di Giulio Giadrossi
(illustrazione di Ilaria Pranzetti)
“Ogni cenere è polline – il calice è il cielo”
Novalis
No way out. Il digitale non è un altrove
Il digitale non è un altrove, un altro mondo che appare sulla scena all’imbrunire e come in punta di piedi. Non è una copia umbratile capace di pervertire l’ordine della realtà terrena, né un codice cifrato per accedere a una comunità altra, a uno spazio sottratto dalla realtà fisica – come si immaginava nell’idea di community virtuale dei primi decenni dell’internet commerciale. Il digitale è piuttosto l’accelerazione di una serie di esperienze già contenute nella condizione mediale. Un’accelerazione che consiste nell’affidarsi a un numero potenzialmente infinito e sempre più complesso di dispositivi in grado di determinare e modificare la nostra esperienza del mondo attraverso una ridefinizione della sua visione, definizione, descrizione e misurazione.
L’accelerare di queste modalità – “Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria” [Karl Marx] – ci rende impossibile rielaborare la totalità dei contenuti e dei dispositivi attraverso cui oggi esperiamo il mondo. A ben vedere però questa condizione non è tipica del nostro presente, come spesso siamo portati a credere. Essa è, piuttosto, una condizione strutturale dell’essere umano e della sua condizione mediale. Ci basti immaginare la vertigine che nell’antichità avrebbe potuto provare un greco di fronte al quantitativo enorme di dati assiepati nella biblioteca d’Alessandria, un luogo che conteneva un insieme di volumi di gran lunga eccedente ogni possibile fruizione da parte di un singolo essere umano.
Chi fa esperienza del mondo attraverso il digitale si ritrova a fruire distrattamente di una molteplicità di frammenti (articoli di giornale online, tweet, status di social network, immagini, video, meme) che devono essere ricomposti come indizi a cui attribuire un parziale e transitorio barlume di senso. Tutto ciò ci pone di fronte a un processo interpretativo basato su un asintotico esercizio di affinamento delle nostre capacità indiziarie. Una tendenza dal sapore vagamente paranoico che, a volte, sfocia nella tentazione di proiettare sul reale lo stesso controllo totale senza centro – peculiare all’intelligenza algoritmica – di cui a nostra volta siamo oggetto.
Il digitale non è il sasso nello stagno di un’esistenza completamente fisica: siamo in un ecosistema di informazioni (l’esplosione di un archivio mobile in una galassia di frammenti). Informazioni che, mentre modificano la nostra interpretazione del mondo, modificano contemporaneamente se stesse attraverso il loro uso e riuso. Ogni nostro clic è una specie di sistole, o di diastole, della bolla infosferica che pulsa e respira con noi.
Chiunque intenda inoltrarsi in un’interpretazione della nostra attuale condizione digitale non può prescindere in primo luogo dall’operare questa basilare distinzione. È importante infatti tenere separati questi due piani: 1) il processo di astrazione e di trasformazione dei fenomeni in “dati”, consentito dall’utilizzo dei calcoli algoritmici, 2) la spettacolarizzazione in gioco nel digitale, promossa anche attraverso l’algoritmo stesso.
La trasformazione dei fenomeni in dati si mescola e confonde con l’informazione e la spettacolarizzazione fino a rappresentare indistintamente la quasi totalità della nostra vita digitale, ma tutto ciò non deve offuscare ai nostri occhi l’assurdità l’indecente e diffusa riduzione del sapere scientifico a infotainment cui abbiamo dovuto assistere in quest’ultimo anno. L’incapacità di discernere e separare in maniera netta il sapere scientifico dalla galassia dell’informazione è infatti letteralmente esplosa durante l’emergenza pandemica, determinando interpretazioni in questioni di natura scientifica, epidemiologica e politica si confondevano e accavallano con le specifiche modalità di diffusione delle informazioni.
