e i propri affetti più cari. Chi sottoscrive queste misure sulla base di un qualche “senso etico”, dovrebbe forse guardare con coerenza alla propria invocazione e chiedersi se davvero questo modo di ordinare le “priorità” dei cittadini abbia alcunché di etico, o se non persegua piuttosto un’ostinata e perversa logica consumistico-economicistica.
Sesto. A questo punto, dopo aver subìto dall’alto l’ennesima lezione su cosa è utile e cosa non lo è – e dopo aver preso atto della priorità della corsa agli acquisti su tutto il resto – sono già pronta il 6 gennaio a sentire se gli italiani saranno stati bravi o cattivi, in base alle pieghe che prenderà la curva dei contagi. Pare veramente che nelle nostre vite non ci debba proprio più essere nulla di umano, di affettivo, di incalcolabile, ma solo comportamenti da biasimare o approvare in funzione del virus.
Quale alternativa si poteva mettere in campo? Non legiferare affatto sulla ricostituzione dei nuclei familiari, se non altro di quelli diretti; o tuttalpiù prevedere un tampone negativo obbligatorio per chi provenisse da regioni a rischio o si riunisse dopo mesi con i propri cari. Poi: autocertificazione, distanziamento e protezione dei più anziani fin nelle mura domestiche.
Si replicherà che, agendo in questo modo, si avrebbe sottoposto le aziende sanitarie a un carico di testing e tracciamento troppo oneroso, eppure chiunque abbia figli ricorderà la situazione di settembre, quando per un solo “moccolo” di ciascun bimbo dell’asilo partivano protocolli Covid a raffica e senza trattativa.
Detto tutto ciò (di pancia e d’impulso), probabilmente non cambierà nulla: vorrò sempre sentire e comprendere le ragioni dei miei interlocutori, da quelle che con razionalità dimostrano l’indubbia sensatezza della priorità sanitaria, sino a quelle che scivolano nell’ostinato giustificazionismo di ogni decisione governativa; porterò rispetto per le morti; proverò empatia per i ricoverati; apprezzerò la fortuna di sapere che i miei cari (lontani più di quattrocento chilometri) stanno bene; soffocherò come posso la paura che fra un mese o due possa succedergli qualcosa senza che io possa raggiungerli e senza che io abbia potuto farlo almeno per Natale, e fingerò persino di non sapere che per tante persone, soprattutto di una certa età, la gioia di un abbraccio ai propri figli e nipoti vale molto di più della continuativa e ormai prolissa tutela della propria incolumità fisica, nel segno di quello che ormai è definibile “ il biologicamente corretto”. Mi sforzerò e mi impegnerò.
Eppure, poiché credo che nessuna misura a tutela della società possa spingersi a tanto, non potevo e non potrò mai mettere a tacere il disappunto verso una norma o presunta tale che impone di non poter vedere e riabbracciare i propri genitori quando lo si desidera e soprattutto quando se ne ha più bisogno. Se non altro che si possa dire questo, che questo “lamento” non sia condannato e strumentalizzato… Almeno a Natale.