di Marco Bussani
(Illustrazione di Ilaria Pranzetti)
Nel film V per Vendetta, dopo che V ha deciso di inviare la propria maschera alla popolazione, l’ispettore Finch parlando con il suo secondo cade in una specie di trance. L’ispettore racconta allora che a Larkhill, centro di sperimentazione dove “nasce” V, ha avuto “l’impressione che tutto fosse collegato”. Per poi aggiungere “Era come se potessi vedere tutto, una lunga catena di eventi che risalivano a molto prima. Mi è sembrato di poter vedere quello che era successo prima. E quello che ancora deve succedere. Era come uno schema perfetto, disposto davanti a me. E mi sono reso conto che ne facciamo tutti parte. Che siamo tutti intrappolati.” Al che il suo vice gli fa: “Allora lei sa che succederà capo?” Risposta: ”No. È stata una sensazione. Ma posso provare a indovinare….”
Vorrei aprire con “V per Vendetta” perché a volte anch’io, leggendo le notizie da siti, giornali, riviste, tv, ho la stessa vertiginosa sensazione, lo stesso prurito dell’ispettore Finch. Non parlo della “visione” allucinatoria di qualche strano complotto (qui si spezza infatti l’analogia con il film), quanto piuttosto della strana omogeneità, del sottile filo rosso che accomuna molte delle notizie che possiamo leggere sui vari organi di informazione. Per condividere il peso di questa semi-ironica epifania mi piacerebbe soppesare insieme due recenti notizie che ho tratto dal sito dell’Ansa (intorno a fin gennaio) nella speranza di esorcizzare questa sensazione grottesca, questo dejavù che mi pervade e mi tormenta semi-seriamente.
La risposta è dentro di te, ma è sbagliata
Torno a casa dal lavoro, è sera, scorro un po’ le notizie dell’Ansa. La prima che vedo, racconta che l’Istat ha certificato – una volta di più – che la pressione fiscale in Italia pesa in modo del tutto squilibrato su persone fisiche e famiglie. È da quando ho memoria che ci si lamenta del fatto che la pressione fiscale in Italia è troppo alta, che questo penalizza la nostra economia e le nostre imprese, che dovremmo ridurla in qualche modo e da qualche parte. Mi aspettavo quindi il solito calcolo dell’Istat sulla pressione fiscale, magari comparato con qualche altro dato europeo, tipo la media e la situazione in Francia e Germania. Mentre leggo la notizia invece rimango abbastanza sorpreso, scopro infatti che secondo l’Istat: “Il sistema fiscale italiano è ‘fortemente sbilanciato’ su individui e famiglie, mentre nei confronti delle imprese l’Italia è il terzo paese per imposizione fiscale più bassa dopo Lettonia ed Estonia”. Inoltre, continua l’Istat
Le imposte sui redditi di individui e famiglie pesano per il 27,5% delle entrate totali, mentre quelle sui redditi delle imprese si fermano al 4,6%. […] Questo sbilanciamento è condiviso con la totalità dei paesi europei (eccetto Cipro), ma un gap superiore a 20 punti si registra, oltre che in Italia, solo in Danimarca, Finlandia, Svezia e Lettonia
Certamente per gli esperti del settore ciò non avrà nulla di stupefacente, ma io l’ho trovato invece al limite dello sconvolgente. Si è parlato e si parla molto – da tempo – di flat-tax, mentre la realtà è questa. La cosa più incredibile è che si parli “tassa piatta” indifferentemente per Amazon e per un piccolo tabaccaio, come se queste imprese fossero semplicemente su differenti scalini di una stessa grande piramide – le magie dell’ideologia. La pressione fiscale sulle imprese certamente non è poca, soprattutto per quel che concerne le imposte sul lavoro dei dipendenti, ma la cosa curiosa è che questa pressione non è uguale per tutti i tipi di impresa. Per qualche strano motivo la pressione fiscale è più alta per le piccolissime imprese (che in molti casi non riescono nemmeno più ad assumere operai, e si reinventano a conduzione familiare), di quanto non pesi sui grandi colossi di delivey, o hi e big tech. L’ispettore Finch indaga, ma gli serve un altro punto per tracciare una riga.
Legge sullo smart-working e sul diritto di sconnessione… rinviata a quando si tornerà in ufficio
Dopo questa prima notizia, continuo a scorrere la home page dell’Ansa e ne trovo una seconda. Il titolo mi scalda il cuore. Nell’ultimo anno mi sono occupato molto di lavoro telematico, che come molti ho provato sulla mia pelle. E devo dire che leggere di un costituendo “diritto alla disconnessione fuori dall’orario di lavoro” mi pare un buon primo passo, quasi incoraggiante – poiché reputo che lo smart-work al momento abbia non pochi punti critici su cui riflettere.
Poi, come avrete già intuito dal leitmotiv dell’articolo, arriva il brivido:“Ma un emendamento chiede il rinvio del varo di una norma Ue”. Ok, sono prevenuto, sarà un tecnicismo del Parlamento Europeo – mi dico, continuo a leggere con attenzione e speranza. E scrollo sotto l’immagine.
BRUXELLES – Fuori dall’orario di lavoro si ha tutto il diritto di spegnere telefonini e computer, ovvero di disconnettersi dagli apparati elettronici normalmente utilizzati per svolgere le proprie mansioni. E’ quanto sancisce una risoluzione approvata a larga maggioranza dal Parlamento Europeo. Gli eurodeputati hanno dato luce verde al testo, accompagnato da una proposta di direttiva sul tema, messo a punto dell’eurodeputato maltese socialdemocratico (S&D), Alex Agius Saliba, con 472 voti a favore, 126 contrari e 83 astensioni. Insieme alla risoluzione è stato però approvato un emendamento – presentato dai popolari del Ppe e duramente contestato dalla Confederazione dei sindacati europei Ces – che chiede alla Commissione Ue di posticipare di almeno per tre anni qualsiasi azione legislativa sulla materia.
Fino alle 83 astensioni, bene. Poi sono “dubbioso” e inizio a pormi una serie di domande, del tipo “… se lo smart-work è piombato così violentemente nelle vite di molti per via dell’emergenza covid, che caspita di senso ha posticipare di tre anni qualsiasi azione legislativa sulla materia – per altro su un voto con una maggioranza così schiacciante?!”. Poi vedo che sono quelli del Ppe ad aver fatto rinviare la misura, e allora per correttezza e perché non sono mai troppo sicuro di quello che penso di sapere, controllo su google quali sono gli esponenti più importanti del Ppe negli ultimi anni. Il vicepresidente è Antonio Tajani, ho imparato qualcosa di nuovo. E mi sono tolto anche quel minimo dubbio che avevo sulla qualità umana dei responsabili di questo rinvio.
Come se tutto fosse collegato… Detective Finch
Per tornare a “V per Vendetta”, alla mia serata e all’ispettore Finch devo proprio dire che “…è stato strano”. Così, come in una specie di epifania, di colpo mi è venuta in mente la polemica di questo inverno, quando per un attimo è balenata nel dibattito pubblico la “folle” idea della patrimoniale, subito ritirata. Poi, a ruota, ho pensato al fatto che in moltissimi in Paesi la scuola in presenza è sempre stata messa al primo posto, non solo “i settori chiave dell’economia” e basta – e per il resto tante grazie e alla prossima. Ho visto poi lo stato del lavoro attuale – umiliante, la sicurezza sui posti di lavoro – una barzelletta, una freddura (triste come la certezza che nessuno farà rispettare le cose scritte sul contratto di un lavoratore precario). “Se hai problemi quella è la porta; un altro che lavora al posto tuo lo trovo subito”, o la versione light di questo bel motivetto -“Bhe… di ‘sti tempi un lavoro è un lavoro” – frasi che quasi tutti conosciamo fin troppo bene.
Infine, mi viene in mente una bella immagine, il luogo di ritrovo – l’unico quasi – che la mia generazione (di quasi trentenni) ha conosciuto: il bar. Un luogo che però nel frattempo, durante la pandemia, si è trasformato in una Gerusalemme da liberare da orrendi e purulenti untori mai sazi di peccato e malvagità. E poi la crociata contro i runner della prima quarantena, l’indignazione per la movida selvaggia di quest’estate, il silenzio assordante sul trattamento dei lavoratori per le piattaforme di consegna a domicilio – gli unici a muoversi per la città e a popolare le metro delle grandi città in quei tre spaesanti mesi del primo lockdown. Ma si che vuoi che sia, in fondo è solo un lavoretto, no?
Mi vengono in mente varie “decisioni”, varie “manovre”, varie coperte gettate nel cassonetto, vari atti volti a “eliminare il degrado”… senza il minimo interesse per le cause, senza la minima empatia nei confronti di persone in difficoltà, trattate come polvere da “buttare sotto il tappeto”.
Se il problema sono i barboni che dormono sulle panchine, cosa si fa? Semplice, si fanno panchine in cui non ci si può distendere… . Ma certo! Certo! Come non averci pensato prima….!?
Mi viene in mente l’odierno dibattito su scienza e medicina, dove lo spirito democratico intrinseco al metodo scientifico, lo spirito del confronto, del “fino a prova contraria”, del fatto che la scienza non dice cose false ma è sempre falsificabile, è stato completamente mandato in vacca, buttato via con l’acqua sporca. E ora – cito da un raccapricciante post che gira sui social – “se non sai un cazzo di scienza stai zitto e annuisci, senza se e senza ma, non devi nemmeno fiatare. La scienza non è democrazia, è dittatura finché non ti fai il culo sui libri e riesci a provare il contrario. Ti dà fastidio? Cazzi tuoi, MUTO”. Tipo ipse dixit, il libro sacro e chi lo sa meglio. Un’ istituzione che si autoimplementa, si nutre di sé, senza margine di dubbio possibile.
Il bicchiere è meglio berlo. Le gioie dello scetticismo
Riprendo un po’ coscienza dopo questa specie di trance. Vedo i pezzi sparsi di queste impressioni comporsi spontaneamente come in una montaggio cinematografico. Fuori la situazione è brutta… e pure dentro non è uno spasso. C’è nervosismo. C’è paura. C’è solitudine.
Ma non per tutti è così. Alcuni sono diventati ancora più ricchi. Atri non sono stati toccati da questo 2020 (né dal 2008). Quando sentiamo e ripetiamo certe notizie, certi pareri, certe argomentazioni, sforziamoci di fare quella cosa di cui tutti si riempiono la bocca, ma che quasi nessuno riesce a fare davvero. Si chiama sospensione del giudizio. Riscopriamo il valore di un sano scetticismo – che non è necessariamente ignoranza, indifferenza, follia o deliro complottista. Lo scetticismo, piuttosto, è uno stile, un modo di stare nella vita, di preparasi all’azione concreta, giorno per giorno, nel quotidiano.
Dico tutto questo nella speranza di vedere sempre meno gente che si batte il petto lanciando strali contro la mostruosa idea di una patrimoniale, mentre magari – come molti di noi – ha fatto la quarantena in un bel appartamento ammuffito coi metri quadri del ripostiglio del più piccolo garage di Bezos. Il problema è grande, i possibile esempi infiniti. Il problema è che non appena ci troviamo a sapere una cosa, invece di avvicinarla, di renderla una risorsa, invece di servircene per agire o orientarci nella vita, ecco che subito una specie di demone ci chiama, ci obbliga irresistibilmente a usare tutto questo sapere come un disgustoso strumento di potere, come una narcisistica fonte di soddisfazione personale che ricaviamo senza sosta dal fatto di far sentire gli altri stupidi o più stupidi di noi – quando leggono, guardano, parlano, ascoltano, vivono.
Il delirio neoliberista – che vira sempre più decisamente al centro, che ci divide e ci imbambola, che ci manipola spacciando per giuste e sacrosante cose che, a ben guardare, non lo sono affatto – nell’ultima visione di questa strana serata mi schiude un ultima scena. Siamo nel Signore degli anelli, a Minas Thirith, in attesa dell’inevitabile assedio. E noi, tutti noi, siamo Merry (il piccolo hobbit), che ha l’incarico insieme insignificante e fondamentale, di accendere il fuoco. Il fuoco – che sarà il segnale, il messaggio, che permetterà alle forze del bene di riunirsi e di vincere la battaglia. Lo stesso fuoco che univa gli ominidi nelle notti di milleni orsono per scaldarsi, per difendersi dal buio e dai suoi mostri, per stare insieme. Il fuoco che possiamo accendere ancora gli uni per gli altri.
Il bicchiere, il calice amaro di questo strano periodo che stiamo attraversando insieme, mezzo pieno o mezzo vuoto che sia, è meglio berlo in compagnia.
Piacevole, dissacrante, profondo. La rima finale è la ciliegina sulla torta. Il piacere di riflettere con responsabilità senza cupezza