Durante la pandemia abbiamo assistito anche alla denuncia, da parte di alcuni, della estrema digitalizzazione delle nostre vite. Una enuncia giunta soprattutto da persone che di colpo si sono viste costrette ad addomesticare forzatamente la macchina digitale. Al punto tale che, a tratti, mi è parso quasi che tale questione andasse a offuscare altri importanti discorsi: sia quelli sulla gravità della crisi economica, sia quelli orientati a comprendere criticamente (e costruttivamente) le modificazioni legate all’intensificarsi della nostra presenza sui nuovi media. Ma una polemica “generica” contro il digitale non fa altro che esporci al rischio di restare intrappolati nella nostalgia di un possibile anacronistico ritorno a una non meglio identificata arcadia predigitale; imbambolati nel vagheggiamento – sempre in agguato – di un mondo immune da fratture simboliche tra individuo e ambiente, a cui un giorno potremmo finalmente fare ritorno.
Hikikomori: un asceta digitale
L’evocazione di miti fondativi e le feticizzazioni passatiste, ben lungi dal valorizzare un presunto mitico sostrato della condizione umana, rischiano piuttosto di ridursi a un rifiuto di comprendere il presente e, con esso, molte antiche questioni in forme nuove. Le istituzioni (intese come l’insieme tradizionale di valori e saperi propri della nostra comunità) sono poste di fronte all’irriducibile bivio tra scegliere di porsi illusoriamente come un freno a questo flusso, invocando un edenico ritorno alla realtà predigitale, o imparare a navigare nella tempesta vedendo le proprie fondamenta a lungo credute imperiture, sciogliersi in tenera sabbia di fronte a questa grande marea.
La sovraesposizione digitale dovuta alla pandemia, ha risputato al centro della scena il pulviscolo digitale nascosto sotto il tappeto delle varie mitologie del “ritorno alla origini”. Non possiamo più sottrarci dall’abitare questo incendio, questo nostro rapporto obbligato con la tecnica che è inscritto nella storia stessa della natura umana. La vita dell’eremita per esempio, connesso ma ritirato nella propria bolla di comunità virtuale, un tempo scelta privilegiata dei santi, ha cambiato senso passando dall’essere sinonimo di persona ai margini della società (vedi gli hikikomori giapponesi), per arrivare a coinvolgere ogni fascia della popolazione e i più svariati ambiti lavorativi.
L’hikikomori, asceta dell’età digitale, forma di vita che siamo stati costretti a imitare nella seconda metà del 2020 (e di nuovo in questi giorni), contiene in nuce le condizioni del nostro futuro, se non, per molti, già, del nostro presente. Egli è membro di una comunità che osserva la cospirazione (il respiro comune) di uno spazio che influisce sulle esistenze non meno di quello fisico, soprattutto quando scocca l’ora della zona rossa: lo spazio digitale. L’hikikomori è il nuovo asceta di un’epoca in cui gli spazi della vita politica sono ridotti a palcoscenico fantasmatico, e in cui si preferisce celebrare il sogno bulimico delle merci al posto di fare vere esperienze vita comunitaria.
Meme e Sciamani
Interessante notare come l’assalto al palazzo del Campidoglio di Washington avvenuto il 6 Gennaio 2021, sia letteralmente il primo evento storico successivo all’esplosione della pandemia che si manifesta alle nostre coscienze sotto forma di meme. Che lo si voglia interpretare come un tentativo di colpo di stato da parte di seguaci del presidente uscente, un manipolo di balordi intossicati da teorie complottiste funzionali agli interessi dell’ultradestra americana, o che lo si voglia semplicemente derubricare a eclatante episodio in cui è esploso tutto il risentimento della classe media americana-bianca, quest’evento si è tradotto nella fissazione memetica di una sopravvivenza neopagana. Parlo ovviamente dello sciamano – ogni epoca del resto ha il Rinascimento che si merita. Un tizio ben più propenso a far mostra del proprio outfit e aiutare i compagni a scattarsi selfie che a mettere a ferro e fuoco con arti magiche il palazzo in cui aveva fatto irruzione.
Siamo evidentemente ben lontani dallo scorgere una sospensione del tempo storico nel tempo della rivolta. Si tratta piuttosto di un tentativo disperato di manifestare il proprio esserci, il proprio abitare la realtà fisica. La rivendicazione della propria esistenza in forma puramente memetica. La morte del sovrano Trump del resto non è avvenuta per ghigliottina, ma con la semplice cancellazione degli account dei principali social network. L’immagine dello sciamano trumpiano emerge da un ecosistema in cui l’informazione (veicolata principalmente da un’immagine associata a un testo di pochi caratteri) è soggetta a incessanti fluttuazioni di significato, fluttuazioni che spesso determinano nel fruitore un atteggiamento non soltanto scettico, ma totalmente apatico.
Questo evento, o meglio, il nostro tentativo di darne interpretazione attraverso una serie di immagini e informazioni è un sintomo preciso del modo in cui il digitale ha modificato la nostra rappresentazione del mondo e ridefinito i concetti stessi di spazio politico, di vita nella città globale, dissolvendo letteralmente molti tradizionali paradigmi peculiari alla realtà “fisica” tradizionale: centro/periferia, vicinanza/lontananza, pubblico/privato.
DAD, nel bene e nel male
Un altro cruciale ambito della vita colonizzato dal digitale in questo assurdo anno di pandemia è stato quello dell’istruzione e dell’educazione. Il sistema scolastico italiano si è visto obbligato a fare i conti con il presente, ma la didattica digitale non può in alcun modo essere considerata un sostituto della didattica in presenza. Essa porta con sé una molteplicità di problemi, non ultimi l’impossibilità di accesso a internet per molte famiglie, la necessità di una riconfigurazione delle modalità didattiche, i disturbi dell’attenzione, l’assenza di una componente umana nell’interazione, la gamificazione dell’apprendimento influenzata da algoritmi non innocui.
Nonostante ciò, questa svolta ha determinato un cambiamento, costringendo il mondo dell’educazione a fare conti questo mondo, in compagnia del quale gli studenti nativi digitali già da tempo trascorrevano un’importante fetta del loro tempo libero. Con questo non intendo assolutamente giustificare l’erosione del senso di comunità prodotto dalla chiusura delle scuole, né tanto meno le politiche di non riapertura degli spazi educativi. Vorrei solo limitarmi a sottolineare come l’istituzione scolastica non abbia mai voluto fare i conti con la presenza immateriale ma ingombrante del digitale, e non per mancanza di strumenti teorici, risorse o personale adeguatamente formato, quanto piuttosto per una strana, spontanea vocazione all’inattualità, per una manifesta intenzione (seppur con alcune rare eccezioni) di non considerare con adeguata attenzione la diffusione dei nuovi media come preziosa opportunità di conoscenza ed esperienza del mondo.
Sono certo che se la pandemia non avesse accelerato i tempi, tolto il lenzuolo steso di fronte a questo grande elefante in una cristalleria, questa enorme contraddizione sarebbe emersa ancora più tardi, forse in un momento in cui la casa sarebbe ormai stata già completamente bruciata. Non prendere in considerazione quanto la vita digitale condizioni l’esperienza della realtà per la maggioranza della popolazione in età scolare, rischia di far apparire gli insegnanti come quei poveri soldati giapponesi che, alla fine del secondo conflitto mondiale, si erano rifugiati nella foresta ignari tanto della sconfitta, quanto della fine della guerra.
Tutto ciò per dire, fuor di metafora, che i discorsi e le pratiche educative che scelgono di non fare i conti con il presente, rischiano di produrre una spaccatura ulteriore in seno all’istituzione scuola. Una frattura grave: tra insegnanti che pretendono di arginare gli effetti deleteri del digitale e studenti che, invece, sono letteralmente venuti al mondo attraverso di esso.
Abitare la casa mentre brucia
Soltanto pochi fortunati possono condurre una vita di totale rinuncia al mondo: coloro che rinunciano asceticamente a rapportarsi con la società civile, e coloro che – infinitamente dotati di risorse materiali – possono permettersi di condurre un’esistenza il cui il legame con la comunità si limiti a quello produttore-consumatore.
Chi invece è costretto – per scelta, destino, semplice istinto di autoconservazione o fascinazione per le cose del mondo – a fare i conti con la vita in comunità, farà meglio a non dimenticarsi mai che il digitale, piaccia o meno, è il più recente e importante tentativo dell’uomo di abitare il pianeta che gli è capitato in sorte